L’identità della città di Oristano è profondamente e indissolubilmente legata alla transenna. Il compito di questa consiste principalmente nel delimitare un passaggio, una zona di pericolo sotto un balcone o un muro fatiscente, un cantiere iniziato qualche decennio addietro e mai portato a termine. Un giorno, per qualche misteriosa ragione, gli operai non sono più tornati al lavoro, lasciando il cantiere in uno stato di abbandono permanente.

La transenna ha tuttavia una funzione più storica, più in sintonia con il nostro territorio. È come se avesse imparato dagli argini del fiume Tirso a contenere la piena del pubblico venuto da ogni dove a godersi lo spettacolo della corsa alla stella e delle pariglie.

Prima ancora dell’inizio della giostra, subito dopo aver mangiato chi un parafrittu, chi un pezzo di torrone di Tonara, e bevuto un bel bicchiere di vernaccia, la gente si pigia contro quell’impietoso divisorio seguendo la logica ancestrale dell’altezza. È sempre stato così: ai primi posti troviamo i mannus, gli alti. Non che l’essere alti sia una caratteristica di noi sardi, ma qualcuno c’è sempre. Ogni anno li troviamo fissi, lì, sbucati da chi sa dove e aggrappati all’amore della loro vita: la transenna. Alcuni di loro, non contenti di impedire la visuale a chi sta dietro, completano il supplizio portando sulle spalle i propri figlioletti.

In seconda fila, si posizionano i meno alti, che bene o male compensano questo svantaggio guardando tra due teste appena sopra le spalle. Dietro ancora, abbiamo le stature medie, che qualcosa riescono a vedere mettendosi in punta di piedi e tendendo il collo quasi a staccarsi la testa.

E poi ci sono loro: i baxitteddus.

I baxitteddus, i piccoletti, insomma, sono quei sardi della mia generazione che a malapena superano il metro e sessanta e non hanno altra scelta che quella di saltare.
Saltare, saltare e ancora saltare.

O forse dovrei dire sartare.

Altrimenti perché dovrebbe chiamarsi Sartiglia?

 

(Foto da Wikipedia, autore Cristiano Cani, Sartiglia, licenza CC BY 2.0).

 

Un pensiero su “LA SARTIGLIA TRA VEDERE E NON VEDERE”
  1. Nel suo bel saggio “Le radici barocche dell’umorismo”, edito da Laterza, il linguista finlandese Jouko Lindstedt individua nella metafora la fonte prima di ogni forma di umorismo e comicità.
    Prende le mosse dalla sua perspicua definizione di metafora come “processo linguistico espressivo basato su una similitudine sottintesa, ossia su un rapporto analogico, per cui un vocabolo o una locuzione sono usati per esprimere un concetto diverso da quello che normalmente esprimono; così, per es., alla base della metafora l’ondeggiare delle spighe, vi è la comparazione istituita tra la distesa delle spighe e quella delle acque del mare e il conseguente trasferimento del concetto di ondeggiare dal movimento della superficie marina a quello di una distesa di spighe”.
    Lindstedt prosegue evidenziando che, “mentre in alcune espressioni metaforiche, come il timone dello stato, una grandine di pugni, il ruggire dei motori, la metafora è ancora evidente, in altre, per la grande diffusione e il lungo uso, la coscienza della similitudine originaria è ormai quasi spenta, come, per es., nelle locuz. il braccio di una lampada, la gamba del tavolino, oppure nel sost. testa, dove il sign. originario di «vaso di terracotta» sopravvive solo in qualche dialetto; le metafore di questo secondo genere sono dette anche catacresi. Tra le varie figure retoriche, la metafora rappresenta una delle forze più attive nella lingua, come mezzo di arricchimento, non solo semantico e lessicale, ma anche espressivo e stilistico”
    E considera calembours, doppi sensi, freddure, motti di spirito e gags come eredi di questa nobile e antica figura retorica.
    Il finale di questo delizioso trafiletto di Lino Soddu ne è la riprova.
    L’autore propone una sua personale etimologia del termine Sartiglia, molto lontana da quella attestata nei dizionari enciclopedici, per i quali il termine Sartiglia deriva dal castigliano “Sortilla”, che a sua volta deriva dal latino “Sorticula”, che significa anello ma anche “Sors”, ossia fortuna. La Sartiglia consiste infatti nel tentativo dei cavalieri di centrare un bersaglio, la stella, sfidando la sorte.
    Ma perché mai non far derivare il vocabolo dal verbo saltare?
    L’ipotesi, per quanto stralunata e scombiccherata, ha una sua dignità, se non semantica, senz’altro letteraria.
    Perché è nel mondo di Helzapopping che alberga la musa più autentica dell’autore, la sua inarrivabile capacità di dar vita a piccoli capolavori di nonsense partendo da materiale povero, banale, terra terra quale è una transenna.
    In un mondo in cui le Sartiglie saltano, perchè le transenne non dovrebbero andare fuori di senno ?

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