La storia inizia da lontano, da una persona che in Italia quasi nessuno conosce e che si chiamava Richard Schirrmann. Tedesco, nato nel 1874 a Grunenfeld, oggi in Polonia, Schirrmann è una figura chiave dei grandi mutamenti sociali che si sono verificati nella società occidentale nel corso del XX secolo e sui quali si basa il nostro odierno stile di vita: tante cose che noi oggi diamo per scontate (per esempio la costante ricerca di un lavoro migliore, o della persona “perfetta” che possa condividere la nostra vita) forse non esisterebbero senza il lavoro di Schirrmann e di altri educatori suoi contemporanei, dei quali la più nota, almeno da noi, è Maria Montessori. Schirrmann, insegnante come suo padre, si rende conto svolgendo il proprio lavoro di come la ricerca dell’indipendenza e la cura delle proprie inclinazioni siano di fondamentale importanza nel complesso percorso di crescita del bambino prima e dell’adolescente poi, sovvertendo uno schema radicato nei paesi conservatori e sotto l’influenza della Chiesa, specialmente quella cattolica: Germania, Austria-Ungheria, Italia, Spagna. In tutti questi paesi, sino alla fine dell’800 ma anche oltre, i figli sono considerati proprietà dei genitori, soprattutto del padre. I genitori decidono studi e frequentazioni dei ragazzi, e poi quale debba essere il loro lavoro e con chi debbano sposarsi. Le cose vanno diversamente nei paesi liberali e laicizzati, come la Francia e l’Inghilterra: non è un caso che il celebre “L’isola del tesoro”, di Robert Louis Stevenson, che ha come protagonista un ragazzo indipendente e risoluto sia pubblicato nel 1883 in Inghilterra, laddove da noi, negli stessi anni, esce “Pinocchio” di Carlo Collodi, che ci mostra un ragazzo (sia pure in forma di burattino), la cui ricerca dell’indipendenza e dell’avventura è invece destinata a essere rinnegata e a concludersi con il ritorno alla rassicurante tranquillità familiare. È così che Schirrmann, convinto che il modo migliore per favorire la crescita degli adolescenti e la loro indipendenza sia quello di farli interagire fra di loro, se possibile lontano da casa e a contatto con realtà nuove e tutte da scoprire, nel 1907 crea il primo ostello per la gioventù ad Altena, nella Germania centrale. L’idea è valida e ha successo, e nonostante lo scoppio della Prima guerra mondiale e poi l’avvento del nazismo, che con la sua Hitler-Jugend vuole invece ricondurre i ragazzi all’ovile (sia pure quello del Reich), si afferma in tutto il mondo negli anni ’20 e ‘30, in Francia, Inghilterra e Stati Uniti soprattutto. Infine, dopo la caduta del nazismo, il valore del lavoro di Schirrmann viene riconosciuto con il conferimento delle massime onorificenze e con una moltitudine di scuole che ancora oggi gli vengono intitolate. Morirà felice nel 1961, a quasi 90 anni, in un’epoca ricca di speranze e di ottimismo, con i suoi ostelli diventati realmente dei luoghi dove i ragazzi di tutto il mondo possono conoscersi e maturare. E in Italia? Il paese di “Pinocchio” (e di “Cuore”, pubblicato negli stessi anni) rimane indietro rispetto agli altri (cosa che, ancora oggi, quando si parla di qualche progresso in campo sociale, non è certo una novità) e ha bisogno del lavoro di un giovane fisico, a sua volta insegnante, perché l’idea degli Ostelli prenda piede. Il fisico, nato a Milano nel 1907, si chiama Aldo Franco Pessina, ed è anche uno sportivo, conoscitore della montagna e grande viaggiatore. Il suo tentativo di imitare Schirrmann si scontra con gli stessi problemi avuti dal suo omologo tedesco: i fascisti, come i nazisti, vogliono inquadrare i giovani nelle loro strutture e ostacolano i progetti di Pessina, che nel 1940 finirà al confino e solo nel dicembre del 1945 potrà finalmente fondare l’Aiag (o Aig), Associazione Italiana Alberghi della Gioventù, oggi purtroppo sull’orlo del fallimento dopo decenni di cattiva gestione seguita alla morte del suo fondatore nel 1984, e ormai più nota per un famoso caso di cronaca nera ancora irrisolto che per il valore dei suoi ostelli e l’enorme servizio da questi offerto ai giovani di tutto il mondo. Il primo tentativo di Pessina di creare un ostello risale al 1938, e nasce in seguito al clamoroso successo del suo unico romanzo, “La teleferica misteriosa”, sorta di manifesto delle sue idee pubblicato l’anno prima da Salani all’interno della famosa collana “La biblioteca dei miei ragazzi”, probabilmente la più importante raccolta di libri destinati a un pubblico giovanile che sia apparsa in Italia. La collana comprende quasi cento titoli, pubblicati dagli anni ’30 sino ai primi anni ’50, in prevalenza di autori stranieri (in genere francesi), dei quali il più famoso è di gran lunga “I ragazzi della via Paal” (il numero 29 della collana). Con il tempo aumentano gli autori italiani a esservi pubblicati: tra questi Gino Chelazzi, i cui testi, più di propaganda fascista che di avventura vera e propria, vengono fatti sparire nel dopoguerra, Collodi “nipote” e ovviamente Pessina. Il successo della collana, i cui romanzi – pur di livello non eccelso – sono tutti improntati all’avventura di stampo romantico, e hanno sempre dei ragazzi come protagonisti, è enorme, come è naturale in un paese che ancora stenta a recepire i cambiamenti dell’ordine sociale ed è anche oppresso da una dittatura; proprio il libro di Pessina è tra quelli più famosi e ristampati, al punto che ancora oggi si ricorda l’influenza che ha avuto su scrittori come Umberto Eco e giuristi come Sabino Cassese. Di che parla questo famoso romanzo? Di un gruppo di cinque ragazzi che, studenti in un “collegio” nelle Alpi lombarde, da qualche parte in provincia di Sondrio, si rendono conto che una vecchia teleferica di guerra, da tempo dismessa e abbandonata, viene fatta funzionare di nascosto, non si sa da chi, come e per quale motivo. Nonostante le enormi difficoltà incontrate nelle loro ricerche (non sempre i ragazzi possono uscire dal collegio, la neve rallenta i loro spostamenti e i mezzi di cui dispongono, in un’epoca senza Internet, televisione, radio, telefoni e tante altre cose di cui oggi ci serviamo abitualmente, si riducono all’osservazione diretta) le loro indagini vanno a buon fine e permettono di scoprire cosa si nasconde dietro questo singolare mistero. Ciò che soprattutto colpisce del romanzo è l’ambientazione, molto particolare: non solo è uno dei pochissimi “gialli sulla neve” che si conoscano, ma è singolare che si svolga in un collegio, e che questo sia presentato in una luce positiva. Mentre il “college”, nel mondo anglosassone, è un’istituzione della quale ogni ragazzo aspira a far parte, per via dell’indipendenza (dalla propria famiglia) che offre e delle opportunità di fare conoscenze nuove e importanti, per le stesse ragioni il “collegio” è sempre stato temuto e aborrito in Italia, addirittura sinonimo di odiose punizioni (come ben sa chi ha letto “Il giornalino di Gian Burrasca” e non solo). Ma come si è già accennato, Pessina, seguace di Schirrmann, rifiuta la vecchia mentalità che vede i ragazzi come appendici della propria famiglia, e ne promuove la ricerca dell’indipendenza e – se necessario – dell’avventura: per lui il collegio, in assenza degli ostelli ancora di là da venire, è il luogo che più di tutti dà spazio alle sue idee e che offre le maggiori opportunità per fare le giuste amicizie, per crescere e per diventare sé stessi, e non copie sbiadite dei propri genitori. Lungi dall’essere una terribile punizione, la lontananza dalla famiglia dà ai ragazzi la libertà di cui hanno bisogno, l’autorità dei professori si trasforma in utile complicità (specialmente nel finale del romanzo), e le molte regole da seguire aiutano ad aguzzare il loro ingegno, con trovate sempre più audaci e fantasiose. La copertina dell’edizione originale, che illustra una scena del libro a pagina 42 e che, come tutti quelli della collana, l’illustrazione si estende dalla prima di copertina alla quarta occupando anche il dorso Questo romanzo è ancora attuale? Purtroppo, leggendolo a quasi novant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, emergono molti difetti, alcuni davvero gravi: lo stile di scrittura, soprattutto, mostra la retorica e la ridondanza tipiche della letteratura popolare di quel periodo, ma con eccessi che sfiorano il ridicolo, e un uso disinvolto della punteggiatura e persino della sintassi palesemente dovuto a una scrittura affrettata e a una mancata revisione. Per esempio, in un dialogo a pagina 80 si legge “E poi, ancora, ho bisogno di agire da solo; basterebbe un vostro gesto falso per capitolare anche quella povera e unica probabilità di riuscita. No, no, non è che io tema di voi”: frasi che, dette da un ragazzo ai suoi amici, fanno più ridere che riflettere. Spiace poi la mancanza di ogni dettaglio che possa arricchire l’atmosfera del romanzo: nulla si sa del collegio, né il nome, né come sia organizzato, né cosa vi si studi e per quanto tempo e meno che mai come si svolga la vita degli studenti che lo abitano. Costoro, a parte i cinque protagonisti, sono solo delle ombre tutte uguali, che vanno e vengono senza lasciare traccia, senza che neanche si capisca quanti siano e quanti anni abbiano. Persino dei protagonisti si sa poco, non il cognome, non il luogo di provenienza, non l’età esatta: soltanto di uno di loro si viene a sapere, peraltro quasi casualmente, che ha famiglia a Milano e che un suo fratello frequenta l’università. Degli altri quattro, nulla al di fuori dei nomi di battesimo, usati sistematicamente persino dai professori in barba all’uso consueto. Il direttore del collegio è anonimo, i professori non esistono tranne quello d’inglese (“Giacomo” Honey) e quello di francese (Bonnard), che si limita a una brevissima comparsata. Persino il paese in cui si trova il collegio è avvolto nella nebbia (letteraria), senza la minima descrizione a dispetto di una piantina pubblicata in fondo al libro (si sa solo che ha una “borgata” a valle), e i soli abitanti dei quali si viene a sapere qualcosa sono il podestà, il medico e il brigadiere dei carabinieri: tutti elementi tipici di un paese non piccolo e infatti raggiunto da una “autocorriera”, ma nello stesso tempo descritto come “relegato in una vallata fuori del mondo”. Insomma, chi ben conosce la saga di Harry Potter e l’accuratissima descrizione che viene fatta di Hogwarts, delle persone che ci vivono e di quello che fanno in ogni momento del loro tempo, rimarrà non solo deluso, ma profondamente frustrato pensando a quanto sarebbe stato migliore, il romanzo di Pessina, se l’autore avesse curato anche solo una piccola parte dei dettagli. Forse Pessina temeva di annoiare i suoi giovani lettori o forse, semplicemente, non si sentiva all’altezza. Infine, il finale del romanzo è francamente deludente. Laddove il lettore vorrebbe trovare molte pagine di azione, e poi accurate spiegazioni di tutti i retroscena, di tutti i piccoli misteri e di tutte le incongruenze, deve invece accontentarsi di un brevissimo sommario, condensato in poche righe esposte sommariamente da uno degli adulti intervenuti verso la fine, e che poco o nulla spiegano o aggiungono alla vicenda, diventata col tempo assai complessa e i cui risvolti (niente affatto banali) rimangono non spiegati o a malapena accennati. Ancora una volta Pessina dimostra una certa fretta, stavolta nel voler concludere il romanzo. Forse l’autore voleva nascondere le difficoltà che temeva di incontrare nel passare da una narrazione “semplificata”, tutta basata sul punto di vista dei ragazzi, a una più classica, in cui gli adulti, e loro soltanto, avrebbero occupato il centro della scena. Un’altra valutazione errata? Il grande Mino Milani avrebbe rimarcato che scrivere per i ragazzi non significa semplificare le trame e lo stile di scrittura, ma solo scegliere certi argomenti piuttosto che altri; ma Milani aveva solo 9 anni nel 1937 e nulla poteva fare per influenzare il modo di scrivere di Pessina. La copertina del libro nella riedizione del dopoguerra, che presenta molte censure di natura politica e purtroppo anche degli “aggiustamenti” volti ad aggiornare la narrazione (come la Fiat 501 “coloniale” del medico del paese che diventa una Fiat 500C) e a “compensare” l’inflazione (come le monete da 5 e 10 lire che diventano da 50 e 100 lire rispettivamente). Ciò rende poco comprensibili alcuni passaggi, tra cui le fondamentali discussioni che si svolgono alla fine del libro riguardo alle leghe di cui sono composti alcuni “tondelli” trovati dai ragazzi. Quella di “aggiustare” i libri destinati a un pubblico giovanile è sempre stata una pessima abitudine dell’editoria italiana Nonostante tutto il romanzo funziona, e non soltanto per la dirompente carica di novità, per l’esaltazione dell’indipendenza e dell’avventura e per l’ambientazione insolita, tutti elementi che il tempo ha annacquato e la cui importanza è diventata trascurabile. Il romanzo funziona perché il mistero che propone ai lettori è credibile, realistico, è qualcosa che potrebbe accadere a ognuno di noi. In piena epoca d’oro del giallo “classico” – Agatha Christie, Ellery Queen, John Dickson Carr – non c’è un baronetto trovato morto in una stanza chiusa dall’interno dopo avere pronunciato parole indecifrabili e avere disegnato mappe dal significato oscuro; c’è solo un po’ di neve caduta dai rami degli alberi e “qualcuno” che agisce nell’ombra e che va smascherato. Né abbiamo un Holmes o un Poirot che risolve il caso dopo la prima occhiata e poi trova una scusa per allungare il brodo di altre duecento pagine sino alla rivelazione finale in presenza di tutti i sospetti. I ragazzi osservano, deducono, discutono fra loro, arrivano a delle conclusioni, organizzano delle nuove ricerche e così via, in un processo del tutto trasparente al lettore e nel quale è facile immedesimarsi, e a poco a poco risolvono il mistero, senza colpi di scena o scoperte sensazionali, ma solo grazie alla loro capacità di osservazione, a una notevole intelligenza e ad una discreta cultura (che arriva al punto di citare nel libro, con una certa dose di autoironia da parte dell’autore, un altro titolo della collana, “Il mistero del castello”, pubblicato tre anni prima). Colpisce soprattutto la caratterizzazione dei cinque ragazzi che, inizialmente tutti uguali, a poco a poco iniziano a distinguersi e ad emergere, ognuno con la sua personalità: Paolo, l’organizzatore, colui che raccoglie le informazioni, prende appunti e coordina le indagini; Dani, l’investigatore, che più di tutti osserva, scopre indizi e ne comprende il significato; Sandro, il decisionista, che preferisce l’azione alle discussioni, anche di fronte ai pericoli; Emilio, l’ostinato, capace di seguire le piste più elusive per giorni e giorni senza mai tirarsi indietro; e infine Mario, l’impulsivo, che parla sempre troppo ma è l’unico capace di improvvisare quando la situazione si fa complessa e in apparenza senza vie d’uscita. Non è da escludere che Pessina, nei suoi viaggi all’estero, avesse letto qualche giallo “da ragazzi”, genere che allora si stava diffondendo negli Stati Uniti e che sarebbe arrivato in Italia solo nel dopoguerra: negli anni ’30 erano già molto famose le serie degli “Hardy Boys” e di “Nancy Drew”, ed è probabile che l’ottimo lavoro fatto nel caratterizzare i suoi giovani investigatori sia dovuto anche all’influenza di questi libri. Certo, oggi non tutti sanno cosa siano un “collegio” o una teleferica, e nessuno – neanche la polizia, purtroppo – saprebbe come svolgere una qualche indagine senza disporre di Internet, di smartphone, delle onnipresenti videocamere. Ma è proprio per questo che la lettura del romanzo può diventare una piccola sfida, può trasformarsi in uno stimolo per uscire dalle nostre abitudini, per riscoprire altri stili di vita e forse anche per tornare a pensare, a ragionare invece di adoperare sempre e comunque mouse e tastiera: non è appunto questo che voleva Pessina? Navigazione articoli PIER LUIGI NERVI E IL PALAZZO DEL LAVORO IL VERO BRACCIO DI FERRO