Quindi, Joker: Folie à Deux è un flop. Certo (per il momento) non un floppone di quelli proprio pesanti tipo The Marvels o Flash, questo no. Intanto, ad arrivare al secondo weekend in sala con quei poco più di 40 milioni d’incasso sul mercato interno e giusto un’ottantina raccolti a livello internazionale non è che ci si può mettere lì a stappare le bottiglie buone.

Anzi, per un film da 200 milioni – si tratta solo delle spese di produzione, eh – che apre con un incasso addirittura al di sotto delle aspettative più negative (le proiezioni al ribasso calcolavano un incasso fra 50 e 60 milioni) ci sarebbe da cominciare a preparare garze e bende, perché la mazzata in fronte è bella forte e difficilmente migliorerà. 

Lo scenario, poi, diventa ancor più tragico se uno considera che nel 2019, per Joker, di milioni ne avevano spesi poco più di 50, guadagnandone quasi 100 nel weekend d’apertura. Alla fine della fiera, com’era ampiamente prevedibile, Joker: Folie à Deux è l’esempio lampante di come nella cinematografia si debba correre dietro al vento: un film patologicamente non necessario, dove tutto ciò che potevano sbagliare l’hanno sbagliato.

 


Il problema comune al 98% dei sequel sta nel fatto che si tratta semplicemente di un modo per sfruttare il successo dell’idea originale, senza aggiungere nulla di veramente nuovo o interessante. Di conseguenza il risultato è quasi sempre un prodotto che manca sia di cuore sia di creatività. In questo senso, Joker: Folie à Deux non fa eccezione. 

Detta veloce-veloce alla bruttazza, l’arco di trasformazione del personaggio è una delle parti fondamentali di una trama, perché consente al pubblico di connettersi emotivamente con la storia. Attraverso le esperienze e il cambiamento del protagonista, lo spettatore vede riflessa una lotta personale o un viaggio di crescita, in grado di rendere la storia più avvincente o significativa.

 


In altre parole, il o i personaggi di una storia devono partire in un modo da Punto A, nel frattempo perdere o guadagnare qualcosa passando da Punto B, così da finire con il trovarsi in un altro modo arrivati a Punto C. Questo è il cosiddetto “Viaggio dell’eroe”. Ovviamente esistono diversi punti chiave da rispettare: tipo la “disfunzione”; cioè il personaggio intrappolato in un ciclo di comportamenti che gli impediscono di raggiungere i propri obiettivi.

Poi c’è “l’incitamento”, ovvero qualcosa o qualcuno incita il personaggio a cercare un cambiamento. Poi, ancora, la “resistenza”, dove il personaggio resiste al cambiamento, spesso a causa della paura o dell’insicurezza e così via. Questa trasformazione rappresenta il cambiamento emotivo, psicologico o morale che il personaggio subisce dall’inizio alla fine della trama.

Naturalmente non tutti i personaggi seguono lo stesso tipo di arco di trasformazione e fra gli archetipi più comuni ci sono: l’Arco Positivo, dove il personaggio cambia in meglio, superando le proprie debolezze così da raggiungere un nuovo livello di comprensione o capacità. L’Arco Negativo, dove, viceversa, il personaggio subisce una trasformazione distruttiva, cadendo preda dei propri difetti e debolezze. Infine, l’Arco Statico: il personaggio rimane essenzialmente lo stesso durante la storia, mentre il mondo o i personaggi intorno a lui cambiano.

 


Ora, se questo avviene in tutte le storie, in tutti i film, perché la stragrande maggioranza dei sequel fallisce miseramente? Perché partono tutti dallo stesso assunto: l’assoluta certezza di produttori, sceneggiatori e registi che il pubblico voglia vedere, alla lettera, sempre le stesse cose. Convinti che in testa o magari in culo, chissà, lo spettatore abbia tipo una specie di pulsante reset: lo premi e puff! Per magia ci si dimentica tutto. Come se nulla fosse mai successo.

Ecco, metti che tutta ‘sta bella pappardella non è per lo sfizio di allungare il brodo. Serve solo a sottolineare in modo inequivocabilmente chiaro il punto della situazione: uno dei più grossi problemi di Joker: Folie à Deux è lo stesso che accomuna quasi ogni sequel. Anziché partire dalla trasformazione di Arthur Fleck culminata nel finale del primo Joker, sceglie semplicemente di premere il pulsante e resettare tutto quanto. 

La catarsi raggiunta nel climax del film precedente, dove Arthur abbraccia pienamente la sua identità di Joker, avrebbe dovuto aprire nuove strade narrative. In base a questo, una delle domande, per esempio, a cui questo seguito avrebbe dovuto rispondere è: ora che Arthur è diventato il Joker, come e in che modo riesce a scalare i vertici della criminalità di Gotham City?

 


Oppure, se il primo Joker era essenzialmente una storia delle origini, dove siamo ora? Come e in che modo si è evoluto il suo rapporto con i Wayne e il giovane Bruce? Perché non ci sono Batman e Robin? In quale universo si trova? Ecco, invece di rispondere a una qualsiasi domanda relativa al mondo e al contesto di cui fa parte, Joker: Folie à Deux sceglie semplicemente di riproporre le stesse dinamiche di alienazione e isolamento, ignorando comodamente tutto il resto, compresi i progressi fatti dal protagonista. 

Per quanto a tratti possa essere banale e fondamentalmente una combinazione di Travis Bickle di Taxi Driver e Rupert Pupkin di Re per una notte, Arthur Fleck attraversa un arco di trasformazione ben definito, passando dall’essere un uomo emarginato, mentalmente instabile e sconfitto, a diventare una figura di ribellione e caos. Un viaggio emotivo e psicologico che culmina nel momento in cui Arthur si accetta come Joker, abbandonando la sua identità precedente.

In Joker: Folie à Deux, ora che Todd Phillips ha esaurito i film di Scorsese da copiare, pare non abbia la più pallida idea di dove andare a parare. Veniamo reintrodotti a un personaggio che affronta gli stessi conflitti interiori e gli stessi traumi, come se la sua trasformazione precedente non fosse mai avvenuta. Invece di esplorare nuove dimensioni del personaggio, uno si trova di nuovo di fronte al medesimo viaggio, privando il sequel di qualsiasi freschezza o innovazione narrativa.

 


Il grande punto di svolta in Joker: Folie à Deux è che adesso Arthur è incarcerato nell’Arkham Asylum in attesa del processo. Nel frattempo, la sua guardia lo iscrive al corso di musicoterapia dove incontra un’altra detenuta, Lee Quinzel – cioè Lady Gaga, cioè la nuova Harley Queen –, che a quanto pare è super-pazza-fanatica del Joker. Non è un personaggio che avrebbe potuto rappresentare una svolta significativa in termini narrativi, bensì è solo estremamente mal scritto.

L’alchimia disfunzionale e violenta che caratterizza storicamente il rapporto tra Joker e Harley, basata su un mix di attrazione, manipolazione e follia condivisa, qui sembra sostituirsi con una dinamica strana e poco coerente. Invece di costruire una relazione che evolva in modo organico, il film presenta una serie di interazioni slegate e poco incisive, quasi come se i due personaggi non fossero mai davvero “sullo stesso piano”. Soprattutto nel finale.

Questo difetto mina quello che dovrebbe essere l’aspetto più importante del film, poiché la relazione tra i due avrebbe dovuto rappresentare il cuore emotivo e psicologico della storia. Senza un legame convincente tra Joker e Harley, il film perde una grande opportunità per esplorare davvero la “folie à deux”, cioè il concetto di follia condivisa che dovrebbe essere centrale nella storia.

 


Ciò che sappiamo è che si innamorano. Forse. Su carta, i numeri musical dovrebbero rappresentare appunto questa “Folie à Deux”, oltre essere una giustapposizione dei voli pindarici di Arthur in Joker. In realtà, se i viaggi di fantasia che si faceva Arthur avevano un senso in termini sia di costruzione del personaggio che narrativi in sé, qua ‘sta roba cade letteralmente a piombo: parti di altri film attaccati con lo sputo che non sembrano manco avere grandi idee dietro.

Le canzoni, punto focale di questa produzione, dovrebbero far andare avanti la trama; ma no, non lo fanno. In realtà niente fa mai andare veramente avanti la trama. A un certo punto, al processo – non per determinare la colpevolezza o l’innocenza, ma solo se Arthur merita la pena di morte – si presenta un esercito di sostenitori del Joker e qui, per qualche minuto, sembra che il film stia sul serio provando a dire qualcosa. A sollevare una domanda.

Perché sei dalla parte di un pazzo? Perché provi a difendere uno che non si fa scrupoli ad ammazzare gente, colpevole solo di “averlo ignorato”? Questa sarebbe la parte intrigante: come cambierebbero le dinamiche stesse del film, se per estensione metà contestuale rivolgesse queste domande al pubblico? Tipo, perché vai alle proiezioni truccato da Joker?

 


Ecco, sì, questo sarebbe intrigante se: A) Todd Phillips o Scott Silver, il co-sceneggiatore di ‘sto Joker: Folie à Deux, se ne accorgessero provando a spingere in questa direzione, B) provassero a rispondere, o almeno ad affrontare in qualche modo, una sola delle questioni relative alla nuova natura di Arthur come Joker e come si adatti al nuovo status quo che ha contribuito a creare alla fine del primo film. Oltre al mondo di cui, ancora, il personaggio dovrebbe far parte. 

Al contrario, Joker: Folie à Deux è un film fatto solo in virtù del miliardo e passa incassato dal suo predecessore. Incomprensibilmente pretenzioso, invece di mostrare profondità o almeno un minino di autoconsapevolezza, ci ripresenta un Arthur intrappolato negli stessi conflitti mentre, nel frattempo, maschera con balletti e canzoncine una trama scritta con il pennarellone che non va da nessuna parte, rendendolo una strana copia sbiadita del primo film.

 

Ebbene, detto questo anche per oggi è tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.

 

(Da Il sotterraneo del Retronauta).

 

Un pensiero su “IN JOKER: FOLIE À DEUX SONO FINITE LE IDEE DI SCORSESE”

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