Nel 1967, quando ancora frequentavo le scuole francesi e avevo sì e no 13 anni, si era diffusa la notizia che la nascita della televisione a colori era imminente. Andando a scuola e al ritorno, mi fermavo assiduamente davanti alle vetrine dei rivenditori del Boulevard Paoli nella speranza di vedere in bella mostra uno dei primi esemplari di questa nuova tecnologia. Sì, di lì a qualche tempo si sperava sarebbe arrivata, ma fino ad allora niente, nonostante la mia fiduciosa attesa, niente. Sembrava, tuttavia, che si potesse arrivare ai colori per vie traverse. Alcuni giornali pubblicizzavano uno schermo miracoloso che si doveva semplicemente piazzare davanti al televisore. Nel mio quartiere non andarono a ruba ma alcuni acquirenti ci furono. Era un semplice rettangolo di plastica trasparente striato verticalmente che rifletteva la luce dalle varie direzioni e che, più o meno come fa il prisma, restituiva i colori dell’arcobaleno. Sovrapposto allo schermo della TV si aveva un effetto che alcuni si sforzavano di considerare convincente nonostante il cielo tirasse sul verde, le facce sul blu e il bianco sul giallo. Insomma, avevamo un pavone davanti allo schermo. Un altro modo di “vedere” la TV a colori consisteva più semplicemente nell’aspettare, perché molti pensavano che il colore non dipendesse dal televisore ma dal segnale, e quando il segnale sarebbe stato trasmesso a colori qualunque televisore li avrebbe riprodotti. Mio padre, che apparteneva a questa categoria, guardava fisso lo schermo come se volesse essere il primo testimone del passaggio dal bianco e nero ai colori. Così la televisione era più spiata che vista e, a seconda di come la guardavi, strizzando un po’ gli occhi, specialmente verso sera, con l’aiuto della stanchezza e dell’immaginazione, scorgevi qualche colore fare il suo giretto di prova. “Non ti sembra che la giacca del giornalista sia diventata blu?” mi chiese una volta. “Ma no! L’hanno detto e ripetuto: i colori si vedranno solo sui nuovi televisori e poi trasmetteranno solo a ottobre!” I primi televisori arrivarono, finalmente, ma mio padre non desisteva dalle sue convinzioni: se la nostra vecchia televisione ancora non trasmetteva a colori era perché non la guardavamo come dovevamo. Continuava a fissare lo schermo nell’attesa che le macchie colorate della sua fantasia andassero nei posti giusti. Quella mattina, all’insaputa di mio padre che ancora lavorava in cantiere, io e mia madre andammo a comprare il tanto atteso televisore a colori che andò a rimpiazzare quello ormai vecchio. Al suo ritorno, mio padre, che non si era accorto di niente, riprese a fissare lo schermo. “Non ti sembra che la giacca del giornalista sia diventata blu?” chiese per l’ennesima volta mentre dava una girata energica agli spaghetti che riempivano il suo piatto. “È blu”, risposi. Sorrise. Come a dire: “Hai visto che con la volontà si ottiene tutto?” Navigazione articoli I CLIENTI DI AVRENOS, DI GEORGES SIMENON I RACCONTI DELLE FATE, DI CARLO COLLODI
Era il 1970, più o meno, avevo nove anni e al pomeriggio mi piaceva tenere acceso il televisore di casa sintonizzato sul monoscopio. Tempo prima ero stato in uno studio RAI e su tutti i monitor avevo visto segnali a uso interno: da allora con il televisore fischiante e l’immagine fissa mi piaceva fantasticare di essere un tecnico come quelli che avevo visto e che mi era sembrato facessero un mestiere molto interessante, A volte, per fantasticare meglio giravo per casa con una cuffia Sony in testa e il suo spinotto in tasca collegato a una qualche attrezzatura portatile che mi manteneva in contatto con la regia. Il mio analista avrebbe apprezzato, se mi fossi ricordato di raccontarglielo. Un giorno, a un certo punto il monoscopio scomparve e comparvero al suo posto delle barre verticali con diverse sfumature di grigio. Corsi in cucina entusiasta per informare mia madre dell’evento e lei venendo a vedere disse: “ma… sembrano quasi colorate…”. In effetti stavo assistendo a una prova di trasmissione colore, erano le ormai scomparse barre colori. La mia perseveranza di spettatore di monoscopi aveva dato i suoi frutti – ovviamente che fossero barre colori lo scoprii qualche anno dopo, ma al momento mi resi comunque conto di aver visto qualcosa di importante, altro che UFO. Questo episodio fa parte dei migliori della mia vita. Rispondi
La nascita della TV a colori è avvenuta in date diverse a seconda della nazione e dello standard scelto: l’NTSC americano, il Pal o il Secam. Per l’insieme della popolazione mondiale, ma forse di più per i ragazzi, fu una sorta di salto nel futuro e rappresentava un avvenimento epocale, direi quasi messianico, con tutte le emozioni che questo comportava. Non ero quindi il solo ad avere il batticuore in quel periodo. Il tuo commento lo conferma e constato con piacere che altri hanno vissuto la mia esperienza. Rispondi
L’introduzione del colore in Italia avvenne alla fine di un vero e proprio labirinto politico. Già negli anni Sessanta la RAI era parzialmente attrezzata per il colore. Nel 1962 aveva fatto sperimentazioni con il sistema NTSC americano), ma in seguito e senza troppi dubbi aveva aderito al sistema tedesco sviluppato dalla Telefunken, il PAL. L’altro sistema europeo, in uso in Francia e in alcuni Paesi del blocco sovietico era il SECAM. I due sistemi europei differivano nella tecnica ma non nei risultati, che erano pressoché identici (il sistema americano NTSC appariva invece sensibilmente diverso alla visione, per via di un minore numero di righe di scansione compensato da un maggior numero di fotogrammi al secondo, inoltre era di progettazione più antica e soffriva di alcuni difetti nella stabilitá dei colori). Visto che l’Italia non si decideva ad avviare le trasmissioni a colori e che a cavallo tra anni Sessanta e Settanta la Svizzera e la Jugoslavia (Telecapodistria) già trasmettevano a colori in lingua italiana con il sistema PAL, le aziende tedesche decisero di attivare il mercato italiano regalando a lombardi, piemontesi e veneti una serie di ripetitori più o meno legali che avrebbero portarto i segnali a colori esteri agli spettatori italiani più facoltosi: nel 1970, nelle case della buona borghesia milanese erano già discretamente diffusi i TV Color con tanto di telecomandi a ultrasuoni, sintonizzati sulla TSI (Televisione della Svizzera Italiana) che trasmetteva con eccellente qualità dagli studi di Lugano. E a metà anni Settanta, la Televisione svizzera si arrivò a vedere fin oltre Roma. (I pretori cercarono di bloccare la faccenda imponendo l’oscuramento del segnale durante gli spot pubblicitari, cosa che i gestori degli impianti fecero per un paio di giorni e poi tanti saluti). Tornando all’Italia, rispetto alla televisione a colori il governo aveva delle grane da risolvere. Da un lato la reticenza allo sviluppo tecnologico da parte di alcune parti politiche e ancora con un piede nell’Ottocento: resta famosa la posizione del repubblicano Ugo La Malfa, secondo cui gli italiani sarebbero andati in rovina sperperando i loro risparmi in televisori a colori e che dunque il bianco e nero andava mantenuto a oltranza, ma anche i comunisti erano contrari per gli stessi motivi. E dall’altro la questione delle royalties dovute alle aziende e in definitiva ai Paesi proprietari dei due sistemi colore: Francia e Germania strattonavano l’Italia perché scegliesse l’uno o l’altro sistema, e qualsiasi scelta l’Italia avesse fatto sarebbe apparsa comunque uno sgarbo nei confronti dell’uno o dell’altro Paese. Sembrò a un certo punto che si sarebbe potuto adottare un sistema sviluppato completamente in Italia, l’ISA, ma fortunatamente ci si rese conto che questo avrebbe sostanzialmente chiuso il mercato italiano ai produttori esteri, che certamente non si sarebbero messi a produrre televisori con standard autarchico. Come venirne fuori? La soluzione dei pavidi politici italiani fu tristemente geniale. Fu deciso, e annunciato a gran voce, che durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 si sarebbero usati entrambi i sistemi alternandoli, trasmettendo per esempio in PAL sul primo canale e in SECAM sul secondo, così da consentire ai tecnici e al pubblico di valutare quale dei due sistemi fosse il migliore. In questo modo il governo dell’epoca evitava di prendersi la responsabilità della scelta delegandola ad anonimi ingegneri e a vaghi sondaggi tra gli spettatori. Fu una farsa. La RAI non avrebbe certamente investito miliardi di lire in impianti di trasmissione diversi con la prospettiva di buttarne via la metà a sedicenti sperimentazioni terminate. Gli impianti erano già tutti PAL, ma per far contento il governo alcuni trasmettitori PAL furono modificati per trasmettere in SECAM, e verosimilmente con qualità inferiore rispetto a quella che si sarebbe ottenuta con un trasmettitore SECAM originale. Dopo le Olimpiadi la scelta per così dire tecnica cadde dunque sul PAL. Il governo si mostrò addolorato con i francesi e tutto proseguì come era stato deciso diversi anni prima. È da dubitare che i francesi non sapessero benissimo come stavano le cose – persino i negozianti dissuadevano i clienti dal comprare televisori SECAM -, e dunque il tutto fu un gioco delle parti. La successiva lentezza dell’avvio delle trasmissioni regolari fu dovuto probabilmente alle posizioni politiche prima ricordate, più che da problemi economici di ristrutturazione tecnologica, anche se va detto che un videoregistratore professionale con nastro da due pollici costava all’epoca anche più di un milione di euro attuali e che i nastri erano così costosi da essere riciclati una volta trasmessi (che è uno dei motivi per cui l’archivio RAI conserva così poco della storia televisiva italiana). Una baraonda per certi versi simile accadde molti anni dopo con l’alta definizione, ma questa è un’altra storia. Rispondi
Grazie. Chiedimi l’amicizia su Facebook che ne parlliamo in chat (sono l’unico Sauro Pennacchioli). Rispondi
non sono su Facebook, ma penso che tu possa vedere la mia mail, dopopdiché come IM ho solo Threema; mi spiace per la complicazione Rispondi