La paura è un’emozione universale fra le più primitive che conosciamo, ok? Perciò, in virtù di questo c’è bisogno di fare giusto una piccola premessa e relativa piccola considerazione.

In sostanza, per quanto strano possa sembrare, l’orrore, inteso come genere, funziona proprio perché gioca su qualcosa che abbiamo dentro. Un meccanismo psicologico atavico, una reazione naturale radicata nei nostri istinti più antichi che scatta ogni qualvolta ci confrontiamo con l’ignoto, il pericolo o l’irrazionale. Alla fine della fiera, questo è il motivo per cui l’horror ha, da praticamente sempre, attratto un vasto pubblico.

Quindi, già l’horror è un genere abbastanza inflazionato di suo e se a questo ci metti pure che il cinema dei grandi numeri, quello con i petroldollari, è ormai una cloaca a cielo aperto dove a spruzzo d’idrante vengono calati sequel, prequel, remake, adattamenti di altri franchise o reboot di storie già testate, chiaro che non andiamo da nessuna parte. Anzi. 

Dunque facciamo che andiamo oltre l’horror commerciale, appunto. Andiamo oltre i prodotti di un’industria tesa ad adottare strategie cautelative e standardizzate, sacrificando così l’innovazione, a favore di una (presunta) sicurezza finanziaria e concentriamoci invece su quello che spesso e volentieri nessuno si fila di striscio: il sorprendente mondo del cinema indipendente/basso budget.

 

ZOMBIE CONTRO ZOMBIE (One Cut of the Dead – 2017)


Allora, qua bisogna per forza farla breve perché, tecnicamente, non è possibile parlare di ‘sto film senza spoilerare nulla. Per il semplice fatto di essere suddiviso in tre atti molto distinti che si basano, ognuno, su di un twist specifico che poi va a intersecarsi nel film. Queste svolte, poi, non servono unicamente alla comprensione della complessa struttura messa in scena dal regista, Shinichiro Ueda.

No, semmai, a dispetto di quel titolo effettivamente (e volutamente) scemo, sono una vera e propria lezione di perfezionamento nell’inventiva narrativa. Su quello stranissimo strato introduttivo di metaconcetto, Ueda passa dalla fiction alla “vera-finta fiction”, al dramma, alla commedia… 


Sì, chiaramente, detta così non si capisce una beata mazza di niente, ma sta di fatto che Zombie contro zombie, prima di essere una commedia horror è, essenzialmente, una brillante riflessione sul cinema stesso – meticolosamente progettato in un’amalgama di continuità, finzione e realismo da cui sembra passare senza nessuna fatica -, ma soprattutto sul mondo dei film a basso budget e le sfide affrontate da chi lavora dietro le quinte.

 

DEADSTREAM (Deadstream – 2022)


Deadstream, un filmetto semi-indipendente scritto, diretto, montato, prodotto e pure interpretato da Joseph Winter e sua moglie Vanessa, innanzitutto, dimostra il fatto che la parodia non è ancora morta. Anzi. In secondo luogo è la prova di come l’inventiva e la creatività possono essere sfruttate in modo da ottenere risultati efficaci senza dover spendere, per forza, centinaia di milioni; tipo come certi film estremamente pretestuosi che tentano di mascherare una clamorosa mancanza d’idee scritturando Lady Gaga. Per dire.
In breve, Shawn (Joseph Winter) è un famosissimo Youtuber/Streamer, finito rovinosamente col culo a terra. Il suo intero quid di content creator si riduce al fatto che pur di soddisfare la sete di stupidità del suo pubblico è disposto a fare qualunque cazzata possibile e immaginabile. Solo che il suo canale, Wrath of Shawn, dove si vende e si promuove come il più grande cacasotto della storia che affronta le sue paure in prove assurde e completamente stupide, alla fine è stato cancellato. Perché… Sai com’è, no? Vai bene finché vai bene.

 


Alla fine è bastato giusto quel video di troppo, quello “offensivo”, quello in cui urti e non hai rispetto dei “sentimenti” di questo e quello et voilà! Shawn ha perso il suo pubblico, il suo canale, i video sono stati demonetizzati e cosa più grave, in assoluto, ha perso gli sponsor. Perciò, nel matto e disperatissimo tentativo di riconquistare la sua popolarità e mantenere il nuovo e unico sponsor che gli ha concesso una partnership, Shawn decide di trascorre la notte a Death Manor. 

Si tratta di una vecchia casa, presumibilmente infestata, dove nel corso degli anni sono morte diverse persone. Quindi l’idea è trasmettere l’intera notte in streaming. Che te lo dico a fare: la maledizione della casa è vera e Shawn si ritrova presto in grave pericolo; solo che fantasmi e mostrilli in genere, non hanno mai avuto a che fare prima d’ora con un “influencer” caduto in disgrazia disposto a tutto pur di guadagnare follower.


Ecco, per quanto siano limitati i mezzi a loro disposizione è palese che i Winter, a parte un background professionale alle spalle, hanno sia bene in mente cosa fare, da un lato, sia bene in mente come farla, dall’altro. In altre parole, ci metti poco a renderti conto che non stanno andando a braccia: il film parte come satira sociale, continua come parodia – piuttosto intelligente bisogna dire – dei found footage e finisce come omaggio a Evil Dead di Sam Raimi, la loro più chiara fonte d’ispirazione.

Soprattutto, Deadstream è l’ulteriore dimostrazione – e quante volte ancora toccherà provarlo? – che tolti gli interessi (paletti) imposti dai grandi numeri della Hollywood che conta, lì fuori è pieno di gente il cui interesse principale è ancora quello di raccontare, a parte guadagnare.

 

INCANTATION (Incantation – 2022)


Ora, Incantation è una specie di mock – cioè un mockumentary, diciamo una variante del found footage tanto per capirci al volo – girato con quattro spicci e va be’. Metti zero promozione, zero claim, nessun battage pubblicitario; praticamente buttato così, a mondezza, nel catalogo di Netflix. Poi, tanto per curiosità, vai ad approfondire un attimo la questione e viene fuori che Incantation è solo campione d’incassi in Asia, nonché il film horror taiwanese con il maggior incasso di tutti i tempi. Alé.

Ecco, per quanto strano possa sembrare, oggi come oggi, un tale successo per un film di un genere che aveva fatto cascare le palle un po’ a tutti già ai tempi della guerra dei cloni di The Blair Witch Project, il punto è che questo successo è, effettivamente, meritato. Perché si tratta di un film molto, molto atipico: a partire dall’approccio, fino ai punti di camera che per il genere in sé, il più delle volte, sono (sembrano) completamente sbagliati. 


Capiamoci: la storia è raccontata in prima persona dalla protagonista, Li Ronan, mentre cerca disperatamente di proteggere sua figlia da una tremenda maledizione che anni prima la stessa Ronan ha scatenato su di sé quando, lei e i suoi amici che formavano un gruppo di “cacciatori di fantasmi/fact-checker”, hanno violato un tempio dedicato a una malvagia divinità di un antico culto per lo più dimenticato.

Dunque la narrazione si sposta avanti e indietro tra il passato – qui in pieno stile found footage vero e proprio – quando Ronan e i suoi amici sono andati in questo villaggio rurale sperso fra le montagne violando il tempio di questa oscura divinità, e il presente – invece in stile mock, con Ronan che si riprende e si rivolge direttamente al pubblico – dove la maledizione ha cominciato a manifestarsi in modi via via sempre più inquietanti e letali. 


A differenza della maggior parte dei film found footage/mock, Incantation non adotta una narrazione lineare. Cosa che lo rende molto più simile a un horror “tradizionale”; ma, attenzione, sebbene sia chiaramente un film che gioca con l’orrore soprannaturale, Incantation non si limita a jump scare svogliatissimi o a una slugfest di cgi. L’orrore è per lo più psicologico, radicato nelle piccole cose: la tv che si accende all’improvviso, una porta che si chiude da sola e così via.

Gli eventi inspiegabili e le manifestazioni della maledizione sono spesso sottili, giocate su quelle che potrebbero essere coincidenze e costruite su tensione prolungata. Cosa che, unitamente alla progressiva discesa nella paranoia e nella follia di Ronan, trasmette e intensifica una costante sensazione di pericolo imminente, intensificando così l’atmosfera claustrofobica e inquietante del film.

 

SATAN’S SLAVE (Pengabdi Setan – 2017)


Con un introito di circa 155 miliardi di rupie sul mercato indonesiano, Satan’s slave di Joko Anwar fa il paio con Incantation di Kevin Ko, configurandosi come il più grande successo del 2017 al botteghino nazionale, nonché uno dei film horror indonesiani di maggior successo della storia. Tra l’altro, aperta e chiusa parentesi, Joko Anwar, prima di fare il regista, era sceneggiatore; e prima ancora di fare lo sceneggiatore è stato un giornalista e critico cinematografico. Comunque.

Satan’s Slaves è un requel del film omonimo del 1980, sempre indonesiano, piccolo cult del cinema horror locale. Joko Anwar, che adorava questo film e ci ha messo una vita e mezza per riuscire a fare questa sua versione, prende gli elementi più efficaci dell’originale – atmosfere oscure, tematiche legate al culto satanico, case infestate – e li modernizza, introducendo tecniche cinematografiche più avanzate e una narrazione più complessa. 


Questa sua versione non solo omaggia il classico, ma lo espande, mantenendo un tono di rispetto per il materiale originale e per l’iconografia dell’horror asiatico. Proprio uguale-uguale a come si fa di norma in occidente, con film e prodotti pensati e riadattati per “IL PUBBLICO MODERNO™”. A ogni modo, la storia ruota su di una famiglia indonesiana che vive in una vecchia casa di campagna, composta da Rini, i suoi tre fratelli minori, il padre e la madre pesantemente malata. 

Dopo la morte della madre, una serie di eventi inquietanti comincia a tormentare la famiglia che scopre un oscuro segreto: la madre era coinvolta in un culto satanico. Man mano che la situazione precipita, la famiglia scopre che il culto ha legami con una serie di morti misteriose e con una maledizione che potrebbe condannare i bambini a diventare, indovina? Esatto: “schiavi di Satana”.


Ora, qui vale lo stesso discorso fatto per Incantation: anziché affidarsi a jump scare immediati, Anwar costruisce la tensione lentamente. Gli eventi paranormali che tormentano la famiglia iniziano in modo sottile, con piccole manifestazioni, per poi aumentare di intensità man mano che il film prosegue.

Questo è probabilmente uno dei maggiori punti di forza del film: la casa in cui vivono i protagonisti – di proprietà della famiglia della madre – diventa quasi un personaggio a sé stante. Una scenografia progettata ad hoc come estensione, se vogliamo metterla in questo modo, di quello che poi sarebbe il “mostro” all’interno del film. Anzi. In realtà si nota che tutto è stato attentamente progettato per essere “un unicum” e funzionare unilateralmente verso la suspense. 

In questo senso, c’è assolutamente bisogno di specificare il ruolo del sound design, con ogni suono che spacca il secondo esatto. Tipo, per fare un esempio, il suono del campanello che la madre usava per chiamare i familiari diventa il suono inquietante che annuncia la sua presenza ormai malefica. Tutto questo, crea una suspense, una sensazione di claustrofobia e di pericolo costanti che pare sempre lì lì per esplodere.

 

THE INVITATION (The Invitation – 2015)

Diretto da Karyn Kusama su sceneggiatura di Phil Hay e Matt Manfredi, il vero, unico, grande problema di The Invitation è l’essere uscito nel pieno della mania dei cinecomics, trovandosi prima con una distribuzione limitatissima, per poi finire nei circuiti di diffusione homevideo e televisivi, passando così completamente inosservato.

In sostanza, il film segue la storia di Will, un uomo che riceve un invito a una cena organizzata dalla sua ex moglie Eden e dal suo nuovo compagno, David, nella casa che lui ed Eden condividevano anni prima della tragica morte di loro figlio. Nonostante tutto, Will accetta l’invito e si ritrova a una cena molto particolare, dove si riuniscono vecchi amici con cui non aveva contatti da anni. 


Viene fuori che Eden e David, insieme a certi loro nuovi amici, sembrano aver abbracciato il culto di una setta misteriosa che predica l’accettazione della perdita come liberazione dalla sofferenza. Sì, può sembrare banale, ma in effetti, anticipando Midsommar e Speak no Evil, The Invitation esplora, da un lato, il tema della manipolazione psicologica e del controllo mentale, affrontando i pericoli delle sette e dell’indottrinamento.

Dall’altro esplora il trauma psicologico e il modo in cui influenza la percezione della realtà. La Kusama se la gioca bene e attraverso un ritmo lento, ma costante, si prende il tempo per sviluppare trama e personaggi, e contemporaneamente, il concetto di “sospetto” e “percezione” in modo tale da portarti a sentire in trappola come Will. Soprattutto, a differenza di altri film che giocano sullo stesso leitmotiv ma che alla fine rivelano tutto ancor prima della fine del primo atto, il “dubbio” è una parte centrale della trama.


In altre parole, si tratta del lutto non elaborato che alimenta la paranoia di Will facendolo reagire in modo eccessivo a comportamenti, eccentrici, sì, ma innocui, oppure il suo istinto è corretto e sta banda di sciroccati ha in mente qualcosa di molto brutto?


RAW – Una cruda verità
(Grave – 2016)


Scritto e diretto dalla regista francese Julia Ducournau, Raw racconta la storia di Justine, una giovane e brillante studentessa che si iscrive alla facoltà di veterinaria, seguendo la tradizione di famiglia. Solo che Justine, vegetariana dura e pura dalla nascita – come tutti i membri della sua famiglia, del resto – durante i primi giorni di università, partecipa a un rituale d’iniziazione in cui viene obbligata a mangiare carne cruda per la prima volta in vita sua. Questo fatto scatena un’insaziabile fame di carne umana.

C’è da dire che la Raw, come una giovane Cronenberg in gonnella, utilizza il cannibalismo in modo abbastanza divertente come metafora per rappresentare la trasformazione dell’adolescenza e la scoperta della propria identità. La fame di carne che si risveglia in Justine, fondamentalmente è una rappresentazione potente del desiderio, della ribellione e della confusione che accompagnano il passaggio alla vita adulta. 

Di solito ‘sta roba “piena di messaggi sociali” ci mette poco a diventare stucchevole e noiosa; ma qui, il risveglio sessuale, il “desiderio proibito”, la lotta contro gli impulsi e la pressione sociale simbolicamente rappresentati attraverso il cannibalismo per riflettere i cambiamenti fisici e psicologici che Justine subisce, vengono trattati in modo crudo, senza filtri e a pacchi di body-horror di Bryan Yuzna, ma levati proprio subito.

Tra l’altro, un grosso punto a favore va all’estetica: con l’uso di colori saturi e neri pesantissimi in contrasto con luci fredde e delle sfumature di rosso e verde che sottolineano il tema della “fame” in modo molto simbolico e “viscerale”, Julia Ducournau ha saputo creare un mondo visivamente coinvolgente e disturbante, senza dover per forza fare affidamento su un uso eccessivo di effetti speciali. Spesso, meno è meglio e questo pare averlo capito perfettamente.


Ovviamente Raw è stato acclamato per la sua audacia e per l’originalità con cui affronta tematiche tabù come il cannibalismo e il risveglio sessuale senza scadere nella banalità; intanto, in soldoni non s’è l’inc***to quasi nessuno. Uscendo a ridosso di Captain America: Civil War, cioè, quante speranze ci vuoi mettere, insomma.


MANDY
(Mandy – 2018)


Allora, c’è Nicolas Cage che fa Nicolas Cage. Al massimo. Punto. Questo dovrebbe bastare e avanzare. Invece no. Perché Mandy è probabilmente il miglior film della sua carriera: un incubo psichedelico fatto di violenza, ossessioni e deliri che si distingue per il suo stile visivo estremamente evocativo e surreale. Il film è inondato da colori saturi e al neon, che creano un’atmosfera onirica che fonde horror e allucinazioni. Ogni singola immagine è densa di simbolismo e richiami tanto all’arte heavy metal quanto al cinema sperimentale degli anni ’70.

Questo è Mandy: la copertina di un album heavy metal che all’improvviso si anima e prende vita. Strapieno di riferimenti alla mitologia, al misticismo e alla religione, in particolare attraverso la setta di Jeremiah Sand, il “cattivo” del film, che rappresenta una distorsione della fede. La loro ossessione con il controllo spirituale e il sacrificio riflette temi classici del cinema horror, ma rivisitati in chiave psichedelica, amplificando l’atmosfera alienante e surreale del film.


Mandy è un film che vive all’intersezione tra il cinema di genere e l’arte sperimentale. Panos Cosmatos non si limita a creare un semplice revenge horror, no. Il suo lavoro è un’esperienza sensoriale e viscerale che mescola horror, dark fantasy e psichedelia impregnato di riferimenti alla cultura pop anni ’80, ma filtrati attraverso una lente completamente onirica. Infatti, le sequenze si muovono tra il reale e il surreale, mescolando allucinazioni e realtà senza una chiara distinzione, suggerendo che la vendetta di Red, il personaggio di Cage, potrebbe essere più metaforica che letterale.

Visivamente, Mandy può ricordare il cinema di registi come David Lynch e Alejandro Jodorowsky, dove l’uso simbolico dei colori e delle immagini è fondamentale per la comprensione della storia. Appunto, in Mandy i colori sono parte integrante della narrazione: il rosso domina gran parte del film, simboleggiando rabbia, vendetta e passione. Mentre le tonalità più fredde del blu e del viola conferiscono una sensazione onirica e ultraterrena. Ogni scena sembra costruita come un’opera d’arte visiva, in cui ogni dettaglio cromatico ha un significato emotivo o simbolico.


La discesa di Red in un inferno di follia e violenza clamorosa – per esempio, uno dei “demoni” che Red affronta è un erotomane stupratore con un coltello al posto del pene – si riflette nei paesaggi distorti e nei sogni allucinatori, come se l’universo stesso stesse reagendo alla sua furia. Inoltre, la violenza rappresenta non solo la distruzione esteriore, ma pure il caos e la disintegrazione interiore di Red. Persino l’arma che Red si crea e usa per la sua vendetta, una specie di ascia dall’aspetto mitologico, ha un suo significato specifico, conferendo al film un tono epico e ancestrale.


POSSUM
(Possum – 2018)


Philip (interpretato da Sean Harris) è un ventriloquo e burattinaio afflitto da traumi psicologici, che ritorna nella casa della sua infanzia con una per niente inquietantissima marionetta chiamata “Possum”. Philip cerca ripetutamente di distruggere la marionetta, un mostro aracnoide con una disturbante testa simile a quella di un uomo, ma il pupazzo sembra esercitare un controllo psicologico su di lui. Quasi fosse una manifestazione fisica dei suoi incubi e delle sue angosce più profonde.

Possum, scritto e diretto da Matthew Holness al suo debutto cinematografico, fondamentalmente si rifà alle teorie sullo strano di Sigmund Freud, mentre per l’aspetto visivo, come affermato da lui stesso, lo stile è pesantemente mutuato dai film espressionisti tedeschi degli anni ’20 e ’30. Infatti, la fotografia curata da Kit Fraser crea un mondo quasi onirico, oscuro e decadente. I paesaggi desolati della città inglese contribuiscono a definire il mondo spettrale e malinconico di Philip, con immagini di spazi abbandonati, quasi marcescenti. Mentre i colori tenui, per lo più dominati da tonalità fredde e desaturate, riflettono la psiche frammentata e danneggiata del protagonista. 


In questo senso, la regia di Holness adotta uno stile volutamente minimalista, quasi criptico, lasciando molto spazio all’interpretazione. Le informazioni sono frammentarie e nulla viene detto esplicitamente, aumentando così il senso di confusione e paranoia che permea l’intera narrazione. Questo approccio, al di là di tutto, spinge giocoforza a domandarsi cosa sia reale e cosa no. Cosa stia accadendo sul serio e cosa stia accadendo solo nella testa del protagonista. 

Un po’ come in Mandy di Cosmatos, pure qua la scelta di una narrazione, diciamo non convenzionale, potrebbe risultare un po’ difficile da seguire, questo sì; ma in ogni caso, il film riesce comunque a trasmettere un senso di mistero e disagio generale. Effettivamente, Possum è un bell’esempio di horror psicologico che utilizza il silenzio, l’estetica e il simbolismo per esplorare i traumi e l’abuso, a metà fra il cinema d’essai, l’avanguardista e l’art house.

 

Ebbene, visto che il pippone s’è allungato alla grandissima, anche per questa volta è tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.

 

(Da Il sotterraneo del Retronauta).

 

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