“Sanguinaria”, “malefica”, “rabbiosa”. Alle prime luci dell’alba del 17 novembre 1558, questi erano gli appellativi che circolavano sottovoce al capezzale di una donna che si stava spegnendo a soli 42 anni d’età, ridotta a uno scheletro con il ventre innaturalmente rigonfio per un tumore all’utero che la consumava ormai da mesi. Eppure, la donna ebbe ancora la forza di assistere alla messa celebrata nella sua camera e di ascoltarla con partecipazione, rispondendo all’invocazione del “Miserere nobis”, per poi addormentarsi nel sonno del passaggio estremo dopo aver sussurrato: “In manus tuas Domine commendo animam meam”. Così si congedò da questo mondo la regina d’Inghilterra Maria I Tudor, figlia di Enrico VIII, cedendo non solo alla malattia, ma anche a una serie di dispiaceri e preoccupazioni quali la lontananza e indifferenza del marito, l’umiliazione e il dolore provocati da una falsa gravidanza, la scomparsa in rapida successione dei parenti più cari e, da ultimo, la definitiva perdita per l’Inghilterra della città di Calais, ultimo possedimento inglese in terra di Francia. Dopo nemmeno un paio d’ore, anziché a lutto, le campane delle chiese di Londra risuonarono a festa e per le strade iniziarono i festeggiamenti a base di colossali mangiate e bevute, musica e balli. La nuova regina Elisabetta I così aveva voluto, perché quello doveva essere il giorno gioioso della sua ascesa al trono e non del lutto per la scomparsa della sorellastra. Appresa la notizia del suo decesso, infatti, Elisabetta era caduta in ginocchio esclamando: “Questa è opera di Dio, meravigliosa ai nostri occhi”. Le due donne avevano ereditato l’odio reciproco dalle rispettive madri: Maria, di 17 anni più anziana, considerava Elisabetta alla stregua di una “bastarda”, perché figlia di Anna Bolena, decapitata con l’infamante accusa d’infedeltà coniugale. Riteneva poi le licenziosità della sorellastra, oltre che una prova dei suoi bassi natali, un’ottima ragione per impedirle di succederle sul trono. Il loro contrasto caratteriale era esasperato dalla religione, con Maria fervente cattolica, in sintonia con la madre Caterina d’Aragona; Elisabetta invece era protestante, anche se provvisoriamente convertitasi al cattolicesimo per evitare guai durante il regno della sorellastra. Al termine di soli cinque anni di regno Maria fu tanto demonizzata, da essere condannata a una subitanea “damnatio memoriae”, guadagnandosi anche gli inquietanti soprannomi che le furono attribuiti. Alla base di ciò si pose in primis la persecuzione attuata nei confronti di qualche centinaio di protestanti, mandati al rogo nell’ambito di un contesto storico più ampio e particolare. Consapevole della dignità del suo ruolo e del nome che portava, Maria era profondamente convinta di essere stata posta sul trono d’Inghilterra da Dio in circostanze straordinarie, con il compito specifico di riportare il suo Paese nell’alveo del cattolicesimo, e in tal senso non aveva esitato a immolare le sue sofferenze terrene per la riuscita di questa missione suprema. Certamente la sorte con lei non era stata benigna: sopravvissuta a un’adolescenza segnata da malanni vari, aveva assistito impotente all’umiliazione inflitta alla madre, ripudiata dal marito dispotico e crudele in favore di una donna di bassi natali che lei considerava alla stregua di una prostituta. Aveva subito i capricci di Enrico VIII, padre lontano e distaccato, che l’aveva isolata per anni rifiutandosi persino di vederla e separandola dall’adorata madre. Aveva corso pericoli mortali durante l’effimero regno del fratello Edoardo VI, debole, malaticcio e facilmente influenzabile da ministri interessati a mantenere l’Inghilterra nel protestantesimo e perciò pronti a tagliarla fuori acclamando regina, alla morte di Edoardo, la giovanissima Jane Grey, poi detronizzata dopo soli nove giorni in favore della legittima pretendente al trono, cioè proprio lei, Maria. Si era sposata con un uomo molto più giovane, il principe Filippo d’Asburgo, figlio dell’Imperatore Carlo V e futuro re di Spagna, che aveva accettato per pura opportunità politica di bere “l’amaro calice” del matrimonio con quella donna già molto anziana per i canoni dell’epoca e assolutamente priva di fascino. Lei lo aveva amato alla follia, ma a senso unico, venendo ricambiata con una glaciale indifferenza e una ripetuta serie d’infedeltà coniugali di cui veniva regolarmente informata dagli spioni che aveva infiltrato al suo seguito. Infine, aveva patito la lacerante delusione d’una falsa gravidanza che l’aveva esposta allo scherno delle corti straniere e ai lazzi del popolino. Ciononostante era riuscita a far fronte con coraggio e determinazione a una grave crisi finanziaria e gestire con buon senso la politica estera del Paese. Certamente però, fedele alle convinzioni non soltanto sue, ma tipiche di quei tempi, considerava l’eresia come un crimine abominevole, innanzitutto perché atto a precludere agli ignoranti la possibilità di salvezza. Pertanto, non diversamente dai pastori riformati che in quegli stessi anni sostenevano che “non solo è legittimo punire con la morte gli eretici, ma si è obbligati a farlo”, anche i vescovi cattolici reinsediati da Maria si misero all’opera per fare “pulizia”, con le conseguenze che conosciamo. Nessuna differenza si riscontrò durante i regni successivi, quelli cioè di Elisabetta I e di Giacomo I, che non diedero tregua ai “papisti”, ma la sola Maria è passata alla storia con l’infamante nomignolo di “Bloody Mary”, che verrà dato anche a un noto cocktail a base di vodka e succo di pomodoro. “Ritratto di Maria I Tudor” di Anthonis Mor, 1554, Museo del Prado, Madrid Navigazione articoli GIUSTINIANO, GRANDE IMPERATORE D’ORIENTE DESTINAZIONE STELLE, VENDETTA, SOLO VENDETTA