Nel 1990 il quotidiano tornese La Stampa affidò la rubrica della posta a O.d.B. (Oreste Del Buono), che con fare garbatissimo e ironico rispondeva ai lettori del quotidiano torinese.
Memorabile la risposta sulla poesia in cui O.d.B., attraverso un aneddoto divertente, raccontò che mentre si trovava in un campo di detenzione per soldati durante la Seconda guerra mondiale, spinto dalla passione per questa forma d’arte, scambiò un paio di robusti scarponi con una copia di Ossi di seppia di Eugenio Montale. Si pentì amaramente di quel baratto: infatti rimpianse i suoi scarponi fino alla fine della prigionia e ammise di aver fatto del libro un uso più prosaico, quello di carta igienica.

O.d.B si occupò della corrispondenza del giornale per ben tredici anni, sino alla sua morte avvenuta nel 2003. A vent’anni dalla sua scomparsa e a un secolo dalla sua nascita vale la pena ricordare Oreste del Buono, l’uomo dietro l’acronimo, un gigante della cultura italiana.

Fu giornalista, saggista, scrittore, sceneggiatore, critico letterario e cinematografico. Editor di autori come Achille Campanile, Giovannino Guareschi, Giorgio Scerbanenco e Paolo Villaggio. Traduttore di Raymond Chandler, Arthur Conan Doyle, e Ian Fleming. Infine si occupò di sport, pubblicità, radio e televisione.

Tuttavia, il record che forse lo rendeva più orgoglioso era l’incredibile numero di dimissioni che diede: ben 102. Perché Oreste del Buono quando qualcosa in una rivista o in un giornale non gli garbava, non cominciava a sbraitare o a scaricare la rabbia sui suoi collaboratori. Semplicemente tirava fuori la lettera di dimissioni, la porgeva con grazia all’editore e se ne andava con grandi sorrisi per tutti.

ORESTE DEL BUONO TRAGHETTATORE DEL FUMETTO



Ma O.d.B. fu soprattutto uno dei primi a sdoganare il fumetto, a liberare le nuvole parlanti dal ghetto in cui lo avevano rinchiuso gli ambienti accademici e lo snobismo di molti intellettuali della nostra penisola. Sapeva benissimo che i comics erano nati nei quotidiani semplicemente per divertire.

Alla fine dell’Ottocento, Joseph Pulitzer ebbe l’intuizione di sfruttare il colore e l’illustrazione per incrementare le vendite del supplemento domenicale del New York World. A suo avviso, i disegni avrebbero suscitato l’interesse sia dei bambini, che avrebbero convinto i propri genitori ad acquistare una copia del giornale, sia di chi non si sarebbe soffermato a leggere gli articoli.

Il magnate di origine ungherese ritenne che la persona giusta a cui affidare una tavola che occupasse un’intera pagina, fosse l’illustratore Richard Felton Outcault, un tipo molto snob, che disprezzava il pubblico a cui si rivolgeva. Nel 1895 nacque la serie Down Hogan’s Alley, una strada malfamata di New York, popolata da immigrati di varie nazionalità (afroamericani, cinesi, italiani eccetera), che tra di loro avevano quell’allegria che rovesciava le normali convenzioni.

I disegni di Outcault piacevano alle “vittime” delle sue caricature, perché si riconoscevano in quelle storie, ma anche ai lettori che si sentivano superiori a quelli criticati. Ben presto, tra i personaggi del vicolo di Hogan, emerse un ragazzino con la testa calva e due grandi orecchie a sventola, avvolto in un camicione lungo sino ai piedi che, con le sue imprese poco edificanti e la sua spregiudicatezza, divertiva le famiglie americane.

A un certo punto, il suo camicione si colorò di giallo e, dato che non aveva un nome, la gente cominciò a chiamarlo Yellow Kid. Lo straordinario successo del terribile “ragazzo giallo” provocò la reazione di William Hearst, editore del New York Journal, che decise di dare spazio all’illustrazione del supplemento domenicale intitolato The American Humorist.

A dirigerlo chiamò Rudolph Bloch, un giornalista di origine tedesca, il quale commissionò a Rudolph Dirks, un disegnatore di soli diciannove anni, una tavola che si rifaceva a Max und Moritz di Wilhem Busch, che da circa trent’anni era popolarissima in Germania.

Erano gli anni in cui molti lavoratori tedeschi erano immigrati negli Stati Uniti, ancora non avevano familiarizzato con la lingua inglese e cercavano qualcosa di facile da leggere. Dirks fece loro un regalo gradito, quando nel 1897 creò la versione americana di Max e Moritz.

Max, quello con i capelli neri, divenne Hans; Moritz, quello biondo e con la ciocca ritta verso l’alto, divenne Fritz. Non si sapeva che fine avesse fatto il loro padre, di lui si conosceva solo il soprannome, visto che Katzenjammer in tedesco indica i postumi di una sbronza colossale; vivevano in una colonia tedesca in Africa insieme alla loro mamma (Mama), sempre dedita alla preparazione di gustose torte per il suo adorato Capitano (Captain), che ormai aveva smesso di navigare. In realtà, l’attempato lupo di mare amava i suoi manicaretti, ma non aveva intenzione di sposarla.

I due fratellini però non sopportavano la sua presenza e, con scherzi terribili, cercavano di rovinargli la digestione. Dirks adorava questo progetto, perché i due monelli facevano ciò che avrebbe voluto fare lui e soprattutto, ciò che magari avrebbero desiderato fare i suoi lettori. Per esempio, mandare di traverso il pranzo al capitano o sottrarre alla loro mamma le sue deliziose torte.

La difficoltà di mettere tanti elementi in una sola pagina, portò Dirks a suddividere la storia in vari quadretti e a inserire, al posto delle didascalie, le nuvolette (balloon) con i dialoghi all’interno della vignetta, erano nate le strisce in piena regola; a quei tempi erano solo domenicali.

Dirks convinse Hearst ad assumere Richard Felton Outcault, che abbandonò Pulitzer e continuò a inventare le avventure del monello giallo sul New York Journal. Il World però proseguì con le storie di Yellow Kid, affidandole a George B. Luks. All’epoca non esistevano ancora delle norme precise sul diritto d’autore.

Le cose si complicarono quando, a parti invertite, Rudolph Dirks decise di lasciare il Journal e lavorare per Pulitzer. Hearst affidò le strisce dei Katzenjammer ad Harold Knerr, ma stavolta i due litiganti si sfidarono in tribunale. La sentenza stabilì che entrambi i disegnatori potevano lavorare sugli stessi personaggi, Dirks però fu costretto a cambiare il titolo, così ribattezzò la sua opera The Captain and the Kids.

Nel 1905, la straordinaria matita di Winsor McCay creò Little Nemo (Piccolo Nessuno), un bambino molto carino con un bel camicione da notte, perché le sue storie iniziavano la sera, quando andava a dormire. Non appena chiudeva gli occhi, il piccolo sognava di intraprendere un viaggio verso il regno di Slumberland, per raggiungere la figlia del re Morfeo. Ogni volta un incidente gli impediva di giungere a destinazione e al suo risveglio si trovava sempre per terra.

Nel 1913 i fumetti apparvero su tutti i giornali americani e diventarono strisce quotidiane. Il genere cambiò notevolmente nel 1929. Negli Stati Uniti stava per arrivare la crisi economica del secolo e i lettori avevano bisogno di eroi, che li facessero evadere dalla disperazione in cui sarebbero precipitati. Il primo fumetto d’avventura fu Tarzan. Un eroe, nato nei romanzi di  Edgar Rice Burroughs, per poi trasferirsi nel cinema e nei fumetti di Hal Foster.

Sempre nel 1929, Philip Francis Nowlan, scrittore di fantascienza che non credeva tanto nei fumetti, accettò ugualmente di adattare una sua storia, cambiando il nome del protagonista. Nacque Buck Rogers, un americano che lavorava in miniera e che un giorno s’addormentò, a causa di un’esplosione di gas, e si risvegliò nel XXV secolo in un’America dominata da mongoli e cinesi.

Buck Rogers, che proveniva dal Novecento, reagì mettendosi a capo di una ribellione e a poco a poco riuscì a liberare gli Stati Uniti dai suoi malvagi oppressori. Nel 1931 apparve Dick Tracy di Chester Gauld. Era l’anno in cui la magistratura era riuscita finalmente a condannare Al Capone, una vittoria che meritava di essere celebrata con un fumetto in cui l’eroe fosse un poliziotto.

Nel 1950 iniziarono le avventure dei Peanuts di Charles M. Schulz: Charlie Brown, un bambino a cui andava tutto male, anche perché si sentiva già sconfitto in partenza; Linus, un personaggio che risolveva tutto con la sua copertina, una specie di amuleto; Lucy, una bambina piuttosto vivace e sicura di sé. Ma fra tutti, quello che con il tempo prevalse era Snoopy, un bracchetto che a differenza di Charlie Brown realizzava i propri desideri e a differenza di Little Nemo, riusciva a trasportare un po’ dei suoi sogni nella realtà.

Schulz era una persona senza sfumature, con delle convinzioni granitiche, che teneva molto al modo di comportarsi e di vivere. Eppure, come disse Umberto Eco, riusciva a essere un poeta e a far scaturire dalle sue storie una rivelazione. Schulz si considerava un narratore di storie particolari che riguardavano i bambini ma che, attraverso i bambini, riguardavano tutti.

Nella nostra penisola i fumetti vennero introdotti all’inizio del secolo scorso, come genere dedicato esclusivamente ai bambini. Il Corriere dei piccoli iniziò a pubblicarli nel 1908, sostituendo i balloon con le più tradizionali didascalie, costituite da endecasillabi a rime baciate, ai piedi di ciascun quadretto.

Nel 1912, proprio quando Dirks abbandonò Hearst, il Corrierino iniziò a pubblicare le avventure di Hans e Fritz. Da noi si chiamarono Bibì e Bibò, il Captain diventò Capitan Cocoricò e la loro mamma Tordella. Merita di essere ricordata la traduzione di Beppe Zancan, che riuscì a rendere credibile un singolare italo-tedesco fatto di “k”, di “v” trasformate in “f”, di “d” trasformate in “t” e a rendere memorabile la frase che pronunciava Tordella quando sgridava il Capitano Cocoricò, che amava tanto la pennichella: “Fuoi stare tutto il ciorno come cufo sul ramo? Muofiti che timacrisci un po’”.

I balloon arrivarono in Italia verso negli anni Trenta e da quel momento i “quadretti” vennero denominati fumetti. Negli anni Sessanta, Oreste Del Buono capì che, anche nel Bel Paese, le strisce potevano diventare finalmente un genere adatto a tutti i tipi di lettori.

Nell’aprile del 1965 contribuì alla nascita della rivista Linus, chiamata così in onore del personaggio dei Peanuts, molto simpatico e con un nome facile da pronunciare e ricordare. Era la prima rivista dedicata alle persone colte dedicata al fumetto e nel decennio successivo, O.d.B. ne assunse la direzione.

Nel 1981 si scopri che l’editore Rizzoli era iscritto alla loggia P2 di Licio Gelli, al centro di tanti misteri politici italiani, e a quel punto Oreste Del Buono lasciò il suo incarico. Dopo qualche anno la rivista entrò in crisi. Ritornò a dirigerla nel 1995, quando venne rilevata da Baldini e Castoldi e vi rimase sino alla fine dei suoi giorni.



Forse, senza Oreste Del Buono il fumetto avrebbe impiegato molto più tempo in Italia a non essere considerato un parente povero della letteratura. Il successo che questo genere letterario riscuote da ormai un decennio nelle classifiche di vendita delle librerie è la sua rivincita postuma.



     

2 pensiero su “ORESTE DEL BUONO TRAGHETTATORE DEL FUMETTO”
  1. Avete dimenticato Buster Brown, che Outcalt inventa nel 1902 dopo aver lasciato Yellow Kid. È un monello, ma al contrario dei precedenti marmocchi irlandesi proletari è un signorino elegante di ricca famiglia. Outcalt aveva già applicata a Buster Brown la parlata attraverso le nuvolette. Anche il suo cane Tige riesce a farsi capire in questo modo. Buster Brown ebbe un successo molto più ampio di Yellow Kid, tanto che nel 1908 il primo numero del Corriere dei Piccoli aveva in prima pagina una sua avventura, tagliata dei fumetti e aggiunta con le rime baciate in basso delle vignette. Il suo nome italiano era Mimmo Mammolo.
    Per quanto riguarda Oreste del Buono, dopo un primo incontro informale nel 1974 con Vaughn Bodé non lo vidi più fino al 1983, quando uscì la Storia del Piemonte a fumetti scritta da me e disegnata da Nives Manara, che veniva diffusa a dispense sul giornale La Stampa di Torino.
    Alla inaugurazione, Del Buono come addetto alla posta del quotidiano torinese fece un suo discorso sul significato culturale del fumetto, ma si guardò bene dal nominare me e Nives come autori. Fui io a dovermi presentare a lui, ma da parte sua c’era freddezza. Forse si ricordava che anni prima gli avevo dichiarato la mia adesione alle idee di Giovannino Guareschi, e politicamente lui era avverso.

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