Il mondo ha provato a farmi sentire inferiore, ma non c’è riuscito. È riuscito a rendermi più guardinga, più attenta. In tutta la mia vita mai nessuna donna mi ha detto chiaramente: “Mio marito, il mio compagno, il mio fidanzato, mio fratello, mio padre, mi picchia”. Eppure ero certa che alcune venissero picchiate da un parente. Lo proclamavano a gran voce gli occhi pesti, i lividi, gli sguardi sfuggenti, colpevoli. Una mia parente, che chiamerò Maria, aveva sposato contro il parere del padre, che si era addirittura inginocchiato davanti a lei per scongiurarla di lasciar perdere, un uomo che fin da ragazzo aveva dato prova di essere violento. Le ero molto affezionata e dubitavo che il marito avesse perso il vizio. Pensavo che la picchiasse. Così mi feci coraggio e le chiesi: “Ma è stato lui? Ti ha fatto ruzzolare le scale?”. “Ma no, assolutamente. Avevo una borsa di nylon piena e per riuscire a portarla ho attorcigliato il manico intorno al polso. Così il braccio ha ceduto e sono caduta con tutta la spesa e mi sono rotta i due femori”. Avevo notato che quando Maria mentiva non dava una versione semplice ma si perdeva in mille spiegazioni precise e complesse nel tentativo di rendere plausibile il racconto. Così pensai: “Sta mentendo. L’ha picchiata, la picchia”. Ma non osavo insistere. Già si era chiusa a riccio. Solo anni dopo, quando, per le conseguenze riportate da quel capitombolo, aveva dovuto lasciare il domicilio coniugale e andare a vivere da sola in un appartamento con ascensore (non poteva più salire le scale e la casa coniugale non aveva ascensore) mi confessò senza tanti giri di parole: “Mi ha fatto ruzzolare le scale e mi ha spaccato i due femori”. A proposito di botte A proposito di botte vi racconto uno dei miei più antichi ricordi. Fuggivo salendo lungo la strada scoscesa, ero piccola e facevo fatica. Dovevo superare le zolle umide della strada sterrata. Mio padre era alle mie calcagna, ansimava cercando di raggiungermi. “Fermati, ti ho detto di fermarti! Vieni qua. Fatti prendere”. Piangevo, le lacrime mi scendevano dal viso e colavano lungo il naso per terra. Mio padre mi rincorreva con un vincastro in mano che agitava. Lo sentivo fendere l’aria. “Swich, swich…”. Ero terrorizzata: il cuore mi batteva forte. Pensavo che, se mi avesse raggiunta, mi avrebbe ucciso qualsiasi cosa significasse uccidere. Mi aveva detto che quel giorno mi avrebbe portato via dalla mia nonna con cui vivevo. Non volevo lasciare la mia nonna perché conoscevo solo lei. Non ricordo i colpi del ramo di salice sulle gambe. Non so neanche se ci furono o se qualcuno venne in mio soccorso. Ho solo il ricordo di mio padre furibondo perché non volevo obbedire e mi opponevo apertamente alla sua autorità. Un lampo mi passò nella testa: “Dunque è un uomo così. Non lo devo mai contrariare. È pericoloso”. Avrò avuto tre o quattro anni. Credo che in quell’occasione imparai a diventare guardinga, a non dire subito quello che sentivo, a sondare in terreno. Tenete presente che fino a quel giorno mio padre era contentissimo che stessi con la nonna e si aspettava che ci stessi volentieri e non facessi capricci. Una bambina ai miei tempi Giustificare il carnefice Adesso io dovrei procedere con le mie argomentazioni, ma tutta me stessa vuole che io scriva immediatamente che mio padre era un uomo meraviglioso, che in seguito non mi ha mai più picchiato, né minacciato di picchiarmi (non ne ha più avuto bisogno perché avevo imparato la lezione). Inoltre una parte di me ha passato anni a cercar di capire se mio padre avesse visto qualcosa, qualche pericolo che io correvo lì da mia nonna che giustificasse o almeno spiegasse il suo comportamento. Se questi sono i meccanismi che si innescano quando le donne subiscono violenza fisica o verbale da uomini che siano i padri o i fratelli o i fidanzati o i mariti, allora siamo panate. Altro che denunciare! I miei sforzi erano tutti volti a giustificare e a capire mio padre. Per me il suo amore era troppo importante. Mia madre la sentivo fredda, distaccata, anaffettiva con me. Era molto affettuosa con mio fratello maggiore che era il suo preferito. Non so se fossi gelosa di mio fratello e avessi la convinzione che mia madre non mi amasse per quel motivo o fosse davvero così. Scuola privata Una classe femminile Un anno mio fratello era rimasto bocciato a scuola, cosa che, all’epoca, era abbastanza usuale. Erano gli anni in cui anche i figli dei commercianti cominciavano a studiare, ma non era facile. Fino ad allora la scuola era riservata ai figli dei funzionari, ai figli dei borghesi. Mio padre e mia madre lo mandarono in una scuola privata a pagamento per recuperare un anno. Non so se poi lo avesse effettivamente recuperato. Gli volevo bene ed era molto malato. Minacce Mi minacciava. Mio padre mi diceva: “Bada bene! Se resti rimandata, anche solo rimandata, vieni ad aiutare in negozio e non andrai più a scuola”. Non so se mi dicesse queste cose per incitarmi a studiare o se fosse vero. Preferivo non rischiare, non metterlo alla prova perché credevo a quello che diceva. Per non essere mai rimandate ci voleva anche una buona dose di fortuna. Non era sufficiente essere intelligenti e studiose, ci voleva fortuna. La minaccia mi mandava ai matti perché non essere rimandate non dipendeva solo da me, dalla mia buona volontà. Era una gara truccata che dipendeva anche dall’imponderabile, dalla fortuna. Mio fratello l’avevano mandato in una scuola privata per recuperare un anno perso. Perché era maschio? Perché era stato malato? Io ero propensa a credere che fosse successo perché era un maschio e consideravano lo studio molto più importante per lui che per me. Per me minacciavano che non ci sarebbe stata una seconda prova. Io non volevo finire in negozio a lavorare gratis per i maschi di casa come facevano le mie zie. Quindi avevo deciso che avrei studiato e udite, udite, mi sarei laureata, qualsiasi sacrificio comportasse. Vi garantisco che quando mi ero prefissa quello scopo era un proposito folle assolutamente fuori dalla mia portata, nelle condizioni in cui mi trovavo. Quindi quel trattamento non mi aveva resa conscia di essere inferiore, ma conscia di essere considerata e trattata come inferiore e quindi, a causa del mio carattere, più combattiva. Sicuramente se avessi avuto un carattere debole e fossi stata remissiva non avrei reagito così. Le mie compagne non pensavano a laurearsi ma a trovare un fidanzato con cui avere una storia romantica. L’aspirazione collettiva era il vero amore, qualsiasi cosa fosse, ed erano disposte a tutto per arrivare a questo mitico vero amore. Non avevano esempi in casa. Era il cinema il produttore di favole romantiche. “Il visone sulla pelle” (1962) con Doris Day e Gary Grant Erano gli anni dei film con Doris Day, che andavamo a vedere e rivedere. Ricordo una mia compagna, molto carina, che dichiarò che lei si sarebbe alzata tutte le mattine prima del marito per truccarsi in modo che il marito la vedesse sempre al meglio. Confesso che le scoppiai a ridere in faccia. Potevo essere molto indisponente. L’esame di ammissione Il primo scoglio da superare era stato l’esame di ammissione. Per poter fare le scuole superiori, che davano la possibilità di andare all’università, bisognava fare le medie e ci voleva l’esame di ammissione. Non ricordo come feci a dirlo ai miei. Non era possibile prepararsi per un esame di ammissione da sole. Mia madre trovò una vicina nel condominio dove abitavamo che preparava gli studenti all’esame di ammissione. Pagò le lezioni con mio grande stupore. I soldi venivano da mio padre, ovvio, ma mia madre non era contraria. Anzi, mi raccontò che lei non aveva potuto studiare come avrebbe voluto benché la sua insegnante avesse detto che avrebbe potuto studiare perché ne aveva le capacità. Avevo un’alleata? Fino a quando non doveva scontrarsi con mio padre mi avrebbe appoggiato. La questione economica La questione economica era fondamentale. Se non si aveva l’indipendenza economica, e spesso le donne non l’avevano, si dipendeva economicamente dal marito ed era difficile, quasi impossibile, non dico separarsi ma far valere la propria volontà ad esempio nell’educazione dei figli. Poi, magari, anche se si era indipendenti economicamente si poteva essere succubi, però se non si era indipendenti economicamente non si cominciava neanche a essere libere. Devo dire la verità, glielo devo riconoscere, mia madre me lo aveva insegnato fin da bambina: “Mi raccomando, lavora. Sii indipendente. Non farti mantenere perché se tuo marito ti mantiene allora ti comanda”. Salvare Maria A mio padre quella Maria alla quale il marito aveva spezzato i femori faceva pena. Aveva quattro figli e faceva dei lavori in nero come donna delle pulizie. Mio padre le disse: “Prenditi una licenza da vendere in piazza a nome di tuo padre come coltivatore diretto (il padre coltivava una cascina), così puoi dare da mangiare ai tuoi figli e renderti indipendente. Noi, per quello che possiamo, siamo disposti ad aiutarti.” Maria sapeva che mio padre non millantava. Lei biascicò qualcosa di incomprensibile che io interpretai come una frase del tipo: “Una moglie deve stare a casa a curare i figli”. All’epoca le donne potevano trovare lavoro come operaie, come dipendenti. Torino era piena di boite dell’indotto Fiat, i negozi assumevano commesse, le fabbriche assumevano operaie, compresa la Fiat. Però c’erano donne per le quali lavorare in fabbrica era una cosa vergognosa. In teoria un buon marito avrebbe dovuto mantenere la moglie, che doveva stare a casa a curare i figli. Dato che non era possibile, soprattutto se i figli erano più di due, queste donne lavoravano di nascosto in nero. Facevano le donne di servizio, pulivano le scale dei palazzi, andavano a raccogliere gli ortaggi nelle serre e dicevano che le manteneva il marito, che non lavoravano fuori casa. Dato che mia madre aveva lavorato in fabbrica, io pensavo che lavorare in fabbrica con i libretti fosse un comportamento moderno. Ritenevo tutti i comportamenti diversi atteggiamenti antichi, sorpassati sintomo di una mentalità vecchia, superata. Poiché spesso i mariti che picchiavano preferivano che le mogli non avessero un lavoro regolare fuori casa, soprattutto che non frequentassero luoghi di aggregazione come la fabbrica, mi ero convinta che i mariti che picchiavano fossero portatori di una mentalità antica, sorpassata e che più saremmo andati avanti più quel tipo di mentalità e di comportamento sarebbero scomparsi in automatico senza che ci dovessimo lavorare. Simone Weil e il lavoro in fabbrica Per capire quanto fosse disprezzato il lavoro in fabbrica per le donne in ambienti che aspiravano a diventare o ad apparire borghesi, basta leggersi la vicenda umana della scrittrice francese Simone Weil. Dal 1934 al 1935 Simone Weil andò a lavorare in fabbrica come operaia, abbandonando il suo lavoro da insegnante. Desiderava condividere sulla propria pelle la vita delle operaie francesi per capire che cosa significasse essere operaie in Francia in quegli anni e in quel momento storico. I suoi genitori erano preoccupatissimi e cercarono di distoglierla dai suoi propositi. Sapevano che era molto delicata, spesso malata, afflitta da tremendi mal di testa, maldestra e impacciata. Si faceva male sovente e subiva degli infortuni sul lavoro. La grande fabbrica era organizzata militarmente. Il comportamento di Simone Weil venne considerato “strano” e lei venne chiamata da un direttore universitario: “Vergine rossa”. per essere una militante di sinistra. La modernità Comunque mi ero sbagliata. La modernità non è di per sé stessa più egalitaria. I giovani di oggi non sono più civili rispetto ai giovani del passato. La storia mi aveva insegnato che il futuro non è sempre una strada più larga, ma non lo avevo imparato. Mai avrei pensato di sentire, nella mia vecchiaia, cantare, fra folle osannanti, quello che canta Tony Effe: Lei la comando con un joystick (Uoh) Non mi piace quando parla troppo (Troppo) Le tappo la bocca e me la fott–, shh (Seh)» (…) «Bionda, mi piace quando è italiana Mora, se è sudamericana Rossa, bella e maleducata Basta che a letto fa la brava». Nel più recente album «Icon» c’è il brano «Miu Miu»: «Prendo una bitch, diventa principessa Le ho messo un culo nuovo, le ho comprato una sesta (…) Arriva Tony, inizia il party Volano schiaffi e reggiseni da ogni parte Con una sola botta faccio due gemelli (…) Copro la mia pu**ana di gioielli Ma non sei la mia tipa, quindi niente anelli». Quello che mi colpisce non è tanto quello che scrive (ci sono sempre state le persone che la pensano diversamente e coloro che adorano passare per quelli che la pensano in modo diverso), ma sono le folle osannanti. Perché una donna dovrebbe ammirare Tony Effe, che pare porsi come un sessista che esalta la brutalità e la presunta superiorità dell’uomo? Le sue ammiratrici sono plagiate da lui oppure vogliono fare le spavalde e mostrare che non temono chi le tratta male? Vogliono umiliare le donne come se loro non facessero parte della categoria? Non so rispondere. Spiegatemelo voi. Navigazione articoli LA MOGLIE TRADIVA IL DOTTOR CRIPPEN DAVANTI A TUTTI