Quando entriamo in un museo di arte contemporanea (il Moma di New York, il Guggenheim di Bilbao o, per restare in Italia, quello del Castello di Rivoli vicino a Torino) e ci fermiamo di fronte alle opere esposte nelle sale, ci verrebe da dire: “Lo potevo fare anch’io!”.
Ma è davvero così ?
No, ovviamente. Ma perché ?
Proviamo a cercare una risposta.

Se pensiamo all’arte in generale ci vengono in mente i nomi dei grandi pittori del passato, e quelli dei movimenti a cui appartennero: Monet e l’impressionismo, Picasso e il cubismo, e così via. Ci piacciono perché guardando le loro opere riconosciamo immediatamente il soggetto o la scena rappresentati: ritratti, paesaggi, episodi della Bibbia o della mitologia greca, battaglie, nature morte.
Questa è l’arte figurativa. In essa l’artista infonde il proprio stile, la propria poetica, le proprie inclinazioni (può, per esempio, prediligere scene di vita quotidiana del popolo al posto delle pompose rappresentazioni delle classi dominanti, specializzarsi in un genere particolare come le navi o la caccia, dedicarsi esclusivamente ai ritratti).
Ma l’artista non è quasi mai solo. Alle sue spalle c’è, quasi sempre, qualcuno senza il quale non potrebbe vivere: il committente.

Che si tratti di un privato (un sovrano, un mercante, un banchiere, un cardinale, il Papa) o di un’istituzione religiosa (un convento, una parrocchia, un ordine monastico) è sempre il committente che convoca l’artista e gli commissiona un lavoro. E quando un pittore diventa famoso tutti fanno a gara per assicurarsi i suoi servigi.
All’inizio della loro carriera gli artisti, come tutti, vanno in cerca di lavoro. E se non lo trovano nella propria città natale, o se questa incomincia ad andar loro troppo stretta, si spostano: Leonardo da Firenze va a Milano, Michelangelo da Firenze va a Roma. E dal Seicento in poi per gli artisti stranieri diventa quasi obbligatorio un viaggio in Italia, per studiare la nostra grande pittura del Rinascimento. Nell’Ottocento è il turno di Parigi, che diventa la capitale mondiale dell’arte.
Ma all’inizio del Novecento tutto cambia. Scoppia una rivoluzione totale, spiazzante, inaspettata, potente, sulla quale si continua a discutere.

Anno 1917. Marcel Duchamp realizza l’opera che cambierà per sempre il concetto di arte. La intitola Fontana.
È un orinatoio. Un banale, semplice, comunissimo orinatoio di porcellana, come quelli che ancora oggi (con un design diverso, va da sé) si trovano nelle toilette pubbliche. Duchamp lo acquista, lo gira di 90° rispetto alla sua posizione consueta, ci aggiunge la firma “R. Mutt” e si prepara a esporlo al pubblico, cosa che però non avviene.
L’opera originale finisce distrutta, ma negli anni Duchamp ne autorizza delle repliche, circa sedici delle quali esistono ancora oggi, distribuite in vari musei del mondo.

ARTE CONTEMPORANEA
L’opera originale fotografata da Alfred Stieglitz

 

Fontana è un esempio di quello che viene definito ready made, cioè “già pronto”. Infatti Duchamp non realizza egli stesso l’orinatoio, che trova già fatto in quanto prodotto industriale. Si limita a considerarlo degno di attenzione, e a intervenire su di esso con la sua personale idea (lo ruota e lo firma). Dopo di lui saranno molti gli artisti che utilizzano oggetti già esistenti, o che combinano materiali grezzi secondo la propria personale interpretazione. Oggi un artista può anche non essere assolutamente in grado di dipingere o di scolpire: ciò che conta non è più l’abilità tecnica, ma l’idea, il gesto, la visione nella sua mente.
Questa è l’arte di oggi, che proprio per questo viene chiamata concettuale.

Ci stiamo avvicinando all’arte contemporanea, ma non ci siamo ancora. È necessario infatti, come del resto per i periodi precedenti, avere presente i limiti cronologici.
Si definisce arte moderna quella prodotta tra il 1917 e il 1970.
Si definisce arte contemporanea quella prodotta dal 1970 a oggi.
Gli artisti precedenti, fino alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, vengono chiamati “antichi maestri”.

Nell’arte contemporanea, come del resto anche in quella moderna, il pubblico si trova spesso disorientato, perché non riesce a capire quello che vede. E si domanda se ciò che ha di fronte sia da considerare arte, o se non sia una presa in giro, spesso anche di cattivo gusto.

Ma qual è il criterio per definire “arte” una certa opera contemporanea?
Una definizione abbastanza condivisa sottolinea il valore dato dal tempo. Se con il passare degli anni un’opera è ancora apprezzata, conosciuta, se ne parla ancora, è ancora oggetto di analisi critiche ed è ancora ricercata sul mercato, allora è arte. Se al contrario dopo pochi anni dalla sua realizzazione è già stata dimenticata, nessuno ne parla più, è scomparsa dai radar di chi se ne intende, allora non è arte.
Possiamo prendere per buona questa definizione, con tutte le cautele del caso. In effetti non è molto diverso da quello che succede per i libri. Quando un libro diventa un “classico”? Quando sopravvive alla prova del tempo, quando diventa patrimonio comune, condiviso e conosciuto da una larga fascia di persone. Per l’arte può valere lo stesso principio.

Nell’arte contemporanea ci sono tre diversi soggetti che svolgono un ruolo di primo piano.
Gli artisti hanno l’idea e realizzano l’opera. A volte hanno soltanto l’idea e la realizzazione la commissionano ad artigiani e operai. Alcuni di loro non possiedono una conoscenza fisica, manuale, dei materiali e delle tecniche che intendono utilizzare: dirigono il lavoro di altri secondo la propria sensibilità, finché l’idea che avevano in mente non ha acquisito consistenza tridimensionale. E siccome l’idea è loro, possono dire di essere gli autori dell’opera.
I galleristi acquistano l’opera dagli artisti e la espongono nei propri spazi, le gallerie appunto, con l’intenzione di rivenderla e di realizzare un profitto. Le gallerie sono quasi ovunque ampi spazi con muri bianchi, asettici, impersonali: è una scelta fatta apposta per concentrare tutta l’attenzione del visitatore solo e soltanto sulle opere. Sono i galleristi, di solito, a scoprire artisti nuovi e a farli conoscere. Non nascono con l’arte contemporanea, ma alla fine dell’Ottocento: sono stati loro i principali artefici del successo degli Impressionisti.
I collezionisti sono i compratori finali, che acquistano l’opera per includerla nella propria personale collezione. Ma hanno anche altri scopi, come vedremo tra poco.

Quando un collezionista intende disfarsi di un’opera di sua proprietà intervengono le Case d’Aste, che svolgono un ruolo di mediazione e che, nei fatti, fanno girare il mercato: mettono in contatto venditori e compratori, fanno conoscere l’opera attraverso campagne pubblicitarie e ne fanno salire il valore usando le tecniche di marketing. Realizzano inoltre cataloghi, che spesso includono testi scritti da studiosi e accademici: ma si tratta pur sempre di pubblicità, non di saggistica. I cataloghi non hanno valore scientifico, ma solo commerciale.
Quando si parla di Case d’Aste ci si riferisce pressoché esclusivamente a due nomi: Christie’s e Sotheby’s. Un’opera che viene venduta in queste aste aumenta di valore proprio perché è presente nel loro catalogo.

Un altro elemento che porta a un ulteriore aumento del valore di un’opera è la sua storia, ovvero da chi è stata posseduta in passato. Diventare proprietario di un’opera che era appartenuta a una persona influente fa sì che il nuovo possessore si senta in qualche modo nobilitato, ed è quindi disposto a spendere di più.

Spesso ci si stupisce dei prezzi stratosferici che raggiungono le opere di arte contemporanea. Questo avviene, oltre che per i motivi appena ricordati, perché l’artista stesso viene trasformato in un brand, in un marchio. A operare questa trasformazione è di solito il gallerista, ma a volte l’artista è talmente bravo e geniale da fare tutto da solo, come nel caso di Andy Warhol.
Se un artista diventa un brand, possedere una sua opera si traduce in un aumento di visibilità e status symbol. Ed è per questo che i collezionisti comprano: molto raramente lo fanno perché piace loro quello che stanno acquistando. Ciò che conta è poter dire di essere proprietari di un’opera di quel tal artista, farla vedere agli ospiti, sentirsi ed essere considerati importanti perché si è stati in grado di acquistarla, spendendo cifre dell’ordine di decine di milioni di dollari.
Naturalmente, dato che di solito non hanno una conoscenza dell’arte, costoro si affidano ai galleristi affinché trovino qualche buona opera da acquistare.

I galleristi sanno di che tipo di opera ha bisogno in un dato momento un certo collezionista. Inoltre sondano continuamente il mondo dei collezionisti per vedere se qualcuno di loro è disposto a vendere (un’opera singola, un lotto o una collezione intera). Questo può avvenire per vari motivi:
– Il collezionista è morto e gli eredi non hanno interesse a tenersi in casa “quella roba”, anzi sono felici di sbarazzarsene, ovviamente guadagnandoci il più possibile.
– Si trova in difficoltà economiche, e per ripianare i debiti deve vendere alcuni pezzi.
– Ha bisogno di liquidità per altri motivi, per esempio un divorzio.
– Il collezionista ha, molto semplicemente, cambiato gusti e non vuole più opere di un certo artista, quindi le vende per poterne comprare altre di artisti diversi.

Dato che i collezionisti sono tutti ricchi (stiamo parlando di banchieri e finanzieri, grandi industriali, magnati russi, cinesi o mediorientali), il denaro in sé conta poco. È come per noi andare al mercatino dell’usato: se pure stentiamo ad arrivare a fine mese, avremo sempre 5 o 10 euro da spendere per un oggettino carino trovato su una bancarella. Per loro è lo stesso, solo con un ordine di grandezza diverso.

In tutto questo discorso sembrano mancare i musei. Ma non è così. A volte, pur disponendo di risorse economiche assai inferiori rispetto ai grandi collezionisti, i musei riescono ugualmente ad aggiudicarsi dei buoni pezzi alle aste di Christie’s e Sotheby’s. Più spesso sono i collezionisti che decidono di donare le proprie opere ai musei: lo fanno per acquisire il diritto a indicare il proprio nome sulle targhette (il che si traduce per loro in un aumento di visibilità) e, soprattutto, perché possono entrare nei Consigli di amministrazione dei musei stessi (cosa che permette loro di accreditarsi come coinvolti in campo culturale, e di propagandare un’immagine di se stessi più aperta e progressista, per non essere considerati soltanto degli aridi affaristi).

C’è però anche il rovescio della medaglia. A volte un collezionista cede un’opera di sua proprietà a un museo, ma pretende che sia sempre esposta, cioè che non finisca mai in magazzino. Dover esporre obbligatoriamente un’opera significa per il museo avere meno spazio a disposizione per le altre: in questi casi a decidere l’allestimento di un museo sono quindi i soldi dei collezionisti, e non l’esperienza e il giudizio dei curatori.
Esistono poi casi, sempre più numerosi, di collezionisti che fondano essi stessi un museo, per esporre la propria collezione di opere e per eternare il proprio nome nella Storia. Quando questo avviene è ovvio che la scelta delle opere rispecchia i gusti del fondatore, e non deriva dallapproccio puramente professionale di un curatore. Esempi di musei di questo tipo sono il Guggenheim (quello originario di New York, che poi si è espanso con la nuova sede di Bilbao) e il Getty Museum di Los Angeles, fondati dagli omonimi magnati: negli anni entrambi si sono costruiti una solida fama e hanno acquisito una riconosciuta legittimità, ma tutti gli altri, e sono decine e decine, fondati da collezionisti in cerca di gloria, quanto dureranno ?

I musei hanno meno visibilità nel mondo dell’arte contemporanea, ma questo non vuol dire che il loro ruolo non sia importante, anzi. Quando l’opera di un artista è esposta in un museo acquista un valore che, per una volta, non è economico, ma di “dignità”.
I musei organizzano poi retrospettive dedicate a un artista, ovvero mostre che raccolgono le sue opere migliori fino a quel momento. Per un artista una retrospettiva presso un grande museo (il Moma di New York, la Tate Modern Gallery di Londra, il Centre Pompidou a Parigi) si traduce in un aumento di valore delle sue opere.
Un museo è di solito noto al grande pubblico perché possiede almeno un’opera importante, conosciuta da tutti, come il Louvre con la Gioconda. Quando viene fondato un nuovo museo è necessario farlo conoscere, per far sì che venga inserito nei circuiti turistici: e per farsi conoscere non c’è niente di meglio che acquisire un’opera famosa.
Il colpo migliore in questo campo lo fece l’Art Institute di Chicago, che riuscì ad acquisire ben tre opere di capitale importanza: Una domenica alla Grande Jatte di Seurat, il dipinto più importante del Puntinismo; Nighthawks, di Edward Hopper, il più famoso pittore americano del Novecento; e infine American Gothic di Grant Wood, l’impietoso ritratto della provincia americana.

ARTE CONTEMPORANEA
George Seurat, Una domenica alla Grande Jatte, 1885
Edward Hopper, I falchi della notte/Nighthawks, 1942
Grant Wood, American Gothic, 1930

 

Anche i musei devono quindi diventare dei brand, dei marchi. E non solo quelli di arte contemporanea. Ma è una questione di sopravvivenza: “È il mercato, bellezza!”, si potrebbe dire.
Per diventare un brand un museo può anche chiamare un architetto famoso (di quelli oggi definiti, con parola orrenda, archistar) per costruire la propria sede. È il caso del Guggenheim di Bilbao, ideato da Frank Gehry, e del Centre Pompidou a Parigi, ideato da Renzo Piano. In questo caso il contenitore (il museo) diventa importante tanto quanto il contenuto (le opere).

Il mondo dell’arte gravita quasi totalmente intorno a due città: New York e Londra. La capitale inglese è la sede di Christie’s e Sotheby’s, mentre nella Grande Mela c’è la più alta concentrazione al mondo di galleristi, collezionisti e artisti.
All’attività di galleristi e Case d’Aste si sono aggiunte, dai primi anni Duemila, anche fiere specializzate, che nel tempo hanno acquisito sempre maggiore importanza. Queste fiere si tengono a Basilea (Svizzera, con una fiera gemella a Miami, negli Usa, importante dal punto di vista commerciale ma più spesso nota per le feste, i ricevimenti e i VIP che vi presenziano); Maastricht (Olanda); e, ancora una volta, Londra. Sono diventate per l’arte l’equivalente del Festival di Cannes per il mondo del cinema.

Nel panorama che abbiamo fin qui delineato dobbiamo aggiungere ancora un ultimo tassello: il critico d’arte.
Il critico cinematografico, il critico gastronomico e il critico letterario sono, nei rispettivi ambiti, figure molto note, rispettate e la cui opinione ha un peso.
Nel mondo dell’arte contemporanea no. Il parere di un critico non ha alcuna influenza nel determinare il prezzo di un’opera. Una recensione positiva non migliora l’immagine di un artista, e una recensione negativa non ne affossa la carriera. Un articolo sulla mostra di un artista non contribuisce in nessun modo a incrementare il numero di visitatori della mostra stessa.
A cosa servono allora i critici d’arte? Alcuni di loro scrivono per quotidiani e periodici non specializzati, destinati al grande pubblico, e quindi compiono un lavoro di informazione. Altri invece scrivono per i cataloghi delle Case d’Aste, e sono in pratica costretti a esprimere sempre pareri positivi, anche perché i loro articoli prima di essere pubblicati vengono passati al vaglio da una commissione: lo scopo è sempre, come abbiamo detto, la pubblicità.

 

FONTI
Francesco Bonami, Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori 2007
Donald Thompson, Lo squalo da dodici milioni di dollari. La bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea, Mondadori 2017
Carlo Vanoni, A piedi nudi nell’ arte, Solferino 2019
Angela Vattese, L’arte contemporanea. Tra mercato e nuovi linguaggi, Il Mulino 2012

 

 

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