La luce è un elemento essenziale nel cinema americano degli anni ottanta. Forse, alla base di una tale attenzione, del tutto specifica, c’è la fascinazione esercitata sull’inconscio dei registi (cresciuti all’incirca negli anni cinquanta con dosi massicce di visioni cinematografiche) dal fascio luminoso che attraversava la sala proiettando il film sul grande schermo. Non si può nemmeno escludere che, in un periodo in cui le produzioni cominciavano a considerare con sempre maggiore interesse il pubblico giovanile, si volesse dare a questo tipo di spettatore lo stesso genere di sensazioni che potevano procurare la frequentazione notturna di una metropoli o, perché no, di una discoteca; luogo dominato dalle luci stroboscopiche che stava diventando punto di riferimento imprescindibile per le nuove generazioni. In vari casi le discoteche diventano dalla fine degli anni settanta in poi uno sfondo quasi obbligato, come in La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, 1977), di John Badham. In ogni caso, al di là delle più fantasiose e azzardate congetture, l’assunto iniziale è evidenziato dall’aspetto visivo, dal contenuto dell’immagine, dalla preponderante attenzione dei realizzatori verso un uso della luce, e del colore (che ne è un’ovvia derivazione) quanto mai ricercato e fondante. Si pensi per esempio alle antesignane spade laser, colorate e sfavillanti, volute da George Lucas per Guerre stellari (Star Wars, 1977). La luce diviene in vari casi addirittura un elemento narrativo, qualcosa di più di un pur essenziale corredo fotografico o di un oggetto facente parte dell’ambiente. Tra i registi che, in un buon numero di film, hanno fatto della luce la protagonista di almeno una sequenza la cui importanza, in alcuni casi, si rivela nevralgica per lo sviluppo della vicenda, va citato innanzitutto e senza alcun dubbio Steven Spielberg. Nel fantascientifico Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977), titolo fondamentale per il mutamento impresso all’industria cinematografica americana, ancor più del precedente e meno consapevole Lo squalo, la luce assume una valenza duplice. Negativa all’inizio, quando gli extraterrestri sembrano rappresentare una minaccia (la sequenza del rapimento del piccolo Barry); nel finale, però, svelato il loro arrivo pacifico sulla Terra, diventa “Una luz muy bonita” (come dice il poliziotto messicano in una delle prime scene). Nel successivo 1941 – Allarme a Hollywood (1941, 1979) di Spielberg, ambientato pochi giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, la luce (onnipresente, ma siamo nella città del Cinema) rappresenta un pericolo per gli abitanti a causa dei temuti bombardamenti giapponesi: diventa quindi necessario spegnerla. Anche nelle pellicole che aprono gli anni ottanta, Spielberg fa della luce un elemento tutt’altro che accessorio. “Stai lontano dalla luce”, dice Indiana Jones a Satipo nella sequenza iniziale de I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1980). Passarvi davanti, infatti, fa scattare una trappola mortale. In seguito, la luce servirà invece per localizzare l’arca. I due fanta-horror prodotti da Spielberg nella prima metà dello stesso decennio, Poltergeist – Demoniache presenze e Gremlins, ripropongono la luce in una chiave quantomeno ambigua. In Poltergeist – Demoniache presenze (Poltergeist, 1982), di Tobe Hooper, quella irradiata dallo schermo televisivo risucchia Carol Anne e costituisce il passaggio per l’aldilà, ma è anche grazie ad essa che i morti riescono a vendicarsi. https://www.youtube.com/watch?v=6m9t5TMctng In Gremlins (id., 1984), di Joe Dante, il mogway odia la luce, specie quella del sole, e però è proprio la luce del sole che uccide il capo dei gremlins. Come accade nel finale de I predatori dell’arca perduta, la luce naturale può essere vista come qualcosa di salvifico, che annienta il male. Non è un caso, forse, che in questo periodo il cinema americano riscopra la figura del vampiro, protagonista di molte pellicole. Una delle migliori è senza dubbio Ragazzi perduti (The Lost Boys, 1987) di Joel Schumacher. Attraverso questo breve excursus si può anche riflettere sulla contrapposizione tra luce naturale/solare e luce artificiale, che sembrano avere effetti diversi. Insomma, vediamo che il tema della luce può essere trattato in vari modi. L’entusiastico (e ironico) ottimismo che emerge dall’esclamazione “Ho visto la luce!” pronunciata da Jake in The Blues Brothers (id., 1980) di John Landis, è riferito appunto alla luce del sole intesa come emanazione divina. Al contrario, la luce viene presentata sotto forma di amara e malinconica constatazione, contenuta nel dialogo tra il protagonista maschile, Hank, e l’amico Moe, nel sottovalutato capolavoro di Francis Ford Coppola, Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982), che ha come sfondo una quanto mai sfavillante Las Vegas, e attraverso cui il regista critica in maniera neanche tanto velata la società americana. “Sai cos’è che non va in America?”, chiede Hank. “La luce”. “La luce?”, ribatte Moe. “C’è troppa luce. Non ci sono più segreti. Sono tutti orpelli, idiozie false. Non c’è più nulla di reale”. Navigazione articoli LA STRADA PER PERDITION IL FANTASTICO PER JOE DANTE