Oggi il fumetto è ancora leggerezza? Un paio d’anni fa ho lavorato a una storia a fumetti, “Dai gas, Liz”, su testo di Francesco Matteuzzi, con scadenza di consegna molto ravvicinata e, di conseguenza, senza pretese di grande qualità. Dovendo lavorare a ritmo piuttosto sostenuto, ho sacrificato ricchezza e complessità del disegno a favore di soluzioni più veloci, cercando tuttavia di garantire al lettore una buona godibilità del prodotto. Ho realizzato, in poco più di un mese, 90 tavole da 4 vignette. Per dare un’idea dei miei tempi abituali per quel genere di disegno, per realizzare un paio di pagine di prova per il mercato francese, tavole da 8-10 vignette, pochi mesi prima ho impiegato forse qualche settimana in più. L’esperienza è stata comunque interessante, e persino piacevole. Ho ritrovato una scioltezza, una leggerezza e un senso di deresponsabilizzazione che forse non avevo provato neppure quando muovevo i primi passi della mia avventura professionale sulle pagine de Le sexy operette e quel numero di pagine (ma con due vignette per tavola) lo realizzavo in dieci giorni. Mentre disegnavo con quello stato d’animo, mi sono anche trovato a riflettere sul modo di fare e fruire i fumetti. Lavorando in modo tutto sommato spensierato a questo libro, ho provato la decisa impressione che, da troppi anni, il fumetto italiano abbia perso la leggerezza e la semplicità che erano state caratteristiche costanti del suo periodo di maggior fortuna. Naturalmente so benissimo che le attuali difficoltà del medium hanno tanti padri e altrettante madri: crisi economica, nascita di nuove e più accattivanti forme di divertimento per le nuove generazioni di “nativi digitali”, abitudine a cercare gratis in rete umorismo, informazione, film, telefilm e narrativa d’ogni genere… eppure non riesco a sottrarmi alla sensazione che la perdita della leggerezza sia una componente altrettanto essenziale dei problemi che attraversa il fumetto. Oltreché l’unica sulla quale gli operatori del settore possono influire direttamente. Quando ero ragazzo in Italia il fumetto veniva considerato un prodotto per bambini e adolescenti di basso livello culturale, così come i fotoromanzi erano letture da casalinghe, domestiche e dattilografe. Così del fumetto non ci si interessava, se non in occasione di qualche periodica campagna di stampa contro quelle sfilze di vignette diseducative che allontanavano i ragazzi dalla lettura dei libri. Ed era una gran bella situazione in cui tutti si sentivano liberi e si divertivano. La stessa esistenza dei realizzatori di quelle vignette era ignota ai più: quanta gente pensava che i fumetti fossero fatti da impiegati in mezzemaniche o addirittura per mezzo di appositi timbri! Quanti lettori, davanti alla dicitura “Text by G. L. Bonelli” nel colonnino del titolo di un episodio di Tex ignoravano semplicemente quella “t” in più e immaginavano che quel peraltro misterioso Bonelli “facesse” Tex, testi, disegni, lettering e magari disegnando copia per copia! E Ferdinando Tacconi che, facendo la denuncia dei redditi, aveva cercato una definizione della propria professione più comprensibile (e forse anche dignitosa?) di “disegnatore di fumetti” scrivendo sui moduli “illustratore”, si era sentito domandare dall’impiegato: “Ma, esattamente, lei cosa lustra?”. Gli autori, condannati quasi sempre all’anonimato, si divertivano a scrivere e disegnare creando storie appassionanti o divertenti buone per tutti muovendosi in un territorio quasi vergine, con la concorrenza di pochi film che non tutti potevano permettersi e una tivù non ancora entrata in tutte le case e comunque limitata a un unico canale che trasmetteva solo dalle cinque del pomeriggio fino alle undici di sera. I lettori, in realtà di tutte le età, potevano godersi il piacere un po’ “carbonaro” di quelle letture scoppiettanti, veloci, appassionanti, colorate o in un più modesto bianco e nero, in tutti i formati (dall’economicissima “striscia” al quadernetto spillato o brossurato, all’album di grande formato, ai veri e propri “giornali” come il Vittorioso, il Corriere dei Piccoli e il Giorno dei Ragazzi). Storie western, gialle, avventurose, di fantascienza, di pirati, di “figli della giungla”, di Giubbe Rosse, realistiche o umoristiche… un intero mondo di fantasia liberamente sfrenata, con il desiderio da parte di editori e autori (certo!) di fare soldi, ma anche con l’incommensurabile piacere di raccontare, inventare, divertirsi per divertire. Con leggerezza. Una leggerezza che era una costante di qualsiasi fumetto realizzato e messo in vendita. Leggerezza perché il pubblico a cui ci si rivolgeva erano i ragazzi, come abbiamo detto, anche se poi tutti sapevano che non mancavano certo i lettori coi capelli bianchi, tanto che un noto settimanale francese dichiarava in copertina di rivolgersi a un pubblico “dai 7 ai 77 anni”. Le storie, anche le più lunghe e complesse, avevano comunque uno svolgimento semplice. E pure i disegni erano semplici, leggeri, comprensibili da chiunque (anche se spesso sceneggiatori che esageravano in prudenza o guidati da un concetto libresco della scrittura, arrivavano addirittura a spiegare in didascalia quello che il disegno mostrava già chiaramente per conto suo – o magari solo per fare “durare di più” giornalini di poche pagine, NdR). Eravamo una generazione ingenua e con pochi strumenti culturali? Sicuramente sì. Eppure quelle storie riuscivano ad appassionare il ragazzino cresciuto in borgata come lo studioso di semiotica Umberto Eco. Dunque, forse, in quella leggerezza riuscivano a passare emozioni e divertimento che la trascendevano. Chiusi dentro lo steccato della semplicità obbligatoria, gli autori riuscivano con il loro estro e grazie al piacere che ricavavano da ciò che facevano ad andare aldilà dei limiti imposti e parlare di tutto e a tutti con gli strumenti che avevano a disposizione. Un Carl Barks, rimanendo dentro il recinto in cui era costretto, riusciva ugualmente a innalzarsi sopra di esso e regalare perle d’invenzione, capolavori di fantasia, personaggi sotto forma animale più veri delle persone in carne e ossa e nei quali era facile ritrovare i nostri vizi e virtù per ridere di noi stessi. Così una EsseGesse, un’accoppiata Bonelli-Galleppini, un E.P. Jacobs e un Peyo. Poi quella semplicità e quella leggerezza si sono perse. Per cominciare, quando qualche editore ha cercato di rivolgersi specificamente a un lettorato adulto. Credo che i primi siano stati Angela Giussani e suo marito Gino Sansoni. Aperte le rispettive case editrici (Astorina e Astoria), la prima arrivò, insieme alla sorella Luciana, giornalista che firmava le pubblicazioni della casa editrice come direttore responsabile, a portare in edicola a fine 1962 Diabolik, rifacimento italico e aggiornato di Fantômas in formato tascabile al prezzo di 150 lire. Pochi mesi dopo Sansoni ne seguì, a modo suo, la strada con un tascabile con minor numero di pagine e prezzo più contenuto. Si trattava di Alboromanzo Vamp che, sulla scia degli allora imperanti fotoromanzi, proponeva storie più “adulte” provando, sia pure con una castità oggi quasi imbarazzante, a trattare argomenti legati alla sensualità se non direttamente al sesso, all’epoca argomento tabù non solo sui fumetti ma in generale nella società repressa e repressiva degli anni cinquanta e dei primissimi sessanta. Il mensile di Sansoni non andò molto lontano, a differenza di Diabolik il cui successo dette la stura alla nascita di tutta una serie di cattivissimi epigoni in calzamaglia che aggiunsero man mano dosi maggiori di crudeltà e sadismo e si spinsero sempre più decisamente sulla strada del voyeurismo. Il fumetto, pur mantenendo comunque per il momento la sua leggerezza e rovesciando non troppo sorprendentemente la situazione precedente, si era fatto adulto (addirittura “vietato ai minori”), ma veniva acquistato soprattutto da ragazzini e adolescenti, complici gli edicolanti che non rispettavano in alcun modo i divieti stampati sulle copertine di quei giornaletti. A far approdare il medium sulle rive della “serietà”, cominciando a fargli perdere leggerezza fu, pochissimi anni dopo, Linus. Nata sotto l’egida culturale di personaggi come il citato Eco, Giovanni Gandini e Oreste Del Buono, l’originale rivista dichiarava a gran voce che il fumetto non era “roba per ragazzi” (né per voyeur, anche se con la Valentina di Crepax non si tirava indietro dal mostrare le grazie femminili stando però ideologicamente “dalla parte delle donne”). E lo dimostrava ospitando strisce umoristiche statunitensi “adulte” (negli Usa le strip pubblicate sui quotidiani fin dall’inizio erano rivolte a un pubblico di maggiorenni). Mentre crescevano le vendite della rivista e finalmente agli autori di fumetti si cominciava a riconoscere dignità artistica e poi autoriale, anche la società stava cambiando. Il ’68 era dietro l’angolo, e la gioventù cominciava ad agitarsi per togliersi di dosso la cappa repressiva e sessuofobica di una struttura patriarcale che non aveva mai neppure fatto seriamente i conti col fascismo da cui si era nominalmente liberata, ma che continuava a vivere nell’ordito delle istituzioni, dalla scuola all’esercito. La “protesta” da una parte sarebbe andata, con successo, verso la liberazione individuale (in primis quella femminile), ben accetta dal crescente consumismo che ne aveva bisogno per dare impulso alla creazione di sempre nuovi “bisogni” nella popolazione e così drenarne l’accresciuta capacità di spesa creata dal “boom” economico degli anni cinquanta e sessanta, e dall’altra sarebbe precipitata, in modo tragico, nei tentativi di manipolazione “rivoluzionaria” di gruppi politici che spingevano verso opposti e mortiferi estremismi. Il fumetto, da sempre spia sensibile dei mutamenti sociali, aveva accompagnato questa “presa di consapevolezza” di sé. Anche il fumetto “popolare” iniziò a sdoganarsi dalle formule narrative più semplicistiche che l’avevano accompagnato fin lì. Sulle pagine di Tex, ai ranch che somigliavano tanto ai casali della Toscana che Aurelio Galleppini vedeva dalle finestre di casa, cominciarono a sostituirsi le architetture originali in legno dell’Ovest americano, e alle “pistole giocattolo” le effettive colt 45 usate da cow boy e pistoleri. Pure i testi prendevano sempre più atto della realtà storica inserendola, eventi e personaggi, nelle vicende dell’ormai vendutissimo ranger che si trovava così a incontrare Buffalo Bill e partecipare alla Guerra Civile (all’inizio delle sue avventure appena accennata). A portare a compimento l’operazione sono state due collane “parallele” nate nella stessa redazione che mandava ogni mese in edicola Tex. L’editrice Tea Bonelli, ormai affiancata e poi sostituita dal figlio Sergio, stava cavalcando con successo un cambiamento avvenuto nel pubblico: l’accresciuta possibilità di spesa stava infatti facendo spostare i lettori dagli economici albetti “a striscia” da 20 lire che ospitavano i Tex, gli Zagor, i Piccoli Ranger e i Ragazzi nel Far West, alle “raccolte” in corposi e più costosi volumetti da 200 lire. L’editore milanese fu il più pronto e abile ad assecondare il fenomeno, chiudendo le sempre meno redditizie pubblicazioni a striscia e facendo continuare direttamente nel formato libretto le storie inedite iniziate nelle prime. Forte delle centinaia di migliaia di copie vendute mensilmente da Tex, Bonelli poteva permettersi di aggiungere al proprio catalogo nuove serie come il Comandante Mark (1966) e, poi, Mister No (1975) e Martin Mystère (1982). E le due collane di cui dicevamo: nel 1967 la Storia del West ideata (inizialmente anch’essa per il formato a striscia) da Gino D’Antonio e Renzo Calegari, e nel 1973 I protagonisti scritta e disegnata da Rino Albertarelli. La prima racconta, in forma romanzata e con i moduli narrativi dei grandi film western statunitensi, le vicende della “conquista” dell’Ovest nordamericano attraverso quelle di due famiglie, i MacDonald e gli Adams; la seconda ricostruisce con esattezza storica le biografie di grandi personaggi dell’epopea western, da Custer a Geronimo, da Billy the Kid a Toro Seduto, da Wyatt Earp a Wild Bill Hickok. Dopo di esse non sarà più possibile raccontare il West nel modo fantasioso e approssimativo fin lì tranquillamente utilizzato nei vari Capitan Miki e Pecos Bill. Un personaggio come Zagor, per certi versi collocabile nel 1830 ma che vede l’uso di armi di quaranta o cinquant’anni più tardi e la presenza di cavalleggeri con divise della seconda metà dell’Ottocento, dovrà fare i salti mortali e chiedere al lettore grandi sforzi di “sospensione dell’incredulità” per non apparire assurdo. Sceneggiatori e disegnatori, a cui arrivano finalmente i dovuti riconoscimenti artistici e la garanzia professionale di più o meno onesti contratti che iniziano a diventare norma in un settore fino a quel momento assolutamente privo di regole, hanno cominciato intanto a produrre opere “personali” e fatto nascere il fenomeno delle “riviste d’Autore” accompagnato dalla creazione di case editrici autogestite. Le francesi Les Humanoïdes Associés (1974) e molto più tardi L’Association (1990), e la statunitense Image (1992) hanno più fortuna di analoghi tentativi esperiti in tempi purtroppo non ancora maturi come quelli del gruppo di autori (Porciani, Faustinelli, Canale, Paludetti, Cossio, Marchesi, Muzzi e Tuis) che mise in edicola Kolosso (1964) o della EsseGesse che si improvvisò editrice di Alan Mistero con la Sisag (1965). Nel frattempo, sempre in casa Bonelli, Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo nel 1977 alzano ancora un po’ l’asticella dei moduli narrativi. Coppia artisticamente affiatatissima, essi sposano decisamente una narrazione “cinematografica” che è nelle corde di entrambi, posizionandosi, dal western anni 40-60 di D’Antonio, su quello più problematico degli anni settanta e, prendendo atto dell’avvenuta maturazione del lettore ormai istruito da centinaia di film visti su schermo grande e piccolo, eliminano ogni genere di didascalia. In questo modo realizzano un bellissimo fumetto, ma lasciano agli autori che li seguiranno una “regola” che, quasi sempre malintesa, li porterà a un affannoso quanto vano inseguimento del modello cinematografico. Per di più, anche loro portano acqua al mulino di una filosofia editoriale che guarda sempre più al lettore adulto che ai ragazzini, costretti a ritirarsi nelle “riserve indiane” di Topolino (anch’esso non immune dal fenomeno, come dirò più avanti), de il Giornalino e pochissime altre pubblicazioni. Con Dylan Dog (1986) la perdita della leggerezza compie un altro passo. La personalità del creatore, se da un lato compie il miracolo di riportare torme di adolescenti alla lettura del fumetto e ingenti introiti nelle casse dell’editore, dall’altro instaura una modalità narrativa, quella della “citazione”, che da complice e divertente strizzata d’occhio al lettore diventa rapidamente insopportabile vezzo “parlarsi tra addetti ai lavori” che allontana l’acquirente occasionale e, spingendo sul pedale della maturità quantomeno di lettura, ma inevitabilmente anche anagrafica, taglia definitivamente fuori, insieme alla leggerezza, i ragazzini. Anche i disegni, non solo degli albi bonelliani, hanno perduto ormai quasi del tutto ogni leggerezza: sempre più “perfetti”, “maturi”, “ricchi” quando non addirittura “artistici”, sono sempre più difficili da decodificare per un lettore non abituale e non abituato. È forse per cercare di conservare (o recuperare) quella leggerezza e semplicità in rapido sgretolamento intorno a sé che all’inizio degli anni novanta Sergio Bonelli impone sulle sue pubblicazioni codici figurativi e narrativi che ad alcuni appaiono come un tentativo di “restaurazione”? Dicevamo di Topolino che, pur rivolgendosi in teoria a un pubblico infantile, è da tempo approdato anch’esso alla scelta di conservarsi la fetta di pubblico fedele e, in quanto tale, per forza di cose maturo. Il numero 3179 del settimanale è, in questo senso, paradigmatico. La prima delle quattro storie principali, “Zio Paperone in… un cosplayer di troppo”, è un perfetto esempio di racconto “tra addetti ai lavori”. Ambientato nella città di Lucca in occasione del “Comics and Games”, è un continuo strizzare l’occhio a chi dei fumetti conosce tutto, al punto da mettere in scena anche gli stessi autori del giornaletto. Non lo è da meno la terza, “Ciccio Never agente speciale Salsa” che “festeggia” i 25 anni del character bonelliano Nathan Never e costringe la redazione (come per le altre storie) a noiose spiegazioni redazionali per evitare che il lettore più giovane resti perplesso davanti a citazioni a lui del tutto estranee. La quarta storia, “Duckenstein”, è invece la plateale dimostrazione di come anche su una pubblicazione per ragazzi si tenda ormai a privilegiare (o comunque si accettino tranquillamente) un testo quasi “adulto” e un segno complesso che, seppure molto bello, elegante e di grande forza come quello di Fabio Celoni (è un caso che sia anche autore dylandogghiano?), non è certo facilmente decodificabile da una bambino di sette o otto anni. Basta osservare la seconda vignetta di pagina 106 per rendersi conto della difficoltà di “lettura” di un disegno del genere. E dunque, che fine ha fatto la leggerezza che accoglieva un tempo i ragazzini sulle pagine dei fumetti e li spingeva a tornarci numero dopo numero? Se vogliamo restare al citato numero di Topolino, forse ne resta una residua traccia nella seconda storia, “Topolino e la spada di ghiacciolo” che pure cita, riprende e continua una “vecchia” storia quantomeno apparsa sullo stesso settimanale. E, di nuovo, probabilmente non è un caso se l’autore dei testi è un assoluto outsider come Simone “Sio” Albrigi, assoldato precipitosamente dopo aver riscontrato la sua facilità di comunicazione (in rete come in edicola e libreria) con quel pubblico infantile verso il quale la testata disneyana sembra invece avere da tempo smarrito gran parte della sua iniziale capacità di dialogo. Non stupisce a questo punto che le uniche eccezioni in un trend che vede i lettori più giovani volgere le spalle ogni anno in maggior numero al fumetto come linguaggio e occasione di svago, siano prettamente umoristici: il silveriano Lupo Alberto nato (guarda caso sulle pagine del Corriere dei Ragazzi) nel 1974 ma diventato titolare di un fortunato mensile nell’insolito formato orizzontale nel 1985; Rat-Man di Leo Ortolani, autoprodotto dal 1995 per il circuito delle fumetterie e poi portato al successo in edicola da Panini nel 1997; Scottecs del succitato Sio che, dopo essersi costruito uno sterminato seguito di divertiti lettori in rete (su YouTube ha superato il milione di follower), è riuscito a trascinarne migliaia in libreria e fumetteria con i volumi editi da Shockdom e ha esordito col botto in edicola nel 2015 vendendo 50mila copie del primo numero della rivistina intestata al personaggio. Sarà perché l’umorismo, per sua natura, deve essere “semplice” nel testo come nel disegno potendo oscillare al massimo dai curati disegni di Silver a quelli più che essenziali di Sio, e dunque facilmente comprensibile anche dal lettore più giovane e inesperto? Sarà perché, così, deve giocoforza conservare quella leggerezza andata quasi del tutto perduta negli altri generi narrativi? Lascio la risposta (e l’allargamento del discorso alle produzioni fumettistiche di altri paesi) agli studiosi del settore capaci più di me di analizzare la tematica e individuare soluzioni ai problemi qui esposti nell’interesse di tutti gli operatori. E dei lettori più giovani che nel fumetto possono ancora trovare una fonte di svago e di crescita, se sapremo recuperare (con la leggerezza che un tempo lo caratterizzava) la capacità di comunicare con loro. (Per gentile concessione di Fumo di China) Navigazione articoli BOTTEGO A FUMETTI, L’ESPLORATORE UCCISO COME CUSTER FUMETTISTI: DA ANONIMI A ROCKSTAR
Guido Martina(attivo dal 48 al 83) su Topolino scriveva storie tutt’altro che per bambini(Zip paperone e la campagna elettorale ,zio paperone e il benemerito del lavoro, l’inferno di topolino) sono storie difficili per chi a meno di 13 anni. Il tex maturo dal 100 al 300 numero è migliore di quello degli inizi. Il problema dei fumetti di oggi è che sono buonisti in modo unilaterale. E li rende falsi e noiosi. Neri gay mussulmani sono i buoni gli altri i cattivi. Dovrebbero tornare a essere grigi. Rispondi
non capisco perchè valentina dovrebbe piacere alle donne è talmente debole che deve farsi salvare in continuazione, mezza drogata, è un troione, nelle sue storie non combina nulla e spesso non ci capisce pure nulla………….dovrebbe essere l’antitesi di quello che piace alle donne Rispondi
Concordo sui fumetti bonelli che sono diventati tristi, basta vedere le copertine di Cavenago su Dylan Dog, lo ritrae sempre triste e depresso oppure Mercurio Loi, un’episodio si intitola L’infelice un nome un programma. Rispondi
Altro articolo interessante. Secondo me, al giorno d’oggi non ci si sa più divertire, le storie vengono sottoposte a critiche non sempre equidistanti, e non distanti dal “cercare il pelo nell’uovo”, e per i fumetti del passato non ne parliamo, si pratica la caccia alla “storie ingenue degli anni settanta” e precedenti. E si criticano pure le edizioni, tranne quelle di lusso. Alla fine, non si possono più fare i fumetti per bambini. umoristici, tascabili, lo spillato stile Corno, la rivista antologica … E la seriosità imposta anche dal cinema porta con sè, una volta che si può fare quello che prima non si poteva fare, anche la violenza come scorciatoia per tutto, ed una parte del pubblico finisce per allontanarsi dal fumetto o non avvicinarvisi. Rispondi
Bell’articolo, complimenti. Detto che la leggerezza si è persa, bisogna chiedersi se sia possibile recuperarla. Da lettore della Silver Age (primi settanta/oggi) mi accorgo che le cose sono cambiate. I ragazzi non leggono perché sono passati dai videogames ai social, forse con punte di inebetimento (leggere Tex o Zagor una volta al mese non poteva arrecare danni; fotografare ogni momento della vita mi sembra già di per sé sbagliato). Ma se leggessero si appassionerebbero ancora al giovane Peter Parker o alle storie di Carl Barks? Non dopo aver visto serie di ogni tipo su Netflix e Prime. Riproporre storie su quello stile, leggere, forse un po’ ingenue, improntate a modeli di comportamento oggi ribaltati, forse (forse) troverebbe lettori solo tra noi cinquantenni, tanto per vedere. Forse c’è spazio per un mix: storie attuali, linguaggio tradizionale (non ortodosso ma neppure legato al momento), ispirazioni a sentimenti universali che ridiano anche fiducia, e riportino a qualcosa che non è che non esista più, ma forse è stata troppo sopita da mode trasgressive e/o estemporanee, rispondendo a un certo tipo di lettore in un momento storico anche breve. Insomma: contenuti ispirati, bei disegni, un ritorno moderato alla didascalia che appartiene a questo linguaggio, una passione non autoreferenziale, il tutto rivolto a un lettore sì evoluto ma non necessariamente attempato, perché i ragazzi di oggi sono già più evoluti dei decenni che eravamo noi. Rispondi
Caro Marcello, siamo cambiati “noi”: a 12 anni vidi il film “Lo squalo” e quasi me la feci sotto dalla paura; l’ho fatto vedere a mia nipote di 12 anni e rideva… Rispondi