Da bambino e ragazzo, tra molti altri avevo due timori specifici legati al crescere e al diventare adulti. Il primo attorno al quale riflettevo verso i nove anni riguardava il periodo adolescenziale in avvicinamento. Erano gli anni degli hippies, della musica di protesta, non che questo movimento di sfaccendati raggiungesse granché la zona centrale di Milano in cui vivevo, ma era presente in televisione, alla radio, incombeva. Ciò che mi preoccupava era che verso i quattordici, quindici anni mi sarebbe toccato imparare a suonare la chitarra e passare i pomeriggi a suonarla cantando canzoni che mi annoiavano, in uno scenario generico fatto di amici seduti sul letto. Da bambini le teorie sul mondo sono strampalate ma anche interessanti, perché evidentemente da solitario e autarchico, com’ero già allora, temevo la pressione sociale, che per i giovani spingeva, tra l’altro, verso una generica socialità contro la guerra del Vietnam. Viva Gianni Morandi e l’isola di Wight, temevo nel 1969, poi per molti di quei co-adolescenti è andata anche peggio con i festival di Re Nudo e lo sterminio per droga e l’assurda lotta politica, altro che i chitarrosi figli dei fiori. Il secondo timore, delineatosi nella prima adolescenza – a parte quello riguardante il servizio miiltare durante il quale sarei probabilmente morto, se non l’avessi fortunatamente evitato* – riguardò l’orribile e triste abbigliamento dell’età adulta. Da adolescente il mio abbigliamento era standardizzato, blue-jeans neri, maglioncino nero di shetland, camicia di sartoria e Clark’s – esattamente lo stesso di adesso. Ma gli adulti vestivano ben diversamente, con sciape giacche grigioline, la cravatta fissa e pantaloni larghi che erano uguali sia per l’usciere di banca sia per gli pseudointellettuali che giravano per casa. Unica eccezione notevole era l’abbigliamento di un certo antiquario amico di famiglia, che portava giacche inglesi spigate spesso senza cravatta, però quell’antiquario era ricchissimo e mi rendevo conto che solo una grande quantità di denaro unito a una classe innata avrebbe potuto salvarmi dai vestiti che verosimilmente il mondo mi avrebbe imposto compiuti i diciotto, massimo vent’anni. Per la classe ero a posto, mi mancava la ricchezza. Poi la chitarra non l’ho mai suonata e di giacca ne ho avuta una sola che avrò usato un paio di volte e poi chissá dov’è finita, ma questo perché non ho mai dovuto lavorare in un ufficio e per le cerimonie ufficiali un maglione nero a collo alto fa miracoli. Il problema dei capelli corti corti, che mi ricordavano quelli dei bambini rasati a zero per i pidocchi di cui leggevo sulle riviste e palese insulto per i miei boccoli biondi fino alle scapole lo risolsi rifiutandomi a un certo punto di andare dal barbiere Giovannino di via Rovello, anzi smettendo definitivamente di andare dal barbiere, che nella migliore delle ipotesi mi trasformava in un gemello Bundy; da più di cinquant’anni i capelli me li taglio da me, alle volte il taglio riesce bene a volte non tanto, ma basta non usare il pettine. Un timore che non ho mai avuto è stato quello di diventare grande e poi vecchio come i grandi e i vecchi che mi circondavano da giovane, non solo anziani anagraficamente, ma vecchi di animo. Non ho mai dubitato che sarei rimasto com’ero a vent’annni magari con un po’ della consapevolezza del mondo di un quarantenne e infatti è andata così. Quando uno mi dice che ormai ha una certa età lo congedo all’istante, che vada a farsi fottere lui e la sua certa età. Adesso che sono tra i pensionabili anche se avendo lavorato per la cultura la pensione non la vedrò mai, a parte uno spesso strato di stufita e delusione sono esattamente com’ero da ragazzo, il problema, se è un problema, è la solitudine, perché i miei coetanei sono tutti diventati vecchi come i vecchi di un tempo, tranne forse un paio. Guardano i dibattiti politici alla televisione, molti hanno smesso di guidare l’auto perché hanno paura, e soprattutto si occupano dei nipotini. I nipotini? Qualche mese fa ho chiamato una mia amica di infanzia, siamo nati negli stessi giorni, figlia di amici di famiglia. Ha fatto la libraia per una vita, le dico: “Che fai?“. E lei: “La nonna“. O Cristo, la nonna? E il lavoro, e le letture? “No, niente, la bambina prende tutto il mio tempo“. Affari suoi, ma mi sono sentito ancora più solo, e poi a me i bambini stanno sulle palle quanto i cani, che in più mi lordano le strade. Al mercatino delle pulci dove vado ogni sabato ho conosciuto mesi fa una coppia di italiani, sono simpatici, lui è sui 74, lei un po’ più giovane, girano con una Topolino nuova di pacca, lui è un appassionato tardivo di trenini elettrici, che tuttora dal 1964 sono una mia passione fissa. Ci siamo rivisti solo una volta, al mercatino, per mesi hanno insistito telefonicamente che andassi a cena da loro un lunedì, quando organizzano degli incontri tra italiani a Berlino. Da piccolo i pranzi e le cene degli adulti erano un incubo, dovevi stare lì seduto ad aspettare il primo, il secondo, il terzo e il dolce, mentre i grandi discutevano del nulla o spettegolavano o parlavano di poitica o lodavano il polpettone, una noia spaventosa. Alle cene socievolmente sociali mi annoio esattamente come allora, mi sento soffocare e non me ne importa niente di discutere di politica e magari di infervorarmi. Poi la conversazione con sconosciuti: “Lei di che cosa si occupa?“. “Di filologia bizantina“. “Ah, interessante!” risponde il vicino di sedia voltando la testa dall’altra parte prima che gli spieghi che cos’è la filologia e che c’entra Bisanzio. Puoi rispondere che vernici pescherecci o addestri trichechi, ma la conversazione non cambia di una virgola. Quasi più della cena fuori mi opprimono i preparativi, mettersi in ghingheri che possiedo casomai vincessi il Nobel ma non uso, portare la bottiglia di vino, “grazie!, ma non dovevi!“, “spero che sia buono!“. Quelli che sanno come si vive aggiungono: “È un vino che producono miei amici nell’astigiano“. Dammi pure il cappotto, l’aperitivo sul divano, mi ha fatto molto piacere, non facciamo passare mesi prima di rivederci, Dio che palle. Adesso i ragazzi che per far prima invecchiano a quindici anni portano il vino con entusiasmo e nessuno dice neanche più “grazie!, ma non dovevi!“. Quindi a parte che alla sera sono provato dal lavoro o dal non aver lavoro e non vedo l’ora di spararmi quattro puntate di Boston Legal sul divano con una pizza surgelata e la Coca Cola, e che questi due che ho conosciuto abitano dall’altra parte della città, il che implica che tornando a casa non trovo parcheggio a pregare, non penso che li vedrò più, immagino che all’ennesimo dovete scusarmi, ma sono preso dal lavoro si saranno anche offesi. Mi dispiace anche, io alla pizzeria vicino al mercatino con loro ci andrei volentieri, tiriamo fuori dai sacchetti le cianfruse comperate e ce le rimiriamo, ma niente. Quindi faccio una vita solitaria controvoglia. Potrei forse cercare di frequentare gente più giovane, ma a parte che a un quarantenne di adesso non so che dire perché di media non sa e non capisce niente, mi manca solo di diventare come quelli che insistono che bisogna frequentare i giovani perché il futuro e la creatività sono nelle loro mani. Ma forse il problema è mal posto, perché se uno da vecchio è vecchio forse lo era anche prima, quanta gente che da ragazzo frequentavi allegramente, il giorno che si sposa non la vedi mai più, trafugata da moglie e nuovi parenti? E quelli che a un certo punto della vita smettono di comprarsi le cose perché tanto ormai, anzi vendono con largo anticipo gli oggetti delle loro passioni come appunto i trenini? E c’è qualcosa di più avvilente delle università della terza età? Se sentivi il bisogno di conoscenza potevi comprarti dei libri anche prima. Qualcuno trova lodevoli questi vecchietti che scoprono l’esistenza di Kant o del Parmigianino, a me mettono tristezza, e se proprio vuoi provarci prendi il brevetto da sub come fece la Riefenstahl a 71 anni, ma ti metti a fare lo studentello sorridente? O iscriviti alla università vera, non quella semplificata che ti dà un diploma simbolico (non che l’attuale università sia particolarmente impegnativa). Un tempo la Cattolica era piena di novantenni, perlopiù sacerdoti, che prendevano una terza o quarta laurea. Il fatto è che i miei coetanei erano vecchi e rincitrulliti già a trent’anni. Andrea Antonini * Post Scriptum sul servizio militare. Fino alla sua sospensione, il servizio miitare in Italia è stato a parer mio solo il furto di un anno di vita da parte dello Stato, che in questo modo metteva da subito in chiaro che sì, eri libero, ma fino a un certo punto. Tempo sbattuto via a fare cose inutili: già in tempi in cui una ipotetica guerra sarebbe stata risolta in pochi secondi da un attacco nucleare o da combattimenti con armi sofisticate, il militare di leva era addestrato a sparare col moschetto (a salve, mi dicono) o a fare la guardia a caserme popolate da gente che contava le ore alla fine dell’incubo e a pulire i cessi. Comunque fosse, l’Italia era ancora in gran parte un Paese di profonda e arretrata provincia e dunque la maggior parte dei soldati di naja proveniva da strati culturali mediobassi, gente che se magari non andavi anche tu a puttane ti etichettava come frocio e avevi finito di vivere; non sempre, non ovunque, ma troppo spesso. Chi pensate ridesse alle battute di Pierino, posto che Alvaro VItali era una brava persona? E gli ultimi arrivati erano fatti oggetto di quello che si chiamava bonariamente nonnismo, svegliarsi con la faccia sporca di merda lasciata sul cuscino mentre dormivi e altri simpatici scherzi del genere. Chi aveva un livello culturale e sociale più elevato aveva buone possibilità di essere fottuto dal primo giorno, e se ne rendeva conto già dalla visita di leva, i cosiddetti tre giorni; noi pochi bravi ragazzi a disagio nel puzzo generale degli stanzoni pieni di gente mezza nuda e poco lavata, con tanti della provincia invasati con il gagliardetto classe 1960, con gli enormi secchi pieni del piscio che dovevi produrre davanti a tutti perché fosse analizzato, diciamo così, e chi abituato alla decenza non ci riusciva era deriso apertamente, le mutande da tirare giù davanti a un sottoufficiale che verificava che avessi tutti e due i testicoli, un girone infernale che cancellava la tua identità personale e annunciava la tua vita di pochi mesi più tardi. Non sarei sopravvissuto al servizio militare, avrei insultato un sergente finendo in galera, mi sarei suicidato, sarei comunque finito male, ma mi venne in aiuto il servizio civile da poco introdotto, e grazie al quale scampai anche la fuga all’estero che avevo preparato nei dettagli da futuro disertore. Tra gli amici e i conoscenti molti furono riformati, forse esisteva una preselezione tesa ad allontanare quelli che non ce l’avrebbero fatta, uno rischiò di morire di polmonite dichiarata il raffreddore di un lavativo. Alcuni in effetti si uccisero. Il più saggio fu un amico che andò carabiniere, almeno avrebbe fatto qualcosa di davvero utile per la comunità, e comunque il clima nell’Arma era tutto sommato di solidarietà, non di vessazione contro i pivelli. Adesso sui monti incontro ogni tanto gruppi di soldati volontari, ragazzi e ragazze. Sono bellissimi, hanno un aspetto sano, hanno scelto loro quella carriera, lo Stato dà loro la possibilità di studiare. Vedo persino con qualche invidia quei ventenni che pilotano giganteschi elicotteri militari e penso che, forse, oggi andrei anch’io a militare, volontario, in mezzo a persone che fanno cose sperabilmente inutili ma concrete, altro che farsi le pippe per pochi soldi su corsivi e maiuscoletti. Navigazione articoli L’abbinamento perfetto: gli accostamenti tra dessert e liquore