Il banco ottico è parente stretto delle prime fotocamere di inizio Ottocento, scatole cubiche attraversate dai raggi di luce che entrando per un foro detto stenopeico o un obiettivo elementare andavano a colpire una pellicola di vetro di grande formato: il fotografo toglieva un tappo di fronte alla lente e esponeva per minuti sperando che i soggetti umani non si muovessero troppo.Quelle scatole si sono poi via via arricchite di lenti perfezionate e con diaframma regolabile, di otturatore, e di meccanismi in grado di correggere le deformazioni geometriche come le linee cadenti.

La scoperta del banco ottico la devo a mio padre, che vedendo la mia passione per la fotografia acquistò da un suo amico fotografo professionista una Linhof Technika. L’amico la cedette per poco prezzo perché per fotografare turisti e matrimoni quell’apparecchio era troppo poco versatile. Eppure, fino agli anni Sessanta negli Stati Uniti i fotoreporter di cronaca e persino i corrispondenti di guerra usavano la Graflex (due chili e mezzo di peso), che si vede soprattutto nei film polizieschi degli anni Trenta e Quaranta. Nel 1945 con questa fotocamera venne scattata l’immagine dei marines americani che piantano la bandiera sulla cima dell’isola di Iwo Jima, conquistata ai giapponesi a prezzo di molto sangue.

Una fotocamera Graflex del 1949
Una fotocamera Graflex del 1949 (da Wikpedia, con licenza CC BY 2.0)

La tedesca Linhof Technika era la versione europea della Graflex. Ma nei paesi nostri non ebbe molto successo, perché i paparazzi preferivano macchine molto più contenute e agili come la Rolleiflex, ma di quest’ultima parleremo un’altra volta.

Linkof Technika
La Linhof Technika dell’autore

La Technika aveva un’impugnatura e un telemetro, cioè uno strumento ottico per misurare la distanza di messa a fuoco, che dovevano permetterle di fotografare senza cavalletto. Era dotata anche di due dorsi rimovibili per contenere le pellicole di formato 120. Su un rotolo potevano essere scattati 10 fotogrammi di formato 56 x 72 millimetri, un formato molto grande se paragonato al solito 24 x 36 dei rullini introdotti dalle macchine formato Leica.

Linhof Technika

Ma ben presto mi accorsi che fotografare a mano libera in questo modo era lento e faticoso, così smontai sia il telemetro sia l’impugnatura, e al posto dei dorsi lasciai il vetro smerigliato. Per la pellicola mi procurai una specie di chassis per rotoli, il Rapid Rollex, che poteva essere infilato e tolto senza dover sempre estrarre il vetro smerigliato.

Ecco dunque la Linhof trasformata in fotocamera da studio. Usandola ne ebbi vantaggio per il mio lavoro di storico, architetto e fumettaro.

C’era però il problema dell’obiettivo; la macchina mi era stata venduta con un Planar, basato su uno schema ottico progettato nel 1896 e tuttora in uso riveduto e corretto, un obiettivo buono per le riprese di soggetti di cronaca, ma che formava immagini luminose al centro e meno sui lati. Per fortuna un fotografo professionista di monumenti e quadri, Franco Ordasso di Torino (1936-2024), mi regalò quasi un suo obiettivo Symmar 135. Una curiosità: se si svitava la parte posteriore dell’obiettivo la focale aumentava del doppio, diventando così un teleobiettivo, ma diminuiva la luminosità, da diaframma 5,6 a 12. Avere questo pezzo fu però fondamentale, perché mi permise di iniziare a fare basculaggio e decentramento.

Obiettivo Symmar
L’obiettivo Symmar

Che cos’è il decentramento? Si tratta di decentrare l’obiettivo muovendo certe piccole manopole ai lati. L’effetto è di raddrizzare le linee cadenti che si formano fotografando per esempio un campanile dal basso.

linee cadenti

Linee cadenti: l’edificio è stato ripreso inclinando la macchina, cioè tenendola con l’asse ottico non perpendicolare ai muri dell’edificio e con il portanegativi non verticale. Le linee cadenti sono evidenti e fastidiose in quanto l’occhio non è abituato a vedere l’edificio come si presenta in simile fotografia. Il sistema occhio-cervello corregge la visione puramente geometrica dell’oggetto, mentre la fotografia non compie un’operazione del genere (da Emilio Frisia, La macchina fotografica professionale, Grafica Pirovano, s.l., s.d. [attorno al 1970]).

linee cadenti

Per correggere le linee cadenti si sono eseguite le seguenti operazioni:
1) La macchina montata su un cavalletto è staa piazzata “in bolla” davanti all’edificio. È stato usato un obiettivo grandangolare.
2) Decentrando opportunamente si è riusciti a inquadrare nel formato tutto il soggetto.
(Da E. Frisia, Ibid.)

In realtà lo spazio di basculaggio nella Linhof era limitato a qualche centimetro, ma bastò per rendermi esperto delle possibilità delle macchine fotografiche con il corpo fatto a soffietto di fisarmonica. Fu per questo che quando Ordasso andò in pensione rilevai la sua Plaubel Peco Profia, che era un vero e compiuto banco ottico.

Banco ottico Plaubel

La Plaubel non poteva usare pellicole in rotolo ma soltanto gli chassis a saracinesche, ossia cassette dove veniva introdotta, al buio, una pellicola piana di grandezza 13 x 18 centimetri. Formato enorme, ma ideale per riprodurre in alta risoluzione stampe, mappe, carte geografiche e quadri. Con questo apparecchio realizzai un lavoro importante per la facoltà di architettura: cinquecento fotocolor, ossia diapositive, della cartografia storica della regione Piemonte, in archivi, biblioteche, collezioni private. Non feci altro perché dovendo pagare i laboratori per lo sviluppo, più diversi “pizzi” e “tangenti”, guadagnai poco. Ma una volta andai fino al colle del Nivolet al confine tra Piemonte e Val d’Aosta (2612 metri di quota) per fotografare la cima del Carro (3326 metri), meta escursionistica.

Fotografare con la Plaubel era come guidare un carro armato, basti sapere che l’armamentario era contenuto in due bauli più un notevole cavalletto. Non essendovi nessuna parte automatica, tutto doveva essere eseguito manualmente; l’illuminazione del soggetto era effettuata con lampade Nitraphot della Osram da 500 watt, poi l’esposimetro non era nella macchina ma pendeva dal tuo collo, e doveva verificare che ogni punto della mappa da fotografare fosse raggiunto dalla stessa quantità di luce.

Esosimetro fotografico
L’esposimetro fotografico usato dall’autore

La messa a fuoco si realizzava sul vetro smerigliato posteriore (l’immagine appariva rovesciata), ma occorreva coprirsi la testa con un panno nero per regolarla bene, come si vede nei fotografi dei film comici di Ridolini. Tutte cose per le quali ci voleva perizia, estrema cura e tempo. Alla fine, quando l’obiettivo scattava dava una sensazione di potenza come il tirare una granata con un pezzo di artiglieria.

Anni dopo vendetti, anzi svendetti le due macchine, sia la Plaubel che la Linhof, diventate praticamente inutili con l’avvento degli scanner e della fotografia digitale, ma averle possedute e sapute usare rimane un caro ricordo della mia vita.

 

(Immagini dell’autore dove non altrimenti specificato. Immagine di apertura – dettaglio del catalogo / fascicolo promozionale Graflex del 1936 – e schede tecniche a cura di Andrea Antonini).

 

 

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