I primi fumettisti usavano quasi tutti il pennino per inchiostrare le loro matite. È solo con l’avvento di artisti come Noel Sickles e soprattutto Milton Caniff che il pennello diventa protagonista aggiungendo profondità e carattere visivo a questo medium. Permette ai disegnatori di sviluppare uno stile più fluido, emotivo e dinamico, introducendo, grazie ai contrasti tra luci e ombre, una dimensione più espressiva e atmosferica. In Italia, il pennello è stato usato in modo molto personale e variegato. L’uso del pennello per esprimere emozioni e atmosfere è stato particolarmente evidente in artisti come Hugo Pratt e Ivo Milazzo. Con il pennello, questi autori hanno sviluppato un linguaggio visivo che trascendeva il fumetto tradizionale, creando opere che si avvicinavano alla pittura. Nel tempo sono stati diversi i fumettisti italiani che hanno utilizzato in modo personale questo prezioso strumento di lavoro. Ricordiamo qui alcuni dei più significativi. Hugo Pratt Hugo Pratt è stato probabilmente il più grande autore italiano di fumetti. Lo è diventato, fin dai tempi in cui risiedeva in Argentina, attraverso un uso particolare del pennello che potremmo definire astratto. Non è un astrattismo in senso stretto, ma un modo di usare il pennello per suggerire piuttosto che definire, per evocare atmosfere e stati d’animo, più che costruire realtà dettagliate. In Pratt, il pennello non vuole spiegare il mondo, vuole alludere alla sua poesia e al suo mistero. Il segno a pennello di Pratt non rifinisce mai. Al contrario, lascia spazi vuoti, interruzioni, imperfezioni che fanno respirare la pagina. È un disegno in sottrazione, dove l’occhio del lettore deve completare l’immagine. I neri di Pratt sono acquosi, improvvisi e sbavanti. Non sempre “logici” nel modellare i volumi, ma fortemente espressivi. Come se ogni ombra raccontasse un’emozione più che una forma. Gli sfondi spesso si dissolvono. Il paesaggio è accennato con due pennellate, una macchia d’inchiostro, un tratto verticale. È un mondo in perenne metamorfosi, non realistico, ma interno, simbolico. Opera consigliata: Una ballata del mare salato (1967) Galep (Aurelio Galleppini) Alex Raymond ha esplorato nel corso della sua carriera diversi generi fumettistici: la fantascienza, l’avventura e il noir. Non si è mai dedicato al western. Lo ha fatto per lui uno dei suoi “allievi” italiani più famosi: Aurelio Galeppini. Il suo pennello è stato il cuore visivo dell’epopea western all’italiana. Dando forma a Tex Willer, il personaggio più famoso del fumetto italiano, Galep ha saputo trasformare il pennello in strumento di narrazione limpida, naturale, istintiva, capace di trasmettere azione, paesaggio e carattere con una semplicità solo apparente. Il tratto di Galeppini non cerca mai l’effetto. È chiaro, deciso, funzionale alla storia. Ma dietro quella chiarezza c’è un controllo perfetto del pennello, che plasma figure e ambienti con leggerezza e sicurezza. Galep modella la forma in modo spontaneo, con una gestualità quasi classica, da disegnatore che conosce perfettamente il corpo umano, il cavallo, l’albero, la roccia. Opera consigliata: Il figlio di Mefisto (1971). Gallieno Ferri Il fumetto popolare italiano è pieno di disegnatori che con il loro lavoro hanno elevato l’illustrazione per ragazzi alla dignità artistica, uno di questi è senza dubbio Gallieno Ferri. Il suo Zagor ha sempre impressionato per l’estrema qualità dei disegni. Ferri ha saputo usare il pennello in modo pittorico, atmosferico e istintivo, rendendo le sue tavole vive, vibranti, piene di luce e ombra, come se fossero dipinte en plein air in mezzo alla foresta di Darkwood. Il tratto di Ferri non è mai rigido. Il pennello scivola veloce, crea forme non per definizione, ma per evocazione. Il suo è un disegno che respira, che pulsa, che lascia spazio al caso e al ritmo del gesto. Le ombreggiature spesso sembrano quasi improvvisate, ma hanno una forza narrativa incredibile. Sono strappi di luce, macchie vive, zone di silenzio che costruiscono l’ambiente più che i contorni. I personaggi di Ferri non si stagliano mai artificialmente dal contesto. Il pennello li immerge nell’ambiente. La figura è parte del tutto, come nei quadri impressionisti: non c’è gerarchia tra soggetto e scenario, ma una fusione lirica. Opera consigliata: Odissea americana (1972). Magnus (Roberto Raviola) Magnus ha lasciato un segno indelebile sul fumetto italiano e lo ha fatto attraverso il pennello. Un pennello di una precisione chirurgica che riusciva a tracciare linee perfette a uno strumento solitamente indomabile. Il suo stile, minuzioso e ossessivo, eleva l’uso del pennello a pratica zen, a rituale di controllo assoluto, in cui ogni linea, ogni ombra e ogni tratteggio vive in una geometria quasi maniacale, ma mai sterile bensì intensa, viva e magnetica. Magnus disegna con una padronanza del pennello incredibile. Non c’è sbavatura, non c’è incertezza. Il suo segno è affilato come una lama, eppure ha una fluidità naturale, come se sgorgasse da una mente lucida e febbrile. Ogni vignetta è un bassorilievo d’inchiostro. Il dettaglio è assoluto, microscopico ma sempre leggibile. Dalle pieghe dei vestiti alle superfici più minute, Magnus lavora con la pazienza di un miniaturista medievale armato di pennello nero. Opera consigliata: Poche ore all’alba (1975). Filippo Scozzari Il primo Filippo Scozzari, quello degli anni ’70 e primissimi ’80, quello di Cannibale e il Male, è un animale raro nel panorama del fumetto italiano: il suo stile al pennello, pur ispirandosi a quello classico di Will Eisner, è aggressivo, esplosivo, teatrale, dotato di una forza espressiva che travolge ogni regola accademica. Il tratto non è mai elegante nel senso tradizionale, ma è carico di energia satirica, politica e iconoclasta. È disegno-urlo, è pennello-gesto. Il pennello è usato con impeto, senza timore dell’eccesso. È uno strumento di ribellione visiva, come se ogni tavola fosse una battaglia tra l’artista e la pagina. Il pennello serve a rendere carne e sudore, con un gusto per l’esagerazione. I volti si sciolgono, le espressioni urlano, i corpi si torcono. È teatro grottesco a inchiostro pieno. Nei suoi primi lavori, la calligrafia dei balloon si fonde con il disegno, in un tutt’uno grafico e verbale. Il pennello si muove anche nel lettering, creando una voce visiva unica. È come se le sue tavole fossero incise a caldo, tracciate di getto, con un’energia primordiale. Opera consigliata: Fango (1976). Ivo Milazzo Ivo Milazzo si è sempre divertito a operare sulla linea di confine che divide il fumetto popolare da quello d’autore. Anche se Ken Parker usciva per la Bonelli è impossibile non ammettere che in quelle pagine veniva evocata una dimensione lirica e poetica del fumetto, dove il segno non è solo rappresentazione, ma respiro interiore, tempo sospeso e riflessione umana. Milazzo è uno dei pochi autori italiani capaci di far parlare il pennello come se fosse uno sguardo silenzioso, malinconico e profondo. Usa il pennello con una leggerezza che commuove. La linea vibra, mai rigida, quasi fosse un respiro sulla carta. È un disegno che non vuole dominare, ma evocare. I personaggi non gridano: guardano, riflettono, portano il peso del mondo negli occhi e nei silenzi. Il pennello li costruisce con pochi gesti, ma ogni segno è ricco di vita interiore. Le sue ambientazioni non sono realistico-descrittive: sono spazi della mente, della memoria. Anche un paesaggio western diventa metafora dello stato d’animo del protagonista. Opera consigliata: Lily e il cacciatore (1979 ). Attilio Micheluzzi Se qualcuno può contendere a Hugo Pratt il titolo di “re del fumetto avventuroso” quello é l’istriano Attilio Micheluzzi. Il suo pennello riesce a fondere il dinamismo dell’avventura con la sintesi pittorica e la cura del dettaglio. Il pennello di Micheluzzi ha una grande leggerezza, che è perfetta per rappresentare l’azione in corso. Le sue tavole non sono mai pesanti o sovraccariche di dettagli; al contrario, c’è una semplicità che cattura il movimento e l’atmosfera dell’avventura, come una pennellata che fluisce velocemente sulla carta. Il pennello denso e pieno viene alternato con tratti più leggeri, dando vita a scene dinamiche che sembrano quasi scorrere nel tempo. Il suo stile pittorico è caratterizzato dall’uso intelligente del bianco e nero, dove il bianco non è solo lo spazio vuoto, ma parte della narrazione. Le ombre sono forti e nette, mentre le luci sembrano uscire dalla carta stessa, accentuando l’energia dell’azione e dando profondità agli ambienti. Opera consigliata: Rosso Stenton-Shanghai (1982). Claudio Castellini Quando nel 1989 uscì il n. 30 di Dylan Dog, “La casa infestata”, i fan dovettero pensare che Bonelli avesse messo sotto contratto il grande Neal Adams. Invece quella potenza visiva straordinaria, quel controllo assoluto del segno, erano tutta farina del sacco di Claudio Castellini. È un autore che ha saputo portare l’inchiostrazione a pennello a livelli altissimi, unendo iperrealismo, energia e rigore compositivo. Il pennello di Castellini è chirurgico, ma mai freddo. Riesce a scolpire i muscoli, definire la tensione nei volti e costruire ambienti monumentali, tutto con un controllo assoluto delle linee e dei pieni/neri. Il suo uso del pennello ricorda la tecnica pittorica dei chiaroscuri caravaggeschi. Le figure sembrano emergere dalla pagina come sculture di inchiostro. Castellini è celebre anche per la cura maniacale dei dettagli. Ogni tratto a pennello è pensato, ponderato. Non c’è gesto casuale. Ogni linea ha un peso. Opera consigliata: Silver Surfer: Dangerous Artifacts (1996) Davide Toffolo Influenzato dal segno poco inquadrabile del suo idolo Andrea Pazienza, Davide Toffolo riesce a costruirsi uno stile assolutamente personale, viscerale e musicale. È uno stile che non cerca la perfezione tecnica, ma la verità emotiva. Il pennello, per Toffolo, è una voce, un gesto più vicino alla performance artistica che alla calligrafia grafica. Non è un semplice attrezzo da disegno: è uno strumento dell’anima. Toffolo usa il pennello come un punk usa la chitarra. Il tratto è sporco, espressivo, a volte brutale, ma sempre vivo. L’inchiostro sborda, graffia, si mescola, ma non è mai caos: è sentimento visivo. I suoi personaggi sono spesso stilizzati, non hanno un’anatomia accademica, è il pennello a dare loro peso, ritmo e umanità. Le ombre sono inventate, i chiaroscuri evocano più che descrivere. Le sue tavole alternano spazi neri e campiture bianche allo stesso modo in cui uno spartito musicale alterna note e pause. Opera consigliata: Party flambé (1999). Giuseppe Palumbo Giuseppe Palumbo è partito dalle riviste d’autore (Frigidaire) per arrivare al fumetto popolare (Diabolik). È l’uomo che con il suo pennello irrequieto ha regalato una seconda vita al “re del terrore”. Il suo pennello è una lama che taglia la superficie della tavola per scoprire il nervo dell’immagine. Palumbo non usa il pennello per ammorbidire il segno, ma per scardinarlo, per intensificarlo, per stratificarlo di tensione visiva e concettuale. Non cerca il “bello”, cerca il vivo, lo scomodo, il carnale. Il pennello è per lui uno strumento espressivo estremo, con cui deforma, frantuma, riassembla la figura. L’inchiostro diventa materia nera che sanguina tensione. Il pennello diventa camaleonte nervoso, capace di adattarsi al tono del racconto, ma anche di metterlo in crisi, trasformandolo in qualcos’altro. Il segno non accarezza il corpo: lo interroga, lo spreme. Palumbo disegna carne viva, volti attraversati da spettri, gesti che oscillano tra erotismo e disfacimento, spesso con pennellate dense e violente che diventano narrative per sé. Opera consigliata: Il re del terrore (2001). (Immagine d’apertura tratta da “Lo Sconosciuto” di Magnus per Edifumetto). Navigazione articoli FRECCIA VERDE: GUIDA ALLA LETTURA JUNGLE GIRL, LE VERSIONI FEMMINILI DI TARZAN
Penso che in realtà l’uso del pennello nei primi autori come Caniff, Pratt, Galeppini, Ferri, fosse dovuto al bisogno di velocizzare la realizzazione dei disegni. A loro erano richieste molte pagine di lavoro a scadenza, quindi era necessario usare meno il pennino. Due cose sono cambiate da allora. Dagli anni ’70 l’apparizione e l’uso dei pennarelli di diverse dimensioni, sottili e larghi. Questi hanno sostituito i precedenti strumenti: il pennino e il pennello. Nel nuovo millennio è arrivata la computergrafica, e tutta la trafila della creazione è cambiata. In meglio o in peggio ? Certamente oggi c’è molta meno manualità e una certa freddezza del risultato grafico. più godibili quindi i vecchi fumetti artigianali. Rispondi
La storia insegna che, Milazzo usa un pennarello sottile, Magnus un pennarello medio e Micheluzzi pennino e pennello. Serpieri invece guarda caso usava il pennellino in maniera esemplare. Per Pratt il pennino è visibile da un miglio. Sono basito… Rispondi
Splendido articolo Detto da chi il pennellino dopo avere abbandonato il pennino se lo andava a comprare In un noto colorificio di Brera a Milano dato che dopo àver abbandonato la tecnica del pennino Quello era. O strumento privilegiato Nellla cartoleria di quartiere trovavi al massimo solo il pelikan: scarso…. avvero tale… Anni 70………. 2 osservazioni Magnus prese come aiutante Romanini il quale era piu’ fedele a magnus dello stesso Raviola si sa che le chine del “texone” sono a un certo punto sue Era malato da tempo. Lo stesso Magnus riconosce di avergli delegato i cavalli…. Quanto a Ferri, grande raymondiano, ci fu un fascicolo in cui venne inchiostrato da Bignotti, forse era in ritardo coi tempi di consegna per malattia o altro ma nel finale tornano le sue chine. Non ricordo il numero poi verifico Ciao Gregorio Rispondi
In diverse fasi della loro carriera questi autori hanno usato anche altri strumenti Ma il loro meglio lo hanno dato col pennello… Rispondi
Beh c’era anche il “rapidograph” nato per il disegno tecnico . Ma alcuni lo usavano quale strumento “complementare” Pratt era uno di questi Greg Rispondi