LANDO BUZZANCA, SPECCHIO DI UNA PROMESSA

Nella primavera del 1970 la Rai trasmise un inusuale spettacolo di intrattenimento in sette puntate basato sulle vicende di una coppia di sposi che, leggo sui giornali di oggi, avrebbe dovuto essere il prototipo del matrimonio moderno da canzonare bonariamente, Signore e Signora, con Lando Buzzanca e Delia Scala.

Qualche balletto, qualche conversazione teatrale tra i due, sketch con Paola Borboni la suocera, qualche canzone che sarebbe rimasta nei decenni seguenti: “L’amore non è bello se non è litigarello…“.

A me bambino di dieci anni piaceva tantissimo, e dovetti essere così perentorio nel mio desiderio di non perderne neanche una puntata che al sabato mi fu concesso di portare in camera mia il pesante televisore della sala perché potessi guardarmi in santa pace il programma.

Quando anni più tardi vidi i film che avrebbe poi fatto Lando Buzzanca mi domandai come mai non avesse seguito la strada aperta da Signore e signora, fatta di un umorismo semplice e leggero, molto elegante.

Quel programma fu per me, romantico già da ragazzino di contro ai miei amici che nell’adolescenza parlavano solo di fica e grosse tette, un segnavia estetico per quella che sarebbe stata la mia vita adulta, ben diversa da quelle dei genitori e dei nonni.

Delia Scala era sempre bellissima e spigliata con i suoi collant colorati che a quei tempi le riviste femminili progressiste regalavano alle lettrici perché sconfiggessero la dittatura del nero o del color carne. I personaggi maschili dall’aria rilassata portavano talora maglioncini aderenti come quelli che vedevo sui campi di golf di Courmayeur, frequentati da persone non ricche ma che certamente potevano godersi quel poco o tanto che la vita può dare senza esasperarsi per i problemi di bollette.

Un contrasto rassicurante con il vecchiume circumfamigliare in cui troppo spesso mi ritrovavo, vecchi professoroni letterati nati già morti, tristi automobili Fiat da impiegato ministeriale, coppie sposate senza amore con matrimoni indissolubili e disperati che sfociavano troppo spesso in violenze contro i figli. Prediche sulla vita come una condanna al dolore, discorsi sulla buona qualità dei matrimoni senz’amore, l’amore sarebbe arrivato dopo, mi dicevano. Discorsi angoscianti per un bambino e non solo, fin quando Lando Buzzanca e Delia Scala mi raccontarono che poteva essere tutt’altro e io ne fui entusiasta.

Rivedendo oggi lo sceneggiato sospetto che in verità la mia fantasia romantizzasse un pelino eccesso la realtà delle esili trame. Mi rendo anche conto che le ambientazioni erano una specie di anticipazione astratta ed entusiasmante di quello che sarebbe stato riconosciuto anni più tardi come il design italiano – non solo un nuovo stile, ma anche una nuova, potente e vitale filosofia dell’esistenza -, che sarebbe rapidamente ammuffito in un manierismo che non avrebbe avuto niente a che fare con le idee delle origini, quelle di Flos, Artemide, De Padova, delle prime cose Kartell e Danese e quelle misconosciute di Casa Kit e del reparto arredamento di Croff e della Rinascente. Degli scaffali Lips Vago e dei mobili di Joe Colombo.

Anche gli abbigliamenti rispecchiavano o sarebbero stati addirittura idealmente ripresi nell’emergente mondo della moda italiana, ed entrambi gli elementi sarebbero riemersi due anni più tardi nella serie inglese Spazio 1999.

E dunque, Lando Buzzanca con quel programma aveva espresso la promessa di un mondo affettuoso e interessante, libero dalla pesantezza ottocentesca che ancora dominava l’Italia, promessa che mi ero fatto per nome suo, e cui avevo dato fede.

Oggi vivo in un incubo di roba Ikea, non mi sono ancora sposato e quando lo farò sarà una festa per forza di cose poco affollata, e la modernità così come l’avevo sognata nei termini di un mondo tecnologico costruito attorno alla persona e al suo servizio sta annegando in una palude di ecologismi d’accatto che predicano il ritorno alla vita rurale, alla paccottiglia d’artigianato, ai pavimenti di cotto finto antico in appartamenti finto Caccia Dominioni nelle periferie dei centri commerciali. Tutto il contrario delle case stilizzate di Signore e signora.

Mi dispiace che Buzzanca sia morto, soprattutto empaticamente perché i suoi ultimi anni devono essere stati terribili, ed egoisticamente per me che perdo il primo testimone di qualcosa che avrebbe potuto e dovuto essere e non è stato, ma che ancora sogno.

(Andrea Antonini, Berlino – Immagine di apertura: particolare di una copertina del fumetto tascabile “Il Montatore”, disegnata dal giovane Milo Manara).


Un pensiero su “LANDO BUZZANCA, SPECCHIO DI UNA PROMESSA”
  1. Leggere quello che scrivi per me è sempre affascinante. Mi tornano alla mente tanti oggetti e profumi che in pochi ricordano. La tv in bianco e nero, Mina, il profumo celestiale della cipria Coty, le turiste giovani e bionde che venivano a Milano con i jeans consumati, il Patchouli e gli zoccoli. La Rosticceria Leoni e la mamma che quando andava a consegnare gli abiti all’atelier in via della Spiga, ci comprava le patatine di Leoni e qualche frutto fuori stagione nel negozio di primizie in corso Venezia. Io a bocca aperta dinanzi a questa umanità che non capivo da quale punto della galassia arrivasse…

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