Nella mitologia greca il troiano Laocoonte era sacerdote del dio Apollo. Nell’Eneide, il poema di Virgilio che parte dalla caduta della città di Troia, Laocoonte ha il sentore dell’inganno con il quale i greci vogliono penetrare dentro la città, e avverte i compatrioti: “Timeo danaos et dona ferentes”, temo i greci anche quando portano  doni. Questa frase, diventata famosa, verrà riutilizzata anche da Goscinny e Uderzo in “Asterix legionario”.

I troiani sono quasi convinti di bruciare l’insidioso cavallo di legno, ma la dea Atena fa uscire dal mare due grandi serpenti, che assalgono Laocoonte e due suoi figli adolescenti, stritolandoli. I troiani, spaventati dal prodigio, si affrettano a far entrare il simulacro del cavallo dentro le loro mura, causando così la rovina della città.

Il mito di Laocoonte rimane impresso in entrambe le civiltà antiche, quella greca e quella latina. Nel secondo secolo avanti Cristo, Aghesandro, Polidoro e Atenodoro tre scultori della corrente artistica ellenistica, realizzano una grande scultura (2,42 metri di altezza per 1,63 di larghezza per 1,12 di profondità), probabilmente in bronzo e situata nell’isola di Rodi, che illustra il truculento episodio. Una copia di questa, realizzata in marmo, arriva a Roma a cura dell’imperatore Tito, prima del 79 dopo Cristo poiché viene descritta da Plinio il vecchio nei suoi scritti della Storia naturale (Plinio morirà ucciso dall’eruzione del Vesvio proprio quell’anno). Il gruppo scultoreo viene piazzato nelle terme fatte costruire dagli imperatori Flavi.

Lì resterà fino alla decadenza e scomparsa di Roma. Rimarrà sepolta, finché uno scavo casuale nel podere di un certo De Fredis sul colle Oppio la riporta alla luce il 14 gennaio 1506. In quell’epoca, il Rinascimanto, la cosa fa sensazione. L’architetto Giuliano da Sangallo e gli scultori Michelangelo Buonarroti e Baccio Bandinelli vengono incaricati del restauro del monumento da papa Giuio II. Il pontefice acquista il ritrovamento e lo mette in evidenza nel giardino del Belvedere in Vaticano. Sequestrata all’inizio dell’800 da Napoleone e posta nel Louvre a Parigi, la statua tornerà successivamente a Roma ed esposta nel museo Pio Clementino in Vaticano.

Un simile pezzo forte non poteva non avere successive reinterpretazioni da parte dei nostri contemporanei, e siccome questa è l’epoca di affermazione del sesso femminile, Laocoonte diventa donna.

Nel 2015 la scultrice Lea Monetti di Firenze realizza in bronzo la versione femminile della celebre statua: dimensioni, centimetri 79 x 66 x 27,5. Il Laocoonte originale ha una testa di uomo anziano su un corpo giovane e atletico. La sua epigona, invece, è una donna che ha superato i quarant’anni, non appesantita, non formosa ma di costituzione fisica muscolosa.

 


La modella è Claudia Contin, prima donna al mondo ad aver interpretato a teatro la maschera di Arlecchino:

 

Laocoonte esprime disperazione e impotenza contro i serpenti, mentre la donna della Monetti è decisa a lottare per salvare le piccole figlie piangenti. Anche se ha il braccio destro avviluppato nelle spire, ha afferrato la testa di uno dei serpenti e fa lo sforzo di strapparlo via. Il movimento si vede bene specialmente nella parte posteriore della scultura. La testa del secondo serpente viene tenuta ferma, calpestata dal piede destro della donna. È un’allusione alla maledizione che dopo il peccato originale Dio lancia sul demone-serpente tentatore: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, e tra la tua stirpe e la sua stirpe: essa ti schiaccerà la testa e tu la assalirai al tallone”.

La lotta non è ancora decisa; vinceranno le bestie o le umane ?

 

 

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