Paul Verhoeven, un olandese, è riuscito a catturare un’epoca delineandola meglio di quanto avessero fatto molti suoi colleghi americani. RoboCop è un’istantanea, appunto. La sua introspezione sociopolitica, tramite una satira pungente, evidenzia la contraddittoria bellezza della società americana degli anni ottanta.

Su carta, c’è da dire che RoboCop, pare una bella cazz… piuttosto sciocco. È un super-poliziotto robotico costruito per fermare i criminali. Eh… pure il titolo, effettivamente, non è proprio il massimo. Certo, meglio dell’iniziale SuperCop. Quando Ed Neumeier e Michael Miner, gli sceneggiatori del film, iniziarono ad andare in giro a proporre il loro script, non gli risero appresso ma quasi. Nessuno studio voleva finanziare il progetto, tanto meno c’era qualcuno che volesse dirigerlo.

ROBOCOP, UNA STORIA AMERICANA



O meglio, in realtà uno ci andò molto vicino ad accettare: Alex Cox, il regista di Repo-Man, ma anche lui diede forfait quando gli negarono la possibilità di apportare alcune modifiche alla storia. Alla fine, dopo aver tirato nella mondezza la sceneggiatura perché un tantino schifato pure lui, e ripescata poi dalla moglie che lo convinse a continuare a leggerla, ad accettare di dirigere RoboCop fu appunto Paul Verhoeven.

Così, il primo film hollywoodiano di Verhoeven mette in mostra un futuro non lontanissimo, e manco poi tanto dissimile dal suo presente, se è per questo. È un futuro che pesca a piene mani da tutto ciò che ha caratterizzato gli anni ottanta, come la crisi e il successivo rampantismo economico, e la paura di un conflitto atomico. C’era tutto, insomma.

RoboCop è riuscito catturare un’epoca. Così, su due piedi, in termini di paragone si potrebbe citare American Psycho di Brett Easton Ellis. È un’altra storia in cui viene fuori il contradictio in adiecto di una società dove tutti sono prevalentemente interessati al guadagno materiale e alle apparenze. Richard “Dick” Jones della Ocp in RoboCop agisce come se tutto, comprese le persone, fosse una merce.

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In questo senso, se c’è una cosa da apprezzare di Paul Verhoeven, quella è la sua capacità di analizzare il contesto e di conseguenza, prendere pacatamente per il culo tutto ciò che lo circonda. Per capirci, parlando di RoboCop in un’intervista se ne uscì con:

“Ai tempi in cui stavo facendo RoboCop, guardavo la società americana e ne ero stordito. Era tutto così diverso dalla vita in Olanda. Un sacco del mio, diciamo stupore, è in Robocop. Nei suoi finti spot pubblicitari, notiziari e così via, e anche distanza dei personaggi”.

Anni dopo, in un’intervista alla rivista Filmmaker del 2012, Verhoeven torna indirettamente sull’argomento parlando dei suoi anni in America rispetto al ritorno a fare film in Europa:

“Negli Stati Uniti è più una cosa del tipo che arrivi, ti dicono quello che vogliono e tu lo fai. L’unico modo per far passare la tua visione è essere anche il produttore dei tuoi film, come Spielberg, per esempio… no, c’è pochissimo spazio per la creatività, almeno per me. Se voglio fare qualcosa allora lo faccio in Europa”.

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A ogni modo, il fil rouge del distacco, cioè di una società talmente alienata da riuscire a somatizzare qualunque cosa, finanche il peggio orrore, oltre che in RoboCop corre anche attraverso i successivi Atto di forza e Starship Troopers. La televisione, le pubblicità martellanti, lo scopo di questi espedienti metanarrativi è fare da sottotesto. Praticamente uno sfondo che mette in risalto la violenza delle storie mostrate in primo piano. 

Oltre a dare colore il messaggio è palese: mostrare i diversi modi con cui, attraverso la televisione, si può manipolare l’opinione pubblica distorcendo i fatti. RoboCop inizia proprio così: con un telegiornale. Tralasciando il messaggio intrinseco, il colpo di classe sta nel fatto che al posto del solito, orribile w.o.t. – wall of text, cioè il muro di testo, insomma – questo finto tg, tipo narrazione epistolare, è l’introduzione alle vicende. 

Dalle notizie del giorno si è capito che siamo in una distopica città di Detroit del futuro. In questa città il crimine è talmente radicato da essere diventato uno stile vita. In tutto questo, l’agente Alex Murphy (Peter Weller) viene distaccato al distretto di Detroit, sempre più a corto di uomini.

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Nel frattempo,  la potentissima multinazionale Omni Consumer Product stipula un contratto con l’amministrazione comunale per dirigere il dipartimento di polizia. Lo scopo della Ocp è quello di accaparrarsi tutta Detroit, stroncata dai debiti, per pochi spicci. Raderla al suolo e al suo posto costruire Delta City: un’utopistica metropoli di sua esclusiva proprietà, naturalmente.

Paradossalmente, l’unica cosa che divide la Ocp dal mettere in pratica i suoi progetti è il crimine della vecchia Detroit. Cosicché, il capo della divisione sicurezza della Ocp, Richard “Dick” Jones (Ronny Cox che un paio d’anni dopo tornerà a lavorare di nuovo con Verhoeven interpretando Vilos Cohaagen in Atto di Forza) se ne esce con la sua brillante soluzione: Ed-209.

È un robot messo a pattugliare le strade che non ha bisogno di dormire, mangiare e tanto meno di diritti. Ovviamente pesantemente armato, corazzato, efficiente e letale. Alé. Obiettivo di Jones: sostituire tutti (o quasi) i poliziotti di Detroit con le unità Ed-209.
Interessante notare come, giusto in una manciata di secondi, Verhoeven sia riuscito a mostrare tutta la sgradevolezza di questo personaggio.

Appunto, durante la dimostrazione di prova, Ed-209 mostra tutta la sua efficienza massacrando a mitragliate uno dei dirigenti del consiglio d’amministrazione. La cosa verrà definita da Jones “un semplice disguido” e liquidata in quattro e quattr’otto.

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Dall’altro lato della città Murphy e la sua nuova compagna Anne Lewis (Nancy Allen che alcuni anni prima e con diciotto kg di lacca in più era la bulla Chris in Carrie – Lo sguardo di Satana) stanno a prendersi il caffè e a gozzovigliare. Murphy continua a fare la cazzata di roteare la pistola per fare contento il figlio.

I problemi, però, non è che ci mettano molto ad arrivare. Ricevuta una chiamata riguardo un veicolo sospetto probabilmente coinvolto in una rapina, gli agenti vanno all’inseguimento. Sfortunatamente per loro, il furgone è proprio quello della rapina commessa da Clarence Boddicker (Kurtwood Smith, uno che alle spalle ha un curriculum enorme, ma che molti sicuramente ricorderanno per la parte del direttore Poe in 2013 – La Fortezza). Il più violento e pericoloso criminale di Detroit e la sua banda.

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A proposito di Boddicker, giusto due cose. Innanzitutto, un conto è la caratterizzazione data a un personaggio su carta. Altro paio di maniche è la caratterizzazione con cui un attore dà spessore a un personaggio. Gran parte della personalità di Boddicker è merito esclusivo proprio di Smith. 

Infatti, gran parte delle sue scene vennero improvvisate lì per lì. Tipo, tanto per dirne una, non c’era scritto da nessuna parte che dopo essere stato arrestato da RoboCop, dovesse sputare a spregio sul bancone del distretto di polizia e mettersi a prendere per il culo gli agenti.

Altra cosa, anche se pare una robetta da niente, quegli occhialini con la montatura a giorno che fanno tanto sfighé, pure furono un’idea di Smith. La sua intenzione era quella di rendere Boddicker quanto più disturbante e sgradevole possibile, facendolo somigliare a Heinrich Himmler, il capo delle SS. In effetti, a guardarlo bene la somiglianza è notevole.

Era previsto che RoboCop cominciasse proprio con Boddicker e i suoi uomini che rapinano la banca, sbattendo subito in faccia agli spettatori un bagno di sangue e un trionfo di corpi crivellati di proiettili. Alla fine, Verhoeven scartò l’intera sequenza, optando per qualcosa di più originale e funzionale. All’epoca l’uso di clip televisive nei film era una cosa abbastanza singolare.

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Dopo l’inseguimento, Murphy e Lewis rintracciano la banda nella vecchia acciaieria abbandonata adibita a covo segreto. Ovviamente, senza aspettare rinforzi, hanno la bella pensata di fare irruzione. Aperta e chiusa altra parentesi.

La fabbrica abbandonata è un’altra e parecchio sottile metafora, con cui viene sottolineato lo stato di decadimento di un’industria che non riesce a stare a galla. RoboCop è ambientato a Detroit, notoriamente conosciuta come Motor City, la città dei motori. Lo spettro della crisi dell’industria automobilistica americana incombe su RoboCop è questa cosa non è una coincidenza.

Ed-209, così ingombrante, goffo e difettoso rispetto a Robocop, non è altro che la fantascientifica incarnazione di un’industria all’esaurimento che perde terreno. È un’industria che non è in grado di evolversi, competere e tenere il passo con i modelli esteri migliori e in generale più efficienti, sotto quasi ogni aspetto.

Com’è come non è, alla fine Lewis si piglia un paio di papagni in bocca e va lunga a terra. Murphy viene circondato dall’intera banda che, prima di ucciderlo, lo tortura mutilandolo a fucilate. Fondamentalmente la morte di Murphy è ciò che si aspettava la Ocp. Il motivo per cui riassegna gli agenti in distretti pieni di crimine è in previsione del fatto che uno sarà ucciso in azione prima o poi.



Dopo il fallimento della dimostrazione di Ed-209, Bob Morton (Miguel Ferrer) ambizioso dirigente junior, coglie al volo l’opportunità di presentare il proprio progetto di un cyborg sperimentale: la morte di Murphy, dunque, gli capita a fagiolo. Perciò la Ocp recupera il suo corpo e lo seleziona come candidato per il progetto RoboCop. 

Del corpo di Alex Murphy di organico rimane solo il cervello e un tratto digestivo ridotto a uno stato rudimentale. Il restante 90% viene sostituito da un apparato cibernetico. Dopodiché, RoboCop viene programmato con tre direttive: servire l’ordine pubblico, proteggere gli innocenti e applicare la legge. Morton e il suo team non sono a conoscenza di una quarta direttiva segreta.

A partire dalla sequenza della rapina al grocery store, si può notare in ogni scena l’uso che Verhoeven fa della televisione. I programmi e le pubblicità, sono parte integrante della storia e dei personaggi al suo interno che ritraggono un’immagine squallida di una società futura non molto diversa dalla nostra.



Da un lato, i notiziari forniscono uno spaccato di realtà orribile. Dall’altro, varie aziende vendono spauracchi di cattivo gusto a buon mercato. Come il gioco da tavola Nukem, chiaro riferimento alla Guerra fredda, che trasforma la prospettiva di un armageddon nucleare in un divertimento per tutta la famiglia.

Oppure, la magnifica Sux 6000. Una vera tradizione americana, secondo lo slogan. Un’auto orrenda e inutilmente grande (appunto ingombrante come Ed-209 e antiquata come il dinosauro nella pubblicità) che fa tipo un chilometro in città e due in autostrada con un pieno. 

Al di là del fatto che la Sux 6000 è clamorosamente, inquietantemente vicina ai moderni Suv, da notare il piccolissimo dettaglio di come la parola si pronunci allo stesso modo di Sucks (schifo). In altre parole, staresti comprando la Schifo 6000.



Tralasciando Atto di Forza, guardando RoboCop e Starship Troopers, stiamo parlando di un tizio, Verhoeven, che è riuscito a farsi pagare milioni per prendere per il culo le stesse persone che lo pagavano. Pura poesia. Tuttavia, questo era il 1987. Questo era RoboCop.

È una storia a più livelli che, tra il serio e il faceto, usava un super-robot futuristico per mostrare i pericoli delle business-for-profit senza controllo, la spietatezza delle corporation, l’influenza che i media possono esercitare su una società anestetizzata  e via dicendo. Pochi ci credevano, ma alla fine RoboCop fu un successo. 

E cosa succede quando un film su soggetto originale diventa un successo? Esatto: si spalancano le porte (dell’inferno) dei seguiti.



Dal film originale venne fuori di tutto. Due seguiti, uno più blando e sciacquato dell’altro. Due serie animate, RoboCop e RoboCop: Alpha Commando, andate in onda una alla fine degli anni ottanta e l’altra dei novanta. Due serie televisive. Una, RoboCop del 1994 andata in onda anche da noi, stucchevole per il taglio da classico prodotto televisivo per famiglie. L’altra, RoboCop: Prime Directives, più seria e inerente al film originale, ma dal budget tremendamente basso. 

Dulcis in fundo, un remake PG-12 di pochi anni fa, che definire ridicolo sarebbe solo un simpatico eufemismo. Anzi, a proposito del remake di RoboCop (e non solo), vale la pena riportare cosa disse in merito Verhoeven in un’intervista a ridosso del rilascio:

“In qualche modo, sembrano pensare che la leggerezza nei modi di portare il messaggio in Atto di Forza e RoboCop, sia una specie di ostacolo. Quindi, prendono queste storie assurde e fantasiose e le rendono tremendamente serie. Penso sia un errore. Soprattutto quanto fatto in RoboCop. Quando si risveglia, gli danno lo stesso cervello”.

“Murphy è una vittima. Orribilmente mutilata. La sua è una storia tragica sin dall’inizio. Perciò non abbiamo fatto questa cosa in Robocop (1987). Il suo cervello, la sua identità è sparita, ha solo dei lampi di memoria e ha bisogno del computer per rimettere insieme i pezzi poco alla volta e ricordare chi era”.

“Penso che non avere un cervello robotico, renda tutto molto più pesante e non credo che la cosa aiuti il film in alcun modo. Così diventa sciocco e assurdo nel modo sbagliato. Entrambi questi film (Atto di Forza e RoboCop) hanno bisogno della giusta distanza della satira o della commedia per essere indirizzati al pubblico. Andare dritti senza umorismo è un problema, non un miglioramento”.

Insomma, è chiaro a questo punto che RoboCop era diventato un giocattolino, no?



Le cose, avrebbero potuto essere molto, molto diverse. Però già il pippone è troppo lungo così com’è. Se aprissi una parentesi pure su tutta la storia di RoboCop 2 farei notte e non è il caso. Quindi, il succo è: quando, nel 1988, si iniziò a lavorare su Robocop 2, le cose si rivelarono piuttosto complicate a causa dello sciopero degli sceneggiatori. Cosicché ci fu il bisogno di ricorrere a vie traverse.

Riconoscendo l’influenza che i fumetti dei supereroi avevano avuto per scrivere RoboCop 2, gli studios si rivolsero a Frank Miller. Grazie al suo lavoro su Daredevil, ma soprattutto, il grande successo di The Dark Knight Returns, Miller si era fatto una certa nomea, tale da catturare l’interesse dei dirigenti di Hollywood. Grande fan di Robocop, Miller aveva subito accettato ed era impaziente di cominciare a scrivere la sceneggiatura del sequel. 

Purtroppo la visione di Frank Miller faceva a cazzotti con quella degli studios, che avevano in mente un film decisamente più “attenuato” rispetto al primo RoboCop. Di certo, non più violento. La storia scritta da Miller era ancora più viscerale nello scagliarsi contro l’America delle corporation e qualsiasi forma di autorità. Spingeva tantissimo su una satira sociale torbida e volutamente esagerata. Proprio quello che non avevano in mente i produttori speranzosi di vendere i giocattoli.

Il mondo di RoboCop era un crogiolo iperbolico di tutte  le paure degli anni ottanta: aumento del crimine, tensioni sociali, crisi energetiche, Guerra fredda e compagnia cantante. Agli occhi di Frank Miller, però, la più grande minaccia era il politically correct: non c’è niente di peggio, pensava all’epoca, della fredda omologazione coatta in cui ogni pensiero dev’essere, necessariamente, pesato sulla bilancia dell’isterica correttezza politica prima di essere espresso. Eh…

Hey, Frank: benvenuto nel mondo del domani, insomma.

Frank Miller dovette poi abbandonare sia le linee guida della prima bozza del seguito, scritta direttamente da Ed Neumeier e Michael Miner, sia la sua, a causa dei contrasti con la produzione che tutto volevano, tranne che una roba ancor più aggressiva. Perciò riscrisse una seconda bozza più annacquata. Annacquata ancora di più, a sua insaputa, da un secondo scrittore chiamato a correggerla e diventata poi la sceneggiatura effettiva di RoboCop 2

A parte Frank Miller, anche il cast rimase deluso. Tanto che perfino Peter Weller e Nancy Allen ammisero di preferire molto di più il concetto originale di Miller, rispetto al prodotto finale, ma che vuoi farci, così è la vita.

Ebbene, detto questo anche per stavolta è tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.




(Da Il sotterraneo del Retronauta).


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