Le Brigate internazionali nella Guerra civile spagnola rappresentano una delle storie più romantiche e tragiche del Novecento. La mobilitazione spontanea di migliaia di volontari di tutto il mondo, accorsi non per interesse personale, ma per un ideale: la lotta contro il colpo di Stato del generale clerical-fascista Francisco Franco, la difesa della libertà e della democrazia. Ma questa è anche una storia di ideali infranti, logorati dalla violenza, dalle divisioni ideologiche, dal peso delle ingerenze internazionali e dal tradimento delle potenze occidentali. Tra il 1936 e il 1939, circa 35.000 uomini e donne da più di 50 paesi si arruolarono nelle Brigate internazionali. Una intera generazione si mise in marcia verso un sogno. Erano giovani operai, studenti, poeti, intellettuali, disoccupati, spesso senza addestramento militare, ma pieni di convinzione, mossi dall’idea che in Spagna si stessero giocando i destini dell’Europa del futuro. Venivano da ogni parte, c’erano gli Americani (Battaglione Lincoln), i Francesi (Bataillon Commune de Paris) e gli italiani (Brigata Garibaldi) che, contro i fascisti del Corpo Truppe Volontarie (CTV) inviati da Mussolini, combatterono una sorta di guerra civile italiana anticipata. Ricordiamo i nomi di alcuni dei protagonisti. George Orwell George Orwell, il grande scrittore inglese aveva preso il treno per la Spagna nel dicembre del 1936 e aveva fatto bene. A quei tempi aveva già pubblicato “Fiorirà l’Aspidistra” e spago sulla sua valigia non ce n’era. In un giorno caldo del maggio del 1937, mentre stava combattendo nelle trincee vicino a Huesca, in Aragona, come volontario nel Poum (Partito Operaio di Unificazione Marxista), Orwell si alzò accidentalmente troppo in alto sopra il parapetto e fu colpito alla gola da un cecchino franchista. Il proiettile gli passò a pochi millimetri dalla carotide, lesionando le corde vocali. Orwell sopravvive, ma perde temporaneamente la voce e non parlò per giorni. Anni dopo ricorderà quella sensazione con un misto di distacco e incredulità: “Avevo la strana impressione che qualcuno mi avesse dato un pugno molto forte sul collo”. Tom Wintringham Probabilmente era uscìto di casa chiudendo dietro a sé la porta. Qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè. Non risulta si sia girato, non era uomo da ripensamenti. Era un giorno di novembre del 1936. L’anno successivo, durante la Battaglia del Jarama, una delle più dure per i repubblicani, Tom Wintringham comandava un battaglione della Brigata Abraham Lincoln, composta da volontari americani. Wintringham racconta che, in uno scontro particolarmente teso, vide un giovane volontario americano terrorizzato, bloccato in trincea mentre attorno a lui infuriava il fuoco nemico. Aveva in mano una pistola, ma restava paralizzato. Wintringham si avvicinò gridando: “Spara, ragazzo! Spara!”. Il giovane rispose quasi piangendo: “È scarica, comandante!”. Allora Wintringham senza pensarci due volte, prese la pistola, la gettò contro il nemico, e urlò “Allora lanciala! Fagli capire che hai coraggio!”. John Cornford Gli eroi son tutti giovani e belli, dice il poeta. Il poeta John Cornford giovane e bello lo era davvero quando nel dicembre del 1936, poco prima di morire nella battaglia di Lopera, stava scrivendo dalla prima linea una lettera e una poesia indirizzata alla sua compagna, Margot Heinemann, anch’ella intellettuale comunista. Aveva appena 21 anni. Seduto in trincea, con la neve e il freddo andaluso addosso, Cornford annota in una pagina il verso più famoso della sua breve esistenza: “The past I gave you is lost; / you gave me future”. (“Il passato che ti ho dato è perduto; / tu mi hai dato un futuro”). Era la vigilia del suo compleanno, il 27 dicembre. Il giorno dopo, durante un attacco disorganizzato contro le forze franchiste, John fu colpito a morte. Era appena prima dell’alba, di una miserabile mattina dell’oscuro trentasei. Ralph Bates Durante i primi giorni dell’arrivo dei volontari internazionali ad Albacete, nel quartier generale delle Brigate, Ralph Bates, allora responsabile dell’organizzazione politica degli inglesi, fu sorpreso da un compagno mentre litigava con un ufficiale francese per un motivo apparentemente futile: una pistola difettosa. Il francese gli disse: “Tu sei uno scrittore, no? Allora combatti con la penna”. Bates rispose, seccamente: “Oggi mi servono entrambe. La penna per spiegare, la pistola per sopravvivere”. Il giorno seguente, un commilitone raccontò di aver visto Bates scrivere su un taccuino, seduto su una cassa di munizioni, nel cortile polveroso della base, mentre attorno a lui si provavano fucili e si caricavano camion. Quando gli chiesero cosa stesse facendo, rispose con un sorriso ironico: “Sto prendendo appunti per un libro che, con un po’ di fortuna, leggeremo dopo la vittoria”. Milton Wolff Se l’acqua del fiume Tago potesse parlare racconterebbe un sacco di storie di ventenni sbranati dalla primavera. Scarpe rotte eppure bisognava andare. Uno di loro si chiamava Milton Wolff, era nato a Brooklyn, era giovane, ebreo e comunista. Nel 1938, durante una fase critica della guerra, le forze repubblicane erano stremate e mal equipaggiate. In una zona vicino a Gandesa, i volontari del Battaglione Lincoln erano sotto pesanti attacchi aerei da parte dei caccia tedeschi e italiani condotti in appoggio a Franco. Un ufficiale repubblicano spagnolo, vedendo la scarsità di mezzi tra gli americani, si rivolse a Milton Wolff con sarcasmo: “Con quei vecchi fucili cosa pensate di fare contro gli aerei di Mussolini?”. Wolff, con la calma e il tono secco che lo contraddistingueva, rispose: “Spareremo lo stesso. Non per abbatterli, ma per dire che non abbiamo paura”. Poi alzò il fucile e sparò un colpo verso il cielo. Erwin Rolfe Durante l’inverno del 1938, Erwin Rolfe, poeta newyorkese inquadrato nel Battaglione Lincoln, era con i suoi compagni nelle montagne vicino a Segura de los Baños. Il freddo era estremo, le risorse scarse, e i combattenti erano spesso costretti a dormire in rifugi di fortuna scavati nella neve o nella roccia. Un suo compagno, Art Landis, raccontò che una notte, mentre si stringevano per il freddo, Rolfe estrasse da una busta nel suo zaino un foglio sgualcito e lo lesse sottovoce a chi riusciva a sentirlo. Era una sua poesia scritta pochi giorni prima, intitolata: “First Love, Farewell”. Era una lirica dedicata non a una donna, ma alla Spagna, vista come la sua prima vera “passione”. In un passaggio, diceva: “You taught me not to cry / at the sound of parting bugles / nor to grow faint at the smell of blood”, (“Mi hai insegnato a non piangere / al suono delle trombe dell’addio / né a svenire all’odore del sangue”). Un combattente disse dopo averla ascoltata: “Non so chi vincerà questa guerra, ma so cosa ci farà tenere duro questa notte”. Georges Soria In una notte carica di segni e di stelle, il futuro storico, giornalista e autore drammatico Georges Soria si apriva per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel 1937, Soria era un giovane volontario francese appena arrivato ad Albacete, la base di reclutamento e addestramento delle Brigate internazionali. Al momento della registrazione, un ufficiale gli chiese: “Nazionalità?”. Soria rispose con un sorriso ironico: “Repubblicano”. Vedendo che portava ancora con sé la carta d’identità francese, l’ufficiale spagnolo lo ammonì: “Qui non ci sono più francesi, italiani o americani. Solo antifascisti”. Allora Soria estrasse la carta d’identità, la strappò in due e la gettò nel fuoco della stufa del comando. I presenti applaudirono. In un’intervista successiva, anni dopo, Soria ricordò quel gesto: “Era simbolico, certo. Ma per me fu l’inizio di una nuova identità: non più cittadino di uno Stato, ma combattente per un’idea”. Jean Chaintron Nel 1937, Jean Chaintron, giovane comunista francese appena ventenne, arrivò in Spagna per unirsi alla Brigata Garibaldi, composta da italiani antifascisti ma che accoglieva anche volontari francesi. In uno dei primi giorni al fronte, vicino a Huesca, Chaintron ricevette un vecchio fucile italiano Carcano con l’incisione “1915” sulla canna. Guardando l’arma, commentò ironicamente: “Questo ha già fatto due guerre. Speriamo non si stanchi alla terza”. Ma quello che fece sorridere i compagni fu ciò che fece dopo. Chaintron tirò fuori dalla tasca una piccola fotografia di sua madre e la infilò tra il calcio e la cinghia del fucile, dicendo: “Così non mi dimentico per cosa sto combattendo”. Nei giorni seguenti, quel gesto divenne contagioso: molti altri volontari iniziarono a infilare foto, lettere o immagini religiose nei propri fucili, come segno di protezione o legame con casa. Un ufficiale italiano della Brigata, vedendo la scena, disse: “Abbiamo armi vecchie, ma cuori nuovi”. Leo Valiani Nel 1937, Leo Valiani, giovane militante antifascista triestino, esule a Parigi, poi volontario in Spagna, era commissario politico nella Brigata Garibaldi, la formazione di italiani nelle Brigate internazionali. Durante un’assemblea politica al fronte, si discuteva dell’unità del fronte antifascista e dell’alleanza tra comunisti, socialisti e repubblicani. Alcuni commissari ripetevano a memoria la linea ufficiale di Mosca, parlando della “piena democrazia popolare sotto il controllo del partito comunista”. Valiani, che già allora aveva uno spirito liberale e antistalinista, si alzò e disse davanti a tutti, con tono calmo ma fermo: “La Spagna non ha bisogno di una nuova tirannia. Ne ha già una, quella di Franco. Il nostro compito è combattere il fascismo, non sostituirlo con il dogma”. Un silenzio imbarazzato calò nella tenda. Alcuni applaudirono, altri scossero la testa. Uno dei funzionari sovietici presenti lo guardò male. Più tardi, un compagno gli sussurrò: “Hai detto la verità, Leo. Ma attento: qui anche la verità può essere pericolosa”. Umberto Marzocchi Nel 1936, Umberto Marzocchi, già militante anarchico perseguitato dal fascismo e attivo in Francia, si unì alle colonne anarchiche che combattevano in Catalogna e Aragona, in particolare nella Colonna Ascaso, formata da miliziani libertari spagnoli e volontari internazionali. Durante uno spostamento verso il fronte di Huesca, un comandante repubblicano, di orientamento comunista, vide che alcuni miliziani italiani portavano con sé una bandiera nera con la A cerchiata e la scritta “Libertà o morte”. Ordinò che fosse tolta: “Qui si combatte per la Repubblica, non per l’anarchia”. Marzocchi, senza alzare la voce, rispose: “Compagno, noi siamo qui per battere il fascismo. Ma se non possiamo portare la nostra bandiera, torniamo a combatterlo da soli”. Il comandante, forse sorpreso dalla calma e dalla fermezza dell’anarchico italiano, cedette. La bandiera continuò a sventolare nei pressi della trincea, inchiodata su un albero. Un miliziano catalano che assistette alla scena commentò: “Se mai perderemo la guerra, non sarà per colpa di quelli che portano la loro bandiera, ma di quelli che vogliono imporre la propria”. Navigazione articoli GLI SCRITTORI AMERICANI NELLA PARIGI DEGLI ANNI VENTI GLI ULTIMI SACRIFICI UMANI DEI CELTI
Poveri cristi, illusi da quell’ ideologia tossica comunista che in seguito si sarebbe rivelata per quel che era. Un nazismo rosso! Rispondi
E’ bello quando legge un articolo e dimostra nel prorpio commento che non ha capito un cazzo dell’articolo, della storia e della vita. Poi ci chiediamo del perché il mondo vada a rotoli Rispondi
Un accademico della Crusca storcerebbe un pò il naso ed evidenzierebbe alcune sgrammaticature dell’ottimo Otre: – E’ bello : è sbagliato utilizzare l’apostrofo, occorre utilizzare l’accento. Occorre scrivere È bello – Non prorpio ma proprio . Otre ha stroppiato la parola, pardon volevo dire storpiato ! – Il primo periodo presenta alcune criticità sintattiche. Probabilmente l’autore voleva scrivere: È bello chi legge un articolo e dimostra ….. Prima di pubblicare qualcosa sarebbe opportuno avere ben chiaro quello che si vuole dire e saperlo dire in buon italiano. E non, come direbbe Otre, dirlo alla cazzo!! Rispondi
Abbiamo smarrito la sacralità della parola. Erano bei tempi quelli in cui in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Oggi, ahimé !, verbi, avverbi, congiunzioni, pronomi, aggettivi, preposizioni, proposizioni, principali, coordinate, subordinate e compagnia bella li spariamo direttamente sulla carta senza sottoporli al vaglio selettivo dei nostri neuroni. Il ché temo costituisca, purtroppo, la riprova che i neuroni – almeno quelli deputati alle funzioni letterarie – siano una specie in via di estinzione, se non già arrivata al capolinea cimiteriale. Tanto premesso, un Giornale, seppure Popolare – anzi, forse proprio perché Popolare, e cioè rivolto ad un’ampia platea di lettori – dovrebbe costituire un fermo baluardo contro il dilagante, inflazionato e insipido pressapochismo di chi scrive. Non dovrebbe, cioè, ridursi ad accettare di tutto e di più, tanto al lettore di bocca buona gli possiamo propinare patate bollite senza sale, imbellendole e insaporendole con una sfrenata bulimia di immagini scopiazzate a destra e a sinistra. Sempre patate bollite senza sale rimangono! Non udite anche voi la voce angosciata del Verbo che si leva nel deserto: Sauro, Sauro, perché mi perseguiti? Rispondi
“ahimè” vuole accento grave, il fatto che il dizionario Treccani accetti “ahimé” per inarrestabile diffusione dell’errore non significa che sia giusto, il Treccani accetta anche “il pneumatico” per fare un esempio; “il ché” è sbagliato, perché come noto l’accento su monosillabi non ambigui (si, sì, ecc.) non va messo; “tanto al lettore di bocca buona gli possiamo…”, il “gli” abbasserebbe il voto già in seconda elementare; Sauro gioisce delle polemiche baraonda ché (qui l’accento è giusto, perché la congiunzione è usata in senso di perché) fanno ascolto, ma nel complesso qui mi sembrano inappropriate; a me delle anime belle comuniste non importa niente, ma è pur sempre un articolo sulla morte e sulla disperazione, quindi direi di piantarla lì; A. Rispondi
L’Accademia della Crusca, probabilmente (magari ha sedi mobili per salvare le proprie conoscenze in caso di Apocalisse), ha la fortuna di non dover scrivere sul treno serale del ritorno e di non essere costretta a scendere in fretta dal convoglio ferroviario prima di finire alla squallida stazione seguente. Quindi in un impeto di aggiornamento postumo (o come è stata forse scritta in un universo parallelo dove c’era più tempo, più attenzione e meno incazzatura) la frase recita: “È bello che chi legge un articolo dimostri nel proprio commento di non aver capito nulla dell’articolo, della storia e della vita. Inutile poi domandarsi del perché il mondo vada a rotoli” P.S. pare che il troncamento della parola “poco” risulti essere po’ e non una forma accentata 😉 Rispondi