Richiusa in manicomio per quasi 30 anni, fu dimenticata da tutti, inclusi i parenti più stretti.

Soltanto nel 2021, a 65 anni dal decesso, la città di Dublino al n. 12 di Merrion Square ha ricordato con una targa, sulla facciata della casa dove nacque, la figura di Violet Gibson.

Tra la folla che il 7 aprile del 1926 attendeva il Duce all’uscita dal Campidoglio, a Roma, dopo il discorso tenuto al Congresso internazionale di chirurgia, c’era anche una signora sulla cinquantina, esile di corporatura, di nero vestita con i capelli elegantemente legati dietro la nuca.
Quando Mussolini le passò davanti per salire sull’auto d’ordinanza, eccola estrarre dalla borsetta una pistola, mirare alla sua testa e premere il grilletto per sparare un colpo che sarebbe sicuramente andato a segno, se nel frattempo il Duce, irrigidendosi in un saluto romano, non avesse tirato indietro il capo schivando di pochi millimetri il proiettile che gli scalfì appena il naso.

Resasi conto di aver fallito il bersaglio, la donna premette nuovamente il grilletto, ma la rivoltella questa volta s’inceppò, mentre la folla le fu addosso per linciarla e solo l’intervento della Polizia la salvò da morte certa.

Le indagini chiarirono che si trattava di Violet Gibson, un’aristocratica irlandese di nascita, ma britannica di passaporto, figlia del defunto Lord Ashbourne, a suo tempo di casa presso la corte della Regina Vittoria.

Dotata d’intelligenza vivace, indipendente e insofferente alle convenzioni prestabilite, tanto da aver abiurato la fede protestante e rinnegato le simpatie monarchiche della famiglia per abbracciare il cattolicesimo e avvicinarsi agli ambienti repubblicani, era nata il 31 agosto del 1876 a Dublino, palesando fin dagli anni giovanili il suo amore per i viaggi, specialmente in Italia, il Paese che più amava.
In prima fila contro la guerra, nel 1914 diventò attivista del movimento per il suffragio femminile, abbracciando sul nascere l’antifascismo.

Il suo attentato gettò in profondo imbarazzo Mussolini e tutto l’establishment fascista, incerti sul come giudicare una straniera di nobili natali, tanto più che non soltanto i politici irlandesi e britannici si erano affrettati a prendere le distanze da quel “gesto insano”, ma pure la sua famiglia aveva fatto lo stesso, tradendo fortissimo disagio per l’accaduto.

L’escamotage ideato per cavarsi d’impaccio, poi risultato utile e gradito a tutti, consisté nel dichiararla affetta da “lucida follia”, espellerla dall’Italia e rimandarla in Inghilterra, dove al suo arrivo fu condotta al St. Andrew’s Hospital di Northampton, visitata e frettolosamente riconosciuta inferma di mente con atto del 14 maggio del 1927, subito controfirmato dai familiari.

Dalla stanza-cella che le avrebbe fatto da casa sino al 2 maggio del 1956, giorno del decesso, Violet scrisse decine di lucidissime lettere con richiesta d’aiuto ad amici e parenti, mai però spedite dai dirigenti della struttura che di fatto la teneva prigioniera.
Al contempo, nessuno dei messaggi che le erano stati inviati dai pochi che ancora si interessavano delle sue sorti le fu mai recapitato, facendo così calare su di lei il sipario.

Soltanto ora, dopo il film del 2020 che ne ricordò la tragica vicenda umana, Violet è finalmente tornata a casa.

 

 

 

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