Esistono film che, pur facendo parte di un sicuro palinsesto pomeridiano o a tutti gli orari sulle reti satellitari dedicate al cinema classico, sono stati dimenticati dagli addetti ai lavori di qualunque tipo e ricevono tenue e forzata critica su manuali e repertori. Uno di questi è Il principe degli attori (Prince of Players, 1955) che, pur godendo di notevoli qualità (benché nel contesto di un’opera biografica nata e realizzata in un’epoca di censure, equivoci e forzosi fraintendimenti) e mostrandosi oggi ricco di interesse e stuzzicanti letture intertestuali più che al suo tempo, non è nel novero delle tante rivalutazioni di cui sono spesso oggetto prodotti ben inferiori. A suo tempo ebbe un notevole successo negli Stati Uniti e negli altri paesi di lingua inglese, ma anche in Francia e da noi. Dal punto di vista artistico e popolare fu la conferma definitiva dell’allora ventiseienne Richard Burton, la cui intensa e splendida carriera teatrale era pressoché sconosciuta fuori dai territori anglofoni e, dopo il 1964, venne cancellata dalla notorietà dettata dal gossip internazionale e dal confronto con i successi paralleli della moglie Elizabeth Taylor, una vicenda che condizionò anche la critica quasi fino alla morte dell’attore nel 1984. Ebbene, per cominciare, raccontiamo come arrivò a questo film Richard Jenkins, poi autobattezzatosi Richard Burton. Nato nel 1929 da una famiglia di poveri minatori, penultimo di tredici figli, Richard visse un’infanzia ben conosciuta dai lettori, una volta numerosissimi, dei romanzi di A.J. Cronin (specialmente La cittadella e E le stelle stanno a guardare), Com’era verde la mia valle di Richard Llewellyn e Il grano è verde di Emlyn Williams, a cui il destino del giovanissimo Richard fu legato per le sintonie strette con la sua vicenda personale e professionale. Per chi oggi avesse dimenticato o mai conosciuto questi titoli ricordiamo il loro racconto, crudo e realistico, ma anche pieno di epica speranza, della vita dei minatori di carbon fossile negli anni venti e trenta del Novecento: immersi nei pozzi oscuri, fuligginosi e insicuri, nel mezzo delle prime rivolte sindacali per rivendicare orari più umani e cure contro le malattie causate dalle polveri e i gas mefitici, dalla silicosi di cui morì anche la madre di Richard. Destinato a scendere anche lui in miniera, ribelle ed estroverso quanto forte di fisico, Richard fu anche carrettiere, spalatore di stallatico, scaricatore di materiale esplosivo e di macchinari altrettanto pericolosi se trainati da un mulo smagrito in sentieri sterrati e ardui. Con i suoi guadagni si dedicava agli studi in cui eccelleva, soprattutto negli esercizi di dizione, canto, recitazione di poesie e brani scespiriani adattati per le scuole dei poveri, utili anche alla sua passione per le coetanee femminili che incominciò a prediligere in età prepubere. Ciò spinse i suoi fratelli maggiori e il padre, ormai condannato all’alcolismo, a farlo concorrere, a soli dodici anni, alla borsa di studio per accedere agli istituti secondari. In questo fu aiutato dal suo insegnante, Philip Burton (dal quale poi volle prendere il nome come attore professionista), il quale, in seguito emigrato negli Stati Uniti, divenne un personaggio importante per la la diffusione della prosa radiofonica e televisiva come produttore e membro, già in patria, di un’élite di importanti personalità del palcoscenico, e in seguito del cinema (composta da John Gielgud, lo stesso Emlyn Williams, Terence Rattigan, Christopher Isherwood e John Van Druten), che l’accolse tra loro. Il giovane Richard era abbastanza sgamato per non comprendere che quel club di talenti era anche una compagine di amicizie omosessuali e, pur mantenendo per loro un sincero affetto, capì il rischio di sembrare niente di più che un servo di scena. Quando già nel 1943, grazie a loro, arrivò a interpretare ruoli importanti in Pigmalione di G.B. Shaw e Il mago in riposo di Williams, cercò l’approvazione di altri divi teatrali quali appunto Shaw, Michael Redgrave, Nigel Patrick, Jack Hawkins, John Mills, Roger Livesey e soprattutto Laurence Oliver. Ci riuscì. Tanto che tutti costoro, e proprio Olivier in particolare, non mancarono di metterlo in luce presso la stampa e avviarlo alla radio e alla tv dove, nel giro di un anno, era già famoso per il talento innato e quel suo aspetto ancora grezzo, duro, il volto segnato da una malattia infantile della pelle, ma in cui i suoi occhi azzurri, dolorosi e melanconici, si accedevano di un bagliore interiore non trascurato dal pubblico femminile. Non a caso non fu estranea al suo contratto con la Bbc un’attrice allora già molto affermata, Eleanor Summerfield, che aveva cinque anni più di lui. La quale si legò sentimentalmente al figlio del minatore e patrocinò una lettura memorabile de I miserabili rimasta famosa mentre, sulla Gran Bretagna, cadevano le bombe degli stuka tedeschi. Arruolatosi nella Raf diede il suo contributo alla battaglia d’Inghilterra senza comunque smettere di recitare durante l’esperienza militare. Il suo esordio in tv avvenne con la citata piece Il grano è verde nel 1944, che poteva davvero sembrare modellata sulla sua vita adolescenziale, e si può comprendere quanto Richard la considerasse con passione. Il testo racconta di una sensibile ed energica insegnante, Miss Moffatt, la quale, trasferitasi in una cittadina di minatori, si prende cura di un giovane, Morgan Evans, che porterà a emendarsi attraverso lo studio e la coscienza delle sue capacità interiori. Nella versione in studio, Richard interpretava Morgan e Mary Newcomb il ruolo della Moffatt che, al cinema, l’anno dopo, andrà a Bette Davis, invecchiata dal trucco ma non abbastanza, nella versione Warner Bros che segnò il debutto, come Morgan, di John Dall, allora effettivamente legato a E.Williams, al quale non arriderà una carriera altrettanto folgorante come quella di Burton. Durante il suo debutto cinematografico (in Last days of Dolwyn del 1949, inedito in Italia sebbene il testo teatrale di E. Williams fu tradotto su Il dramma, come si usava, e portato in scena con Vittorio Gassman ed Elena Zareschi, che interpretò Moffatt ancora nel 1961 alla Rai con Gabriele Antonini e un giovanissimo Antonio Salines) conobbe Sybil Williams, lontana parente dell’autore che interpretava un ruolo minore. Tra i due nacque la passione e si sposarono. Il loro matrimonio, da cui nacquero due figlie, durò fino al 1964. Dopo il successo a Broadway della versione di Il grano è verde, Darryl Zanuck, il capo incontrastato della 20th Century Fox e il più sensibile tra i mogul delle majors hollywoodiane, gli fece un contratto di cinquantamila dollari a film e lo fece esordire come protagonista maschile al fianco di una star affermata come Olivia De Havilland, nella non facile trasposizione per lo schermo di Mia cugina Rachele da Daphne Du Maurier. I toni asciutti con cui Richard Burton diede linfa vitale alla straziata esistenza di Ashley, il nipote che poi tale non è, piacquero tanto alla critica quanto al pubblico e ne fecero, nel 1952, a ventitré anni, un divo dal mattino alla sera. Fu candidato all’Oscar e vinse il Globe come attore esordiente. Ma il suo vero successo fu il prodotto successivo, La tunica (1953), tratto dal turgescente e colorato dramma di senso e fede, peccato e redenzione, raccontato da Lloyd C. Douglas in un romanzo di richiamo (uscito in Italia l’anno dopo in corrispondenza all’arrivo del film da Rizzoli) benché la fama della pellicola fu orchestrata fin da prima delle riprese, trattandosi del primo caso in assoluto di uso del Cinemascope. Il figlio del minatore si trovò immerso in un cast nutrito di star inglesi e statunitensi, nei panni del tribuno Marcello con al fianco la londinese Jean Simmons, sua coetanea ma con alle spalle già una brillante carriera decennale sul palcoscenico e al cinema anche come Ofelia nel mitico Amleto di Oliver e ironica regina d’Egitto nella versione schermica di Cesare e Cleopatra di G.B. Shaw con Claude Rains nei panni dell’imperatore. Ma accadde, per iniziativa di un troppo sollecito clan giornalistico, che Burton, già nominato “attore europeo dotato di maggiore sex appeal dell’anno 1953” da un potente club femminile, si trovasse invischiato in un falso legame sentimentale con la Simmons nella finta realtà perbenista del gossip hollywoodiano. Lei era sposata dal 1950 con Stewart Granger, con il quale era giunta negli Usa, e anch’egli immediatamente sotto contratto della Mgm. Ciò causò un disguido legale tra la Fox e la Metro al punto da costringere le due società, entrambe accusate dalla procura di Los Angeles di notizie false a scopo promozionale, a dibattere una cospicua somma di risarcimento benché non fosse chiaro se dovesse essere versata da Zanuck che aveva reclamizzato Burton o da Louis Mayer che aveva promosso la Simmons. Come spesso succede, le due società finirono con l’accordarsi e La tunica ne ricevette un’altra mirabolante spinta pubblicitaria che, se vi furono, coprì ampiamente le spese legali. La Fox si assicurò un seguito altrettanto colossale (e l’unico caso a breve termine in questo genere di film) con I gladiatori (1954), dove compariva Victor Mature, coprotagonista con Burton de La Tunica, e Susan Hayward quale perfidissima Messalina. Prima di decidersi a varare questo progetto, Zanuck chiese a Burton se non avesse preferito un colossal di altra collocazione storica per riutilizzarlo immediatamente nel grande successo che, anche per l’uso del Cinemascope, stava diffondendosi in tutto il mondo. Da Mayer gli arrivò l’offerta di duplicare il cachet se fosse passato alla Mgm. In questi frangenti, giocò lo spirito del figlio del minatore, dell’attore che era divenuto un divo partendo da un sobborgo gallese e, seppur nascostamente, si sentiva ancora un laburista nel bel mezzo della caccia all’eversivo. E quindi scelse di rimanere con la Fox e girare Il principe degli attori, stuzzicante la sua vocazione teatrale, e proposto da Philip Dunne (sceneggiatore, con il blacklisted Albert Maltz, de La tunica) il quale si assunse una delle sue rare regie e la produzione esecutiva oltre all’opzione di poter mettere le mani nella sceneggiatura, tratta da un romanzetto di Eleanor Ruggles (uscito in Italia nello stesso 1955 da Baldini & Castoldi), una stimolante e accurata realizzazione della vita di Edwin Booth, membro della più nota famiglia di attori americani prima dei Barrymore, il quale, benché la sua fama non si fosse ancora spenta negli anni cinquanta, la pubblicista da due soldi e il cittadino medio ormai stentavano a non confonderlo con il fratello John Wilkes, anch’egli attore ma soprattutto assassino di Lincoln. Edwin Booth (1833-1893) Per il copione venne scelto Moss Hart, famosissimo allora e nei decenni a venire, in coppia con George S. Kaufman, come autore di commedie esilaranti e a sfondo satirico con enorme popolarità al box office di Broadway, ma anche per i film che ne erano stati tratti, tra cui ricordiamo Non te li puoi portare appresso e Il signore resta a pranzo (intitolati per il cinema nostrano L’eterna illusione – di Frank Capra per la Columbia – e Il signore che venne a pranzo di William Keighley della Warner Bros) noti anche da noi per essere due cavalli di battaglia teatrali di Gino Cervi, che riuscì a portarli anche in tv negli anni sessanta. Moss Hart (anche autore di libretti per Irving Berlin, Rogers Edens e Cole Porter) poteva sembrare il meno adatto a sceneggiare una storia assai drammatica, ma nella sua scelta giocarono l’immensa fama di scrittore di teatro e la sua competenza privata sulla storia del palcoscenico americano di cui era ritenuto uno dei maggiori esperti. Del resto Zanuck e Dunne si riservarono di controllare che non deviasse in toni di divertissement. Ma quale era stata l’importanza cruciale della famiglia Booth e in special modo di Edwin (detto Ed) nell’America di primi cinquant’anni dell’Ottocento e dopo? Il patriarca Junius Brutus Booth Senjor, inglese, figlio a sua volta di attori, amico e sodale del grande Edmund Kean (da noi reso un prototipo di “genio e sregolatezza”, negli anni cinquanta, da Vittorio Gassman, accentuandone assai i toni melodrammatici e gigioneschi, sia a teatro, in tv, e al cinema con il supporto tecnico di Francesco Rosi), con il quale aveva recitato prima di lasciare la patria, la moglie Agnes (anch’essa grande interprete sino alla fine nel 1897) e il suo primo pargolo. Si era infatti innamorato follemente di una fioraia dell’East-end londinese dalla quale ebbe poi otto figli tra cui quattro morti precocemente e l’ultimo, considerato il suo erede, deceduto durante la sua prima riapparizione nel Regno Unito e quindi sostituito come tale, al ritorno in Usa nel 1836, dal penultimo: John Wilkes detto Jack o Johnny. Junius portò, nell’America ancora assai lontana dai fasti delle scene europee, una recitazione più asciutta, una perfetta dizione, una interpretazione variante ma geniale di tutti i maggiori testi scespiriani, per cui ottenne vastissima fama sia nelle città della costa occidentale che nel West dove si recò più volte creando una tradizione che subissò le farse da due soldi che, molti anni dopo, resero famoso come Buffalo Bill, prima del famoso circo, l’ex cacciatore di bisonti William Cody grazie allo scrittore di dime novel Ned Butline, riciclatosi come allestitore di farse ingenue e irrealistiche. Per la cronaca, sia Cody che Butline appaiono, in un realisticamente similare contesto metropolitano, benché accolti con maggior simpatia, secondo una tradizione che risale al numero 82 della serie regolare di Tex Willer (La sfida, uscito nell’agosto 1967). Nel capolavoro di John Ford Sfida infernale (1947), assistiamo all’attore Granville Thorndyke, dal fisico rotondo e la propensione all’alcol, recitare Amleto in un saloon dove viene salvato dalla violenta ignoranza del pubblico dal personaggio mitologico Doc Holliday, il dentista turbercolotico che partecipò alla sfida all’Ok. Corral il quale, nel film, continua a riprenderne i versi zittendo la marmaglia. Poiché il regista non si pronunciò mai a riguardo, si diffuse, anche nella storiografia cinematografica italiana, l’idea che questo sfortunato e infelice mattatore ante litteram (poi ripreso dallo stesso attore – Alan Mowbray, anch’egli londinese di nascita – sebbene con toni assai più disillusi, in La carovana dei mormoni , altro capolavoro fordiano del 1950) si riferisse a Edwin Fitzgerald Foy, noto come Eddie Foy e il cui figlio Eddie Foy junior fece in tempo a comparire nella biografia musicale dell’illustre collega George Mc Cohan (Ribalta di gloria, 1942) nei cui panni James Cagney canta, balla, e fa propaganda agli Usa ormai in guerra. Però, secondo studi recenti rifattisi alle ritrovate testimonianze degli sceneggiatori (raccolte da Patrick Ford, nipote del maestro, e dal regista-cinefilo inglese Lindsay Anderson) basandosi sulla risonanza di Foy quasi esclusivamente nel repertorio vaudeville composto di operette e testi comici – il personaggio, sebbene collocato qualche decennio dopo, sarebbe ispirato a Junius Brutus. Poco male se, in realtà, non visse mai episodi simili, ma semmai rese William Shakespeare autore amato e atteso nei raduni di cowboy, nei villaggi mobili dei cercatori d’oro, persino tra gli schiavi delle piantagioni a cui i padroni, nella loro crudele grettezza, non sapevano quale effetto poteva esercitare il bardo immortale se l’istrione metteva in risalto i brani più emozionanti, ma anche interpretabili come amaro giudizio sulla condizione degli afroamericani. Da parte mia, che credo di aver studiato abbastanza Patrick Ford, non penso sia possibile (e nessuno ci è riuscito) sapere cosa avesse in testa, benché propenda che, per la sua generazione, fossero più familiari i Foy che morirono rispettivamente nel 1928 e nel 1983. Per cui poteva aver visto benissimo il padre da quando era bambino sino ai trent’anni inoltrati, e il figlio, figura minore ma familiare in Usa sino al ritiro nel 1977; nonché avere assistito al successo del biopic con Bob Hope (Eravamo sette fratelli, in originale The seven little Foys riferito alla prole del capostipite) nell’agosto del 1955. E Ford non era certo immune al lasciarsi trascinare dalle memorie infantili, né dall’umorismo battutista di un istrione come Hope in uno dei suoi film migliori. La storia personale di Junius Brutus in America, pur contenendo tanti richiami psicologici al giovane Richard Burton quanto al figlio Ed interpretato in Il principe degli attori, fu baciata da un enorme successo. Bisogna pensare quanto a quei tempi, specie nei territori tra le due coste, anche la povera gente, gli emarginati e i derelitti, trovassero nella declamazione di Shakespeare un contraltare alla loro vita, tutt’altro che avventurosa, spesso monotona e segnata dal ripetersi delle sfortune e con paghe di fame E questo il film lo illustra molto chiaramente. Dopo la morte del figlio a Londra, e altre ragioni che sarebbe inutile psicoanalizzare con 170 anni di ritardo, Junius iniziò a manifestare segni di depressione sfocianti in manifestazioni eccentriche (il funerale del suo cavallo) e soprattutto all’alcolismo che lo induceva a far saltare gli spettacoli facendo vita di taverna, oppure ritirandosi nel suo ranch nel Maryland dove possedeva un allevamento di equini e viveva la sua unica figlia femmina, Asia, presto chiamata a sostituire la madre. Il film inizia con un prologo, nel 1848, quando l’adolescente Ed accompagna il padre nelle sue ultime tournée e, prima di ogni spettacolo, lo deve trascinare via dall’osteria dove si sta ubriacando. Poi, durante la recita, il ragazzo siede nella buca del suggeritore, corregge i testi, impara a fare teatro seduto tra la gli acari e le pulci. In questo preambolo vediamo Junius Brutus cimentarsi in un’impresa accaduta, in realtà, molti anni prima, all’inizio della sua prima apparizione in America, quando il pubblico vedendolo (non misurava più di un metro e sessanta, era magrissimo e con le gambe arcuate ma, quando indossava il costume di scena, diveniva un credibile Otello o Amleto) si mise a protestare, urlare, insultare. Allora Junius si presentò sul palco, muto finché il clamore cessò, e poi disse: “Massa di bifolchi, abbiate la compiacenza di aspettare qualche minuto e vi darò il miglior Riccardo III che avrete mai visto”. Qui l’episodio, senza perdere il suo significato, accade per il clamoroso ritardo con cui Ned e l’impresario Prescott riescono a rimetterlo in sesto. E qui si presenta un punto debole del film, in quanto l’attore scelto per interpretare Junius Brutus fu Raymond Massey, canadese e allora divo del teatro americano, che era alto e robusto e, a maggior differenza del personaggio, non aveva invece il volto bello, il profilo greco, immortalato nelle immagini sui giornali e i cartelloni. Ma bisogna convenire che Massey, pur quasi sempre relegato dal cinema in ruoli di villain, se la cava benissimo a dare, in poco tempo, il senso di disagio interiore che si è impadronito di Junius. Infatti, nonostante i suoi sempre più frequenti ritorni nella fattoria in Maryland, dove John Wilkes bambino dà mostra di saper imitare perfettamente il padre, le sue forze sono alla fine. Quattro anni dopo, a San Francisco, sempre insieme ad Ed (che ora ha quasi vent’anni ed è Richard Burton) si rende definitivamente conto di aver perso la memoria e lascia il suo posto al figlio che, prima della sua interpretazione del Riccardo III nello spettacolo successivo a New York, si comporta come Junius quando il pubblico lo sommerge di insulti aspettandosi il padre e non il figlio. “Silenzio! Seduti. Seduti! Sì! Sono il figlio. Non il padre! Ma state zitti cinque minuti e vi darò il più gran Riccardo che avrete mai sentito!”. Ed ecco che, da quando rientra in scena con la corona in testa e la gobba, comincia l’opera vera e propria. Edwin Booth recita così bene che lascia il pubblico in stato di catalessi, prima di sommergerlo di applausi. Ora però quel che è lecito chiedersi è: chi ha veramente recitato nel ruolo del re malvagio e crudele in cui tanti istrioni e maestri si sono cimentati, compreso Olivier in un davvero memorabile film dello stesso 1955 (con un preludio nell’autentico Old Vic, doppiato ancora da Cervi nell’edizione italiana) che uscirà in Usa solo nel 1956 tagliato di quasi mezz’ora, ma otterrà un enorme richiamo nella riedizione completa (161’) di dieci anni dopo, nel 1966? È Edwin Booth o Richard Burton a svolgere il ruolo che, si sa, è tanto più affascinante quanto Riccardo appare ambiguo e contorto nella sua ambizione, nel suo conflitto cardiaco tra bene e male ? La soluzione al quesito è il senso di questo film, di Il principe degli attori. Infatti, sul palcoscenico ricostruito nella pellicola, noi vediamo e ascoltiamo Richard Burton che recita Edwin Booth, il quale recita secondo la lezione di Junius Brutus Booth e la cui discendenza manterrà intatta una tradizione di realismo, scioltezza, passione recitativa che i Booth portarono in America nell’Ottocento, quanto Burton la porterà nell’America degli anni cinquanta, prima dell’Actor’s Studio e delle tortuosità di Marlon Brando ed Elia Kazan. È impossibile rispondere alla domanda. Il senso del film è che non sapremo mai quanto Burton sia Ed Booth e quanto Ed Booth sia stato Burton. Del resto, come consulente scespiriana, venne chiamata, con un posto di eccezione nei titoli di testa del film (in cui anche vi recita nel ruolo di Gertrude in un brano di Amleto) Eva La Gallienne, famosa attrice di origine inglese ma statunitense d’adozione, conosciuta anche per gli scandali suscitati dalle sue relazioni, allora cinquantaseienne ma con alle spalle e dinanzi una carriera durata ottantun’anni tra premi, affermazioni e temporanee emarginazioni. Questo personaggio curioso, dalla competenza più estrosa che rigorosa, fu la prima, già durante la ricostruzione delle rappresentazioni scespiriane, a porre l’interrogativo a Dunne e a Moss Hart. Rese così costoro ancor più sereni nella convinzione che Burton fosse l’unico a poter rappresentare Edwin Booth. Del resto il copione di Hart, per mantenere nella lunghezza canonica l’opera pur composta per il sessanta per cento di scene in cui Edwin Booth-Richard Burton recita, taglia completamente le figure di Junius Brutus Jr e Joseph Adrian (nonché il nonno Richard Belair Booth – attore anche lui, ovvio ribadirlo – che raggiunse Junius senjor negli Usa dal 1823), che furono non solo fratelli maggiori ma anche sostenitori e produttori di Edwin nella sua lunga carriera. Mentre le figure dei diversi impresari è sintetizzata da Prescott, il quale, con la figura amica e paterna di Charles Bickford, concentra su di sè anche queste figure. Edwin si vede quindi quasi sempre solo di fronte al pubblico. Gli attori di contorno (quasi tutti interpreti scespiriani presi dalla compagnia di Eva Le Gallienne) contano pochissimo come quello che, dovendo concludere decantando fatti e misfatti di Riccardo III, lascia perdere e getta via la spada di fronte agli applausi e alle esclamazioni di consenso di cui è coperto il protagonista. Il film raggiunge una sua delicata poesia sia nell’incontro tra Mary Devlin (Maggie McNamara) recatasi a cercare Edwin, ospite in un bordello e in ritardo sulle prove di un Romeo e Giulietta. Il principe degli attori (Prince of Players, 1955), Richard Burton e Maggie McNamara (1928-1978) Di fronte all’atteggiamento stralunato dell’attore, Mary lo richiama al dovere recitando Giulietta e qui pronuncia il brano: “Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? (…) Cos’è un nome? Ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo, così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella cara perfezione che possiede anche senza quel nome. Romeo, getta via il tuo nome, e al suo posto, che non è parte di te, prendi tutta me stessa (…). Buona notte. Buona notte. Buona notte. Dolce riposo e pace scendano sul tuo cuore, come quelli che stringo nel petto. Buona notte. Buona notte. Buona notte. Separarci è così dolce pena che dirò buona notte sino a domani”. Quest’ultima frase è quella che risuona nella mente di Edwin quando, rimasto solo dopo la morte di lei, raccoglie il suo primo successo dopo i fatti che l’avevano coinvolto ingiustamente nell’assassinio di Lincoln compiuto dal fratello, mentre gli spettatori, smettendo di inveire di fronte alla sua tacita fermezza, lo accolgono con un applauso iniziale. Pur essendo raccontata con tutte le censure e le cesure di una biografia cinematografica di quel tempo, la storia d’amore (il matrimonio quasi immediato; la luna di miele vissuta tra i due con passione profonda e dolcissima sebbene tra i continui ripassi delle battute; la tournée in Inghilterra con la consacrazione europea di Edwin Booth; la malattia di lei e la nascita della figlia Edwina, futura attrice anch’ella) è narrata con una tenerezza che lasciò il pubblico americano esterrefatto e commosso fin dall’anteprima. Ora non voglio qui raccontare, come non è mai stata mia abitudine, la trama circostanziata del film. Lasciamo agli spettatori che vogliano vedere o rivedere questo film il sano gusto di non conoscerne tutti i fatti. Precisiamo solo che le traduzioni dei dialoghi di Shakespeare sono quelle, con pochi e irrilevanti cambiamenti, di Salvatore Quasimodo. Va pur segnalato come, attenendosi alla vera storia della famiglia Booth, John Wilkes (il quale aveva ottenuto un rilevante successo negli stati del Sud fin dal 1856 ma s’era poi dovuto arrendere al confronto con il fratello) diviene parte dei primi complotti separatisti nonché spia della Confederazione grazie alla patente di attore ancora celebre – decide di uccidere il Presidente e, gettandosi sulla scena dal palco dove aveva compiuto il delitto, non si comporta come un terrorista ma come un attore in una disperata e ultima recita dichiaratamente ispirata al Giulio Cesare. Poi, quando fugge a cavallo e i soldati si chiedono chi sia l’uomo che sta scappando al galoppo, grida: “Il protagonista!”. Per inciso bisogna segnalare anche un pacchiano errore storico del film, quando Edwin e la sorella Asia (una premurosa e soave Elizabeth Sellars) si recano a convincere John Wilkes (John Derek, allora una vivace promessa di Hollywood) a lasciare la sua causa nella notte precedente all’impiccagione di John Brown, l’apostolo dell’antischiavismo, e poi quando ancora John recita il ruolo di propagandista bellico davanti a truppe del Sud radunate in un saloon. Ebbene, qui i soldati che montano la guardia su John Brown appaiono già in grigia divisa sudista mentre, nel 1860, avrebbero dovuto portare la divisa blu dei marines, i quali, guidati dal futuro comandante in capo secessionista Robert Lee, catturarono il martire e i suoi figli nell’arsenale di Harper Ferry. Le truppe appaiono già in grigio nel 1861 quando nemmeno i futuri leader del Sud avevano ancora deciso di separarsi dall’Unione. Questo particolare, forse, infastidirà non poco chi si interessa di storia americana, ma anche gli appassionati di fumetti che conobbero l’evento quando Tex Willer ascolterà le premonizioni della bellissima e risoluta complottista Donna Manuela Guzman. O, forse, infastidirà solo me. Manuela Guzman è apparsa nella prima collana a striscia di Tex nel 1953, poi nel n. 17 (1961) nella serie regolare Gli sciacalli del Kansas, nel n. 10 della “collezione storica a colori” (2007), e infine nei n. 41, 42 e 43 del recente Classic Tex ancora a colori. Le furono attribuite somiglianze con le diversissime, tra loro, Gloria Swanson e Veronika Lake ma, secondo Sergio Bonelli, verosimilmente ispirata a Galep dai tratti della determinata Lana Turner, bionda fatale del tempo coevo benché nella storia texiana in bianco e nero, immaginata da tutti coi capelli rossi, finché non la fecero castana gli implacabili coloristi del presente millennio. Se questo personaggio è rimasto indelebile nella memoria di tanti lettori fu anche perché, come conseguenza della sua vicenda di indipendentista messicana, si incastra la vicenda storica della cattura di John Brown che è raffigurata dal disegnatore, per quei tempi, con insolita verosimiglianza storica, forse tratta dal film I pascoli dell’odio del 1940 dall’ignobile trama che rappresenta Brown (interpretato dallo stesso Raymond Massey, che fu due volte John Brown e due volte Abramo Lincoln) come uno spietato fanatico. Tex Willer, il fumetto creato nel 1948 da Gian Luigi Bonelli e Galep Conclusa l’elisse fumettistica, possiamo citare, a giustificazione dello strafalcione del film, dall’autobiografia di Philip Dunne, il quale attribuisce il tutto a un errore del reparto costumi, irrimediabile poiché le sequenze furono girate quasi alla fine della lavorazione e il cambio avrebbe comportato un ritardo sull’uscita già annunciata. Sarò stato vero che John Wilkes – unico in una famiglia di attori (di solito neutrali per vocazione) dichiaratamente nordista e con residenza nel Maryland, notori antischiavisti – fu spinto dalle delusioni professionali alla sua sciagurata scelta politica ? Si può ricordare quanto John Wilkes Booth (ventiseienne al momento della morte) non fu del tutto inferiore a Edwin, con il quale recitò (particolare omesso nel film) in un indimenticabile – stando alle voci critiche e giornalistiche del tempo – Giulio Cesare, a New York nel 1864, dove ebbe un peso anche l’altro fratello Junius Brutus Jr, nei ruoli, rispettivamente di Marcantonio, Bruto e Casca. Ciò avvenne soltanto un anno prima della fine della guerra e dell’omicidio. Il principe degli attori (Prince of Players, 1955) E, nel marzo del 1865, a un mese dal delitto avvenuto il 14 aprile dello stesso anno mentre Lincoln assisteva divertito alla commediola Il nostro cugino americano di Tom Taylor, John Wilkes aveva recitato, senza i fratelli, nello stesso Ford’s Theatre di Washington. Ciò giustificherebbe come la sua attività di contrabbando di morfina con il Sud perdurasse mentre recitava con i familiari, datosi che le cronache riportano, al termine delle repliche, un violento alterco con Edwin e Asia concluso con la rottura definitiva dei rapporti. E ciò giustificherebbe il suo progetto terroristico insieme ad alcuni complici poi tutti catturati ed impiccati. Ma ciò giustifica anche che i fratelli tentarono, fino ai primi mesi del 1865, di dissuaderlo dai suoi propositi per quanto non sia certo se l’omicidio fosse programmato proprio per il 14 datosi che John Wilkes venne a sapere della presenza del Presidente in teatro solo due giorni prima. Sta di fatto che, trovato il 29 aprile a Port Royal, un anfratto della Carolina del Sud, rifugiato nel granaio di una fattoria di simpatizzanti, fu catturato, ormai stremato e con una ferita grave alla gamba che si era procurata lanciandosi sul palcoscenico per la sua definitiva recita. Mentre stava per essere condotto all’impiccagione tentò ancora la fuga, interrotta da un colpo di rivoltella tra i tanti sparatagli dai soldati che lo avevano in custodia. Queste vicende sono raccontate con una certa precisione nel film tranne che per un particolare. Infatti John cerca di suicidarsi nel granaio e muore tra i militari, che incendiando il locale l’avevano costretto ad uscire. Ciò, stando al diario di Dunne, non fu dovuto all’esigenza, allora improrogabile per tutte le case cinematografiche, di non sgradire del tutto al pubblico del Sud, ma al voler conferire a John Wilkes quella dignità di attore che la fama di criminale invasato ha condizionato in ricerche storiche e leggende. Poco dopo si passa al gennaio 1866, quando, contraddicendo gli impresari che avrebbero preferito attendere almeno un anno, Edwin debutta in Amleto al Winter Garden di New York e, come sopra raccontato, riesce a domare la folla inferocita. Inizia la seconda fase della sua carriera mentre la voce di Mary, dal suo palco privato ormai vuoto, gli ricorda: “Buona Notte. Buona Notte. Buona Notte. Separarci è si dolce pena che pronuncerò Buona Notte sino a domani”. In effetti l’affetto di Mary l’aveva sottratto al frequente delirio, continuato per diversi anni dopo il matrimonio, di avere contratto dal padre la pazzia e l’alcolismo che, senza censura, sarebbe stata la demenza derivata dalla sifilide. Edwin, dopo l’Amleto a New York, continuò in una tournée che comprendeva l’Otello e il Mercante di Venezia, che spopolò in tutti gli Stati, ma evitò prudentemente il Sud appena sconfitto. Risposatosi con un’altra attrice, Mary MacVicker, non ebbe nemmeno con lei un rapporto a lieto fine. Dopo due anni di unione denunciò un tormento bipolare inguaribile. Edwin le si dedicò con amore, ma non dimenticando le numerosi amanti di una sera o di una stagione. Nel 1869 fece costruire il Book’s Theatre a New York, all’inizio come compensazione per l’incendio che aveva funestato una sua produzione al Winter Garden, ma poi divenuta la casa della tradizione della famiglia Booth e del suo impegno per un teatro moderno. Nel 1882, dopo la morte della MacVicker, intraprese una luminosa tourneé, comprendente il repertorio scespiriano ma anche nuovi testi, in Inghilterra, Irlanda, Francia e Italia. A cinquant’anni, dopo che anche Asia l’aveva lasciato, vendette la casa nel Maryland e finì per coabitare con Edwina, maritatasi anch’ella, a New York, dove fondò il Players Club. Qui si formarono o furono accolti come decani: Harry Belafonte, Carol Burnett, James Cagney, Bette Davis, José Ferrer, Helen Hayes, Robert Lansing, Jack Lemmon, Gregory Peck, Sidney Poitier, Lynn e Vanessa Redgrave, Jason Robars, Eli Wallach e, tra i membri della generazione più recente: Mia Farrow, Lisa Minelli, Miranda Richardson, Kevin Spacey e Timothy Hutton, che ne è stato presidente sino al 2010. A tutti i citati fu riconosciuto un premio che esiste ancor oggi e, nel 2007, è stato conferito ex equo ad Angela Lansbury come attrice e al commediografo Edward Albee (di cui Burton recitò in teatro e al cinema, con Liz Taylor, Chi ha paura di Virginia Woolf) mentre l’ultimo vincitore risulta essere Bryan Cranston, prima di una pausa dovuta alla mancanza di fondi. Ma il direttore attuale, John Planco, non dispera. Edwin, che visse sino al 1893, riuscì a lasciare un prezioso volume che raccoglie i testi scespiriani più volte corretti e aggiornati della famiglia Booth, un suo saggio su Edmund Kean tratto dai racconti di Junius Brutus Sr, e un’autobiografia relativa alla sua vita sino alla morte di Mary Devlin, la cui prima copia del libro è custodita alla Biblioteca del Congresso. Inoltre, dopo aver recitato per l’ultima volta Amleto alla Brooklyn Academy, quando a cinquantotto anni considerò terminata la sua carriera, riuscì, poco prima della morte, a registrare un rullo in cui, pur imperfetto, ha lasciato traccia della sua voce e dei suoi pensieri. Secondo George Bernard Shaw, che udì le sue considerazioni sul teatro e l’uso della fonetica contenute nella conservazione magnetica, Edwin “fu, senza dubbio, il più gran dicitore tra tutti gli attori di lingua inglese precedenti al Novecento”. È infine da notare come, nel rullo, Edward raccontò: “Riuscii, con il tempo e con l’esperienza, a innestare, sullo stile veristico ma impetuoso che mio padre aveva appreso da Kean, un mio lavoro di autocritica e di coscienza della mia recitazione, liberandomi dagli ultimi manierismi e dalle naturali imperfezioni di Junius Brutus Sr e la sua epoca”. Non era certo un uomo superficiale, come possono esserlo anche gli attori che in scena appaiono più intelligenti (e io lo so), il nostro Edwin Booth. Il principe degli attori rimane quindi una testimonianza importante dell’arte scenica di Edward Kean tramandata a Richard Burton, il quale, fin dal 1958, nei suoi abituali ritorni annuali al teatro inglese, interpretò per il cinema assicurando la distribuzione internazionale e accettando un cachet equivalente a meno di tre quarti dei suoi compensi abituali, Ricorda con rabbia (Look back in anger) di John Osborne, testo che rappresenta tutt’ora l’inizio dell’era più fervida del mondo dello spettacolo britannico moderno, contemporaneamente alla fioritura del free cinema, di un nuovissimo ed esaltante panorama musicale, la cui somma influenzò anche la tv. Durante un mio colloquio, nel 1992, con Osborne (svoltosi a Roma quando, al Teatro delle Arti, Albertazzi e Sbragia portarono, lui presente, alcune sezioni di un seguito tardivo di Ricorda con Rabbia e da me ricordato su Filmcronache nell’articolo Jimmy Porter suona ancora), l’autore ebbe a dirmi che nessuno, tranne Burton (pur più vecchio e provato di qualche anno rispetto al giovane protagonista Jimmy Porter), riuscì a essere così convincente e in sintonia con ciò che il testo richiedeva. E ciò tra più di mille rifacimenti teatrali, in tutto il mondo, di questo testo la cui attualità è ancor oggi sconcertante. E nel film, intitolato in Italia I giovani arrabbiati, lo è ancor di più. Passati gli eccessi hollywoodiani, i due matrimoni con Liz Taylor (con la quale riuscì comunque a interpretare film di qualità oltre a quelli modellati appositamente sulla coppia), e curatosi dall’alcolismo, il figlio del minatore visse un ultimo momento sereno con la compagna Sally Hart (sposata solo nel 1983 dopo il divorzio da Suzy Miller in un matrimonio contratto ancora sotto l’effetto del rapporto con la diva hollywoodiana) e le figlie. Pur risiedendo in Svizzera dal 1954, non dismise mai la tessera del Labour Party, a cui si iscrisse quando viveva ancora come Richard Jenkins, e rifiutò la conversione sul letto di morte. In fondo, nonostante un’esistenza travagliata e complessa, non meno di quella di Edwin Booth, Richard conservò sempre la memoria delle sue origini e della sua infanzia povera. Quando morì, a cinquantotto anni (quelli che aveva Edwin Booth quando decise che era ora di non avventurarsi più sulle più alte vette del suo amato Shakespeare e fu per l’ultima volta Amleto) si lasciava alle spalle altre dodici performance teatrali di successo, recitate con i dolori continui causati dal fegato corroso e dell’artrite reumatoide che l’aveva colpito durante le riprese di Becket e il suo re (un gioiello di interpretazione dal sulfureo testo di Anhouil, al fianco di Peter O’Toole, nel 1964) e una fastidiosa dermatite al volto rispuntata dalla sua infanzia. In una delle sue ultime interpretazioni, il partner Colin Blakely lo sentì esclamare dal camerino, davanti allo specchio mentre si struccava a fatica: “Stasera ero lì, ero lì con Edwin Booth, John Barrymore e Robert Newton”. Sentiva accanto a lui tre attori in cui l’alcolismo fu dominante e condizionò il talento. Ma, tra questi, solo il primo, Il principe degli attori, ne riuscì a sfuggire privilegiando il teatro alla bottiglia. Riproduzione riservata © Giornale Pop 2018 Navigazione articoli SUPERDAN, IL PRIMO FUMETTO DI ALFREDO CASTELLI LE ULTIME CARTUCCE DEL FUMETTO IN EDICOLA
Veramente bello e interessante questo articolo di Spalla. Dovrebbe fare più articoli su Giornale Pop sul cinema e sul teatro. Rispondi