Cinquanta anni fa, il 10 novembre 1969, usciva in edicola il n. 11 di Off Side. In copertina campeggiava Dante, “un imprevedibile Divino Poeta”, disegnato in modo incerto da un esordiente di Siena che avrebbe poi fatto un bel po’ di strada nel mondo delle nuvolette in veste, di volta in volta, di sceneggiatore, disegnatore, autore completo, editore, redattore e critico. Nell’occasione del ragguardevole traguardo professionale, facciamo una chiacchierata con Marcello Toninelli sulla sua esperienza di fumettista e sul medium in generale.

MARCELLO TONINELLI, 50 ANNI DA DANTE ALL'OMORAGNO

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Cinquant’anni di carriera. Ma se tu avessi previsto tutto questo, come dice Guccini, ci avresti mai creduto?

Confesso di non essermi mai fermato a riflettere su cosa stavo facendo e, dunque, neanche su quanto sarebbe potuto durare. Già quando insieme a mio fratello Marco realizzavo i giornalini in casa all’età di dieci anni, li facevo perché mi divertiva… e non aveva molta importanza se fossero “veri” o no. È stato così anche da professionista. Certo, ho dovuto conciliare la mia voglia di fare divertendomi con le richieste degli editori e le necessità economiche della vita, se dopo cinquant’anni di caotica ma appassionante carriera mi ritrovo a fare un “giornalino” come Fritto Misto che scrivo e disegno tutto da solo come facevo da decenne… sembra quasi che il tempo non sia mai passato e che quel bambino stia ancora “giocando” come allora. Peccato solo non avere più al mio fianco Marco, portato via da un tumore bastardo.

MARCELLO TONINELLI, 50 ANNI DA DANTE ALL'OMORAGNO

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Mi ha colpito il tuo scoprire di aver Edgar P. Jacos, il creatore di Blake & Mortimer, tra i tuoi maestri. Come è avvenuta, o come pensavi che fosse avvenuta, la tua formazione al fumetto?

Maestro… che non ho mai considerato tale, come ho spiegato nel mio libro “La testa tra le nuvolette”. Durante il mio percorso da autodidatta credo di non essere mai andato a studiare o anche solo guardare i fumetti di Jacobs per “prendere” qualcosa. Casomai da Magnus. Solo in un’occasione, a disegno già maturato, mi sono ispirato a lui per disegnare le fiamme di un camion incendiato in un episodio di Hank Silicon, su fox frot!; quando, qualche anno fa, un’agenzia letteraria internazionale mi ha chiesto di fare le prove per disegnare nuovi episodi di Blake & Mortimer, andandolo a studiare ho però cominciato a trovare mille somiglianze tra i miei disegni e quelli dell’autore belga, a cominciare dalla forma e posizionamento dei balloon, che ho sempre fatto così senza rendermi conto che erano uguali a quelli di Jacobs. Come è andato a finire il progetto… lo si può leggere sul libro.

MARCELLO TONINELLI, 50 ANNI DA DANTE ALL'OMORAGNO

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Sei un grande amante del fumetto francofono, quali sono state e quali sono le differenze tra la loro realtà editoriale e la nostra? Tra i loro editori e i nostri?

Credo che la differenza sostanziale sia che i grandi “giornali” a fumetti da noi sono sempre stati considerati funzionali a interessi non commerciali: il Vittorioso e il Giornalino usavano il fumetto per intrattenere i ragazzi veicolando contenuti religiosi e genericamente educativi; il Corriere dei Piccoli, per crescere i futuri lettori della testata madre giornalistica. In Francia, invece, erano solo un’operazione editoriale che aveva un prosieguo nella raccolta in volumi brossurati o cartonati destinato al mercato librario. Da noi le (poche) volte che i racconti dei giornali venivano raccolti in albi spillati o brossurati, questi prendevano comunque la via delle edicole a prezzi popolari. Così, quando la stagione dei grandi giornali è finita da noi come da loro, in Italia sono rimaste solo le pubblicazioni da edicola (con tutto quello che comporta in “considerazione” pubblica), mentre da loro serie vecchie e nuove hanno continuato a vivere in libreria, dove esisteva un mercato già più che maturo. Oggi che le edicole stanno vivendo la crisi che sappiamo, Bonelli e soci stanno correndo freneticamente a riempire gli scaffali delle librerie, ma c’è il rischio che sia troppo tardi.

MARCELLO TONINELLI, 50 ANNI DA DANTE ALL'OMORAGNO

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Tempo fa lessi un commento di un autore che rileggeva Rosso Stenton di Attilio Micheluzzi e rifletteva che in trent’anni il fumetto è andato indietro perché all’epoca era “normale” leggere fumetti di quel tipo, mentre oggi è considerato un capolavoro dato che nessuno ha quella naturalezza a raccontare storie con un simile spirito aperto e colto e quel disegno che faceva apparire facile un combattimento di idrovolanti nel cielo della Shangai anni Trenta. Nel tuo libro racconti il linguaggio del fumetto e poi una tua personale, e interessante visione della storia del fumetto. Vista retrospettivamente, che bilancio ne ricavi? Si stava peggio quando si stava meglio oppure c’è stato un miglioramento?

Credo che ci siano solo state stagioni diverse, che nel libro ho cercato di analizzare da vari punti di vista. Da quando il fumetto era solo un intrattenimento per ragazzi (in Italia, perché negli Stati Uniti, per esempio, le strisce dei quotidiani si rivolgevano a un pubblico adulto), sia gli autori che i lettori sono cresciuti e cambiati con il mondo che cambiava intorno a loro. Certo, per chi ha vissuto la stagione del cosiddetto “fumetto d’autore” che anticipava-avviava il fenomeno del graphic novel, i Pratt, i Buzzelli, i Micheluzzi e i Toppi hanno rappresentato un approdo a un fumetto adulto, maturo e capace di coinvolgere come qualsiasi opera letteraria in prosa, e può sembrare che oggi questo si sia perso. In realtà, con la scomparsa di quei grandi autori e la concomitante morte delle “riviste d’autore”, il fumetto maturo ha solo preso altre strade, in Italia e nel mondo, dove ormai i formati editoriali consentono di raccontare qualsiasi storia con la più assoluta libertà espressiva; quel senso di “meraviglia della naturalezza” accennato dall’autore che citi è scomparso perché sono cambiati i lettori e l’offerta d’intrattenimento; oggi quella “naturalezza” la si trova facilmente in videogiochi, film e telefilm (basta pensare ai dinosauri di “Jurassic Park”), ed è lì che il “nuovo” pubblico (ma ci sto dentro anch’io con i miei quasi settant’anni) va, giustamente, a cercarla; nei fumetti si vanno invece a cercare Gipi, Paco Roca e Sio, distonici rispetto al linguaggio e ai contenuti degli altri media, e apprezzati proprio perché “diversi” in quanto vero Fumetto mentre serie e storie che scimmiottano cinema e tivù in edicola e libreria sono destinate a perdere sempre di più, nel confronto.

MARCELLO TONINELLI, 50 ANNI DA DANTE ALL'OMORAGNO

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Anche se hai lavorato per dieci anni in Bonelli e sempre avuto grande stima di Sergio e Decio Canzio, non lesini però critiche al fatto che il Bonelli editore abbia ingabbiato per anni la narrazione a fumetti: puoi raccontarci meglio questo tuo pensiero?

Sergio e Canzio sono due giganti dell’editoria da edicola. Un po’ per fortuna e molto per capacità, Bonelli ha saputo cavalcare meglio di tutti il cambiamento delle abitudini di lettura degli appassionati di fumetti quando l’accresciuta capacità di spesa ha fatto spostare l’interesse dagli smilzi albi a striscia o comunque di poche pagine in altri formati ai volumetti di cento e più pagine delle raccolte, e dopo i primi incerti tentativi è diventato anche un abilissimo sceneggiatore portando al successo al fianco del blockbuster Tex prima Zagor e poi Mister No. In qualche modo è però rimasto prigioniero del suo successo, e quando Dylan Dog (che lui non ha mai “capito” né, dunque, apprezzato) ha incontrato il gusto dei nuovi lettori spostando in avanti l’asticella relativamente al modo di scrivere/disegnare e ai contenuti, credo che abbia sentito il bisogno di “congelare” tutto quello che poteva per mantenere/recuperare la “semplicità” dei fumetti dei suoi anni d’oro. Ricordo che in quel periodo arrivò a chiedermi di usare solo l’onomatopea “Bang!” per lo sparo dei fucili… dopo nove o dieci anni che usavo tranquillamente i “Crack!” e i “K-pow!” secondo l’estro del momento; una cosa del genere si giustifica solo con un bisogno psicologico di “restaurazione della serenità” (sua). In questo modo ha ingessato tutta la produzione della casa editrice proprio mentre l’intrattenimento faceva passi da gigante in tutt’altre direzioni. Solo negli ultimi anni prima della scomparsa, davanti all’incalzare di una crisi che cominciava a manifestarsi con violenza, è sembrato rassegnarsi a tentare di percorrere nuove strade come l’Orfani di Recchioni con colorazione “moderna”, rinunciando a quella a tinte piatte secondo lui più adatta ai suoi lettori.

MARCELLO TONINELLI, 50 ANNI DA DANTE ALL'OMORAGNO

 

Alla luce di questo, come vedi i nuovi personaggi Bonelli? Come mai nessuno ha sfondato (speriamo nel futuro, siamo ottimisti), tra serie e miniserie, come Dylan Dog e, in misura minore, Nathan Never?

Dopo l’ingabbiatura ventennale di cui parlavamo, oggi la Bonelli spara in tutte le direzioni: prodotti da edicola di taglio “adulto”, o rivolti agli adolescenti o ai bambini; fumetti “d’autore” in veste popolare; ingresso in fumetteria e libreria (che Sergio ha sempre guardato con disinteresse dall’alto dei numeri del suo venduto in edicola)… ma temo che si inseguano lettori che non ci sono più: da quando, negli anni 80, anime e manga hanno cambiato l’immaginario visivo delle nuove generazioni, per quest’ultime il fumetto “tradizionale” è diventato semplicemente invisibile. Dylan Dog è stato l’ultimo successo possibile prima che l’arrivo di più coinvolgenti (e spesso persino gratuite) forme di intrattenimento mandassero in soffitta più o meno tutta la carta stampata. Anche se ogni tanto un Dragonero riesce a ritagliarsi ancora un temporaneo spazio di sopravvivenza in edicola, credo che la strada sia segnata: il fumetto “popolare” è destinato a diventare un fenomeno di nicchia, alzando sempre più i prezzi di copertina e spostandosi verso la libreria. Per sceneggiatori e disegnatori sarà la fine del lavoro “impiegatizio”, cioè quel rapporto per il quale si consegnava ogni mese un numero fisso di pagine di sceneggiatura o tavole disegnate per una delle tante serie esistenti garantendosi così uno “stipendio” fisso. Fare fumetti, come ha detto recentemente un dirigente editoriale francese, non sarà più un lavoro: lo diventerà solo quando un libro/autore venderà, altrimenti sarà poco più di un hobby, come succede per i romanzi.

Bonelli sta cambiando radicalmente un personaggio iconico come Dylan Dog e, in generale, apre spazi in libreria, al cinema, nei giochi e in televisione con le nuove serie: secondo te è troppo tardi? Ce la farà?

Per i fumetti ti ho già risposto: penso che sia quasi impossibile uscire dal gorgo che si è creato. Il nuovo fronte aperto dalla casa editrice nel settore delle produzioni cinetelevisive è una possibile via d’uscita (che non eviterà la perdita del lavoro per la maggior parte dei collaboratori, disegnatori in primis, inutilizzabili in quel contesto) per garantire un futuro all’azienda. Il rischio che ci si sia svegliati troppo tardi esiste. Quand’anche l’editore dimostrasse di sapersi muovere nel nuovo ambiente trovando collaboratori in grado di realizzare prodotti ben fatti, la concorrenza è agguerrita e numerosa: mi si dice che nel prossimo anno verranno prodotte 400 serie televisive. Più di una al giorno. Non 400 episodi, ma 400 intere “stagioni”. Sgomitare per farsi largo da ultimi arrivati in una situazione del genere sarà tutt’altro che facile.

Settore graphic novel. Come vedi il settore e gli autori che si sono affacciati? A me sembra che negli anni settanta-ottanta, gli autori di fumetto volevano davvero incidere nella realtà in cui vivevano con le loro storie raccontando anche di se stessi pure attraverso personaggi avventurosi, oggi mi sembrano più concentrati su se stessi, con poca apertura storica che a volte sembra più una quinta teatrale che un altro protagonista del racconto. Tu cosa ne pensi?

Quello che dici è sicuramente vero in moltissimi casi, ma forse non in tutti. La produzione libraria sempre più vasta fiorita all’ombra dell’etichetta del graphic novel è ormai talmente variegata che credo ci entri tutto e il contrario di tutto. Penso però che ci sia spazio per fumetti maggiormente legati alla realtà e più “veri”, ma non ne leggo abbastanza da poter dare indicazioni più precise in merito.

In generale, in Italia il calcio è una religione, ma il fumetto l’ha raccontato solo di sbieco. A parte Linus, Frigidaire e pochi altri, lo stesso è accaduto per la politica (che non è solo la competizione tra partiti), la Storia e la realtà italiana. Oggi è difficile trovare questi due temi nel fumetto popolare e nei graphic novel, a parte Zerocalcare, Fumettibrutti (che infatti hanno anche successo) e pochi altri. Come mai secondo te?

Rispetto agli anni che citavi prima, certo, le ideologie sono praticamente scomparse (per fortuna, dico io) e con esse l’impegno politico. Oggi si richiede un gigantesco sforzo di fantasia per uscire dalle secche di una politica ormai inconsistente e votata solo all’interesse personale. Vedremo se il fumetto sarà capace di accompagnare il cambiamento che, mi auguro, verrà o almeno saprà esserne interprete. Io confido che ci siano sempre meno fumetti “schierati” da una qualsiasi parte (già Zerocalcare, in alcune cose, mi pare un dinosauro ideologico), e che si faccia invece spazio a storie capaci di farci riflettere su noi stessi, sul perché di tante nostre scelte e comportamenti, che poi diventano anche “politica” (nel senso più alto, non certo quella partitica). E, magari, di rileggere la nostra Storia senza paraocchi ideologici. Credo che su questo fronte, da noi, ci sia ancora molto da lavorare. Libri a fumetti capaci di raccontare la Storia vista dalla finestra dell’esperienza personale come nel “Persepolis” della Satrapi o nella “Marzi” di Sowa e Savoia, e dunque più “vera” e meno ideologizzata, ne vedo pochi. Anzi, per il poco che leggo, dovrei dire nessuno. Da uno schieramento e dall’altro continuano a prevalere le “religioni”.

Leggendo il tuo libro emerge un mondo che nella maggior parte delle opere critiche degli ultimi anni è dimenticato, soprattutto quello del fumetto industriale che in edicola faceva vendite impressionanti. Hai gestito per anni Fumo di China, come vedi lo stato della critica oggi e degli studi sul fumetto?

Anche la critica ha avuto inevitabilmente le sue stagioni. Dopo un periodo in cui si riusciva a conoscere a malapena il nome di alcuni autori, negli anni 70 grazie ad associazioni benemerite come l’ANAF (oggi ANAFI) e riviste come linus, si è cominciato a studiare il medium e a catalogare informazioni su autori e opere, aprendo la strada anche all’analisi critica delle stesse. Quella generazione di critici, dotata quasi sempre di una buona cultura generale, univa fortemente la passione maturata nella prima infanzia al desiderio di analizzare anche i fumetti secondo le regole e i parametri di altre forme narrative come il romanzo e il cinema. Con l’esplodere del fenomeno delle fanzine, a quella ricerca in qualche modo “dotta” senza essere accademica si è affiancata una critica spicciola basata spesso più sul gusto personale e la passione per particolari personaggi, generi o autori che non sullo studio e il raffronto con altre forme narrative. Per finire, mi sembra essersi formata una nuova leva di critici di estrazione universitaria che, pur sinceramente appassionati al linguaggio fumettistico, danno spesso l’impressione di essere interessati prima di tutto a ottenere riconoscimenti accademici. Mi pare che Fumo di China (insieme all’Annuario del Fumetto) riesca a raccogliere e accogliere in qualche modo tutte queste anime della critica, facendole convivere senza eccessivi attriti.

Quali sono gli autori e gli editori che stai tenendo d’occhio in senso positivo, e perché?

Come lettore, mi capita ormai principalmente di andare a recuperare singoli volumi o intere serie di personaggi e autori del passato, territorio nel quale mi trovo inevitabilmente più a mio agio. Come ho detto seguo abbastanza poco la produzione attuale, anche perché è diventata sterminata (credo che solo in Italia si pubblichi praticamente tutto quello che viene prodotto nel mondo)… e le mie librerie non sono più in grado di accogliere nuovi volumi: per i romanzi, alle edizioni cartacee ho sostituito da tempo gli ebook. Ora che mio figlio ha comprato casa per conto suo qualche spazio si è liberato, e mi farò tentare più facilmente. Mi guardo comunque sempre in giro con la curiosità che conservo verso l’intero settore; le produzioni più tradizionali, da Topolino a Diabolik alle testate classiche bonelliane, riescono rarissimamente a incuriosirmi; capita più spesso che siano dei graphic novel ad attirare il mio interesse con autori come Gipi, Zerocalcare, Roca, Pedrosa, Mazzucchelli, Cuello, Ortolani o l’amico Stefano Casini. Quanto agli editori, riconosco la capacità indiscussa di realtà come Bao e Tunué, tra le più pronte e abili a conquistare spazi in libreria quando il vento è cominciato a cambiare, ma l’editore che seguo con maggiore interesse e curiosità è Lucio Staiano. E non perché da qualche anno ho il privilegio di essere uno degli autori della sua Shockdom, ma perché è stato il primo a credere con convinzione nella rete e nel digitale, e pure se è riuscito ad affermarsi anche in libreria ed edicola, è forse l’unico che continua a guardarsi intorno con un’apertura mentale davvero a 360 gradi. Di questi tempi, un atteggiamento encomiabile quanto prezioso.

 

Nel tuo libro hai dato un grande spazio alla descrizione del linguaggio del fumetto, lo hai messo in apertura, questo perché pensi che in molti lettori, autori e operatori ci siano delle lacune in questo senso?

Per fortuna, come ho detto, oggi il fumetto non ha più confini geografici né “regole” rigide di realizzazione: qualsiasi autore ha modo di trovare un approdo al proprio lavoro (se è sufficientemente buono), quale che sia il suo modo di scrivere e/o disegnare. Resta però vero che il fumetto da edicola, da noi, resta per il momento una realtà numericamente significativa, nella quale riscontro vizi e vezzi che autori e operatori si tirano dietro spesso in modo acritico. È il caso dell’uso della didascalia, al quale ho dedicato il lungo capitolo d’apertura del volume. Accennavo prima a come l’inseguimento di moduli cinetelevisivi o videoludici sia destinato a risultare fallimentare: quanto più quel linguaggio, grazie alle nuove tecnologie, diventa attrattivo, tanto più il fumetto inevitabilmente perde nel confronto, per cui ritengo che la Nona Arte abbia tutto l’interesse a parlare la propria “lingua” specifica per caratterizzarsi e conservare così la capacità di incuriosire proprio per la sua diversità, mentre ogni somiglianza con altri media non può che penalizzarlo. Ma un maggiore uso della didascalia non è anch’esso un rincorrere altri linguaggi, come il romanzo? Ritengo di no. Lo strumento della didascalia è una componente del fumetto (almeno quello avventuroso) fin dalla sua nascita, e se usato con intelligenza arricchisce l’opera. La maggior parte degli autori (spalleggiati dai responsabili redazionali) sembra invece fare a gara a evitare gli odiati riquadri e raccontare quanto più possibile in modo cinematografico. Un modo per suicidarsi più in fretta, secondo me. Linguaggio a parte, un’altra cosa che rimprovero agli editori tradizionali nostrani è quella di aver praticamente abbandonato il pubblico infantile. In Francia si producono centinaia di volumi indirizzati a bambini e ragazzini, e con successo: da Titeuf al Piccolo Spirou, dai Puffi all’allievo Ducobu. Una parte di quei lettori, affezionatasi al linguaggio del fumetto, crescendo passerà probabilmente ad altre pubblicazioni garantendo il ricambio generazionale necessario alla salute dell’intero settore. In Italia, a parte Topolino i cui lettori sono ogni mese meno numerosi (e in percentuale sempre maggiore adulti), non ci sono pubblicazioni che “insegnino” ai piccoli il linguaggio del fumetto. Chi fa didattica sa benissimo quanto è difficile far avvicinare al fumetto le persone una volta diventate adulte. In questo senso credo che chiunque lavori nel settore debba ringraziare autori come Sio che, prima dalla Rete e poi anche in edicola e libreria, svolgono un preziosissimo lavoro di “semina” tra i giovanissimi.

 

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