In un articolo pubblicato qualche tempo fa su Giornale POP, in cui parlavo dell’autore e filosofo francese J.-H. Rosny aîné e del suo ciclo fantastico ambientato su Marte, dal titolo “Le storie marziane di J.-H. Rosny aîné“, recentemente pubblicato per la prima volta in lingua italiana da Il Palindromo editore, dicevo anche che Rosny aîné, prima che autore fantastico (ma anche dopo), era stato scrittore naturalista. Sebbene Rosny aîné si fosse discostato da questa corrente letteraria, sottoscrivendo il Manifeste des cinq, e dando vita a un tipo di letteratura in cui fantastico e naturalismo erano in commistione. Scartabellando tra vecchie riviste, la mia attenzione è stata attratta da un suo racconto che fantastico non è, ma appartiene alla produzione “realistica”: Un Voleur, Un ladro. Qualcosa non mi tornava. Nella bibliografia di J.-H. Rosny aîné, il racconto è citato come pubblicato nel 1932 in “La Petite Illustration” (Paris, Éditions de “L’Illustration”) e io avevo tra le mani il suo racconto Un voleur, ma con stampa in traduzione italiana del 1926. Rosny aîné: Un voleur, 1932 Questo poteva solo significare che era stato pubblicato ben prima del 1932, ma non trovavo alcun riscontro bibliografico documentato. Vengo a scoprire che Un voleur (1932) ha avuto una recentissima ristampa nel 2020 a opera dell’editore francese Prodinnova. A parte il numero di pagine dell’edizione, ottantaquattro, che non corrispondevano alla lunghezza del racconto in mano mia perché ben superiore ed eguale a un racconto lungo o romanzo breve, ugualmente dalla sinossi avevo rilevato la congruenza della storia che riportava una trama e somiglianze indiscutibili. Rosny aîné: Un voleur, 2020 Eppure anche il Catalogue Général della Bnf, Bibliothèque nationale de France, non menzionava alcun Un Voleur pubblicato prima del 1932. Mi chiedevo perplessa da dove fosse saltata fuori questa traduzione italiana, a meno che non fossi incappata in un’anomalia temporale. Finalmente scopro l’arcano spulciando nei cataloghi della Bibliothèques spécialisées et patrimoniales de la Ville de Paris. Lì, trovo una voce che cita Un voleur come racconto pubblicato a Parigi nel 1905, in “Le Conteur populaire – 18 avril 1905“. Un colpo di fortuna presso il catalogo di un antiquario mi permette di rilevare l’immagine del frontespizio della rivista. Reca “Un voleur, nouvelle inédite” e l’incipit. Lo leggo a fatica, l’immagine non è chiarissima. Corrisponde al racconto che ho in mano! Le Conteur populaire – 18 aprile 1905 Il giallo è risolto: Rosny aîné ha pubblicato un racconto breve nel 1905, che poi ha avuto un risvolto ulteriore ed è stato ampliato come romanzo breve più di vent’anni dopo, nel 1932. Questo numero di “Le Conteur populaire” pare sia oggi rarissimo da trovare, ma Un voleur, con il titolo Il ladro, fu però pubblicato in traduzione italiana sulla rivista “Le Grandi Firme – 1° Gennaio 1926 – Numero 37” (Anno III), quindicinale di novelle dei massimi scrittori, diretto da Dino Segre (al secolo Pitigrilli), di cui ho parlato in “Pitigrilli, la teleferica per l’arcobaleno” sempre su questa testata. Riporto di seguito Il ladro, trascritto integralmente, con l’omissione di pochi refusi corretti. È un racconto gustoso e fresco, in cui sorte e alchimia si mescolano per dare origine allo strano caso del signor Carlo Noville, immerso in una Francia di fine Ottocento, probabilmente a Lione, e resa con sapienti pennellate. Le Grandi Firme, 1° Gennaio 1926 J.H. Rosny – Il ladro – Io ho un protettore nella vita – diceva Carlo Noville – ed è uno che non conosco e di cui non ho mai visto e forse, non vedrò mai il profilo. Tutto quanto so di lui, è che è un ladro. Lo so con certezza, perché ha derubato mio padre, e perché io stesso, per così dire, ho assistito al furto. Ignoro se abbia sulla coscienza altri peccati del genere, ma, se dovessi giudicare da quanto è accaduto alla mia famiglia, dovrei credere che le altre eventuali vittime non possano lamentarsi… Verso i tredici anni, avevo, come molti ragazzi di questa età, una passione morbosa per i libri di avventure. Se trovavo un libro che mi piaceva, non potevo prendere sonno prima d’averlo letto tutto da cima a fondo. Quando i miei parenti si erano già ritirati, al lume di una candela finivo il libro allettevole. Qualche volta la candela si consumava e allora io andavo a prendere una piccola lampada a petrolio che serviva a illuminare le scale e che, naturalmente, avevo cura di rimettere a posto, quando mi decidevo di dormire. Una notte del mese di settembre 1883, la candela finì proprio al punto in cui certi guerrieri si apprestavano ad arrostire vivo il simpatico Giacomo Mahurel, soprannominato il «Terrore des Monbouttons». Non potevo certo mettermi a dormire, senza prima conoscere la sorte del mio eroe. Allora andai, con passo cauto, a prendere la piccola lampada a petrolio. Ma, quando giunsi a metà della scala, vidi una striscia di luce filtrare attraverso l’uscio dello studio di mio padre… Non ebbi nemmeno il tempo di fare un moto di naturale meraviglia, che un uomo vestito con un camiciotto e con il viso coperto da una maschera, attraverso i cui fori però si vedevano rilucere gli occhi, si pose davanti a me. Ricordo che il mio spavento non fu eccessivo, e perciò compresi la necessità di frenare tutti i gesti vani e sopra tutto i clamori compromettenti. L’uomo allora mi parlò e con una voce calma, dolce, ma, nondimeno, estremamente autorevole. – Ragazzo, non un grido! Altrimenti finirà male. Io prendo in prestito dai tuoi del denaro. Di’ loro che io lo renderò completamente e intanto li associo ai miei affari che sono onesti! Egli mi guardava negli occhi fissamente; la fiamma, che riluceva attraverso le occhiaie della maschera, mi dettò la condotta da seguire. È incontestabile che io temevo di fare del rumore; ma non è meno incontestabile che la paura non era il sentimento predominante: ero ipnotizzato. Il ladro ancora soggiunse: – Devi venire con me fin sulla strada… Là, attenderai fino a che io sia scomparso. E sta sicuro che non dovrai pentirtene né per te, né per quelli che tu ami… Lo seguii attraverso il giardino e feci con lui alcuni passi lungo la strada. A poco, a poco, l’avventura diveniva interessante (io naturalmente non pensavo al denaro rubato) e, allorquando vidi sparire, alla prima svolta, l’ombra del ladro, mi sembrò d’avere visto nella realtà l’eroe di uno dei tanti libri di avventure, che costavano tante candele e tanto olio alla mia famiglia. Nondimeno compresi che era assolutamente necessario che io avvertissi mio padre. Lo feci subito. Temevo di essere sgridato, ma non lo fui affatto. Mio padre, che, del resto, mi amava teneramente, prima di tutto fu molto soddisfatto nel vedermi sano e salvo e dopo mi rese grazie per quello che egli chiamava il mio sangue freddo. Aveva perduto però una somma che in confronto al suo patrimonio era grandissima: venti mila franchi, due anni quasi delle nostre entrate. * * * Passarono nove anni. Non avevamo del tutto dimenticato il ladro, ma il suo ricordo era divenuto a poco a poco meno sgradevole. Qualche volta mio padre scherzava sulle parole che il ladro mi aveva dette ed era curioso di sapere se avesse fatto fortuna. Io, per conto mio, pensavo a lui con un certo senso di delusione. Mi era restato di lui non so quale impressione precisa; ma, per lungo tempo, mi ero illuso che egli, malgrado fosse un criminale, avesse dovuto mantenere la promessa di restituire la somma rubata. Questa illusione, però, con gli anni, era andata scomparendo e, verso la maggior età, aveva finito per sembrarmi ridicola. Intanto io avevo potuto ultimare i miei studi in ingegneria, ma mio padre non era riuscito a mettere insieme la somma necessaria per aprirmi una piccola fabbrica. Era necessario intaccare il capitale: e questo era molto doloroso per i miei. Ora, una mattina, si parlava in famiglia molto malinconicamente di queste faccende, quando fu recapitata una lettera raccomandata. Veniva dall’Inghilterra, paese dove la mia famiglia non aveva né parenti, né amici. Mio padre aprì la lettera, e, con enorme sorpresa, vi trovò uno chèque e un foglio. Lo chèque, strettamente nominativo, era sul Crédit Lyonnais per un ammontare di trentadue mila franchi. Il foglio diceva: «Troverete, qui accluso, uno chèque di trentadue mila franchi, a pagamento dell’obbligazione da me assunta verso di voi il 16 settembre 1883, interesse composto al 6 per cento compreso. Questo pagamento però non mi libererà dagli obblighi morali che io ho verso di voi. Per tutta la vita veglierò su voi, sulla vostra famiglia e, sopra tutto, su vostro figlio!» La calligrafia della lettera non corrispondeva a quella dello chèque e, quando io, più tardi, cercai di dissipare il mistero, dopo un po’ di tempo dovetti smettere per le difficoltà incontrate. Per lungo tempo restammo fortemente stupiti: – La mia intuizione di fanciullo non mi ha tradito – io andavo dicendo. Mio padre si fregava le mani con soddisfazione: – Ecco, figlio mio, il tuo stabilimento bell’e trovato… se lo chèque è buono! Per intanto, però, io non accetto gli interessi: la loro origine è sospetta… Li daremo ai poveri! * * * In seguito, non cessammo di sentire intorno a noi come una influenza benefica. Regolarmente, ricevevamo consigli per collocare i capitali, consigli che ci permisero di triplicare il patrimonio in meno di una dozzina d’anni. E, messa su la fabbrica, ricevetti delle ordinazioni non mai sperate, ottenni appalti e forniture, che ben presto mi misero in prima linea. Tutto questo mi fece realizzare una fortuna personale grandissima. Ma dove questa occulta protezione si manifestò sotto la forma più provvidenziale e più fantastica, fu a proposito del mio matrimonio. Io avevo incominciato, sono sei anni, la costruzione di un acquedotto per conto di Pietro de Beaurel, vecchio maniaco, che si occupava ancora, nel secolo XX, di astrologia e di magia. Questo individui taciturno, dalla voce mordace e dal sorriso sprezzante, mi offrì per l’occasione, ospitalità. Ero andato da lui per declinare l’invito, quando, entrando nella villa, vidi la signorina de Beaurel, che attraversava, in quel momento, il cortile. Io credo che sia Balzac che narri di un amore nato improvvisamente in un uomo nel rilevare il modo, con cui una grande dama discendeva una scala. Il modo di camminare della signorina de Beaurel, se non provocò in me quel colpo di fulmine, mi riempì nondimeno l’animo di un’ammirazione tale, che mi determinò ad accettare l’invito. In pochi giorni, però, io fui colpito fino in fondo all’anima da quegli occhi color di cielo e di mare, delle sue gote rosee e d’una forma perfetta, dal sorriso dolce che le allargava agli angoli la piccola bocca, dai capelli fini e sempre al vento. Sembrò che ben presto il contagio del mio amore si propagasse alla deliziosa creatura, perché vidi subito apparire sul suo viso divino un lieve rossore da prima e poi qualcosa di tenero, di dolce che mi colpiva. La signorina de Beaurel, benché nel guardarmi avesse molta riservatezza, non dissimulava il piacere che provava nel vedermi. Dolorosamente però era necessaria l’approvazione del signor de Beaurel. Questo vecchio, un po’ pazzo, oltre alla passione dell’astrologia e della magia, era ostinatamente superbo della sua origine nobile e mentre egli era ostinato e cocciuto, la figlia era debole. Non avevo dubbio che ella si sarebbe arresa alla volontà paterna, perché, oltre tutto, Clotilde de Beaurel sentiva la religione dell’autorità paterna. Era questo un sentimento che io nutrivo troppo fortemente per non doverlo rispettare in un altro. Stando, così, la situazione, io non potevo fare a meno che combattere in me il mio amore. Ma la mia era una lotta vana. L’immagine di Clotilde sembrava gravare su di me in proporzione ben maggiore dell’energia che io usavo per allontanarla; cosicché al termine di un mese io non avevo altra soluzione che la fuga. Tuttavia, prima di abbandonare ogni speranza, mi risolsi di fare un supremo tentativo presso il vecchio maniaco. * * * Era un mattino pieno di nuvole grigie attraverso cui la luce scendeva pesantemente sul parco: Il signor de Beaurel mi ricevette tra i suoi alambicchi, storte, crogioli, fornelli, tutta una fabbrica di stoviglie e una vetreria da alchimisti del XVI secolo. Il vecchio ascoltò la mia domanda accigliato e senza pronunziare parola. Quando io ebbi finito, rispose con tono secco: – Non mi dispiacete in modo assoluto… La vostra stessa professione è di quelle che io vorrei per un mio futuro genero… Ma io voglio dare a mia figlia un uomo di nobile prosapia. È una risoluzione presa subito dopo la nascita di Clotilde e nulla varrà a farmela cambiare… E si interruppe per leggere una lettera, con risposta, che gli porgeva un domestico. Lesse e dopo scoppiò in un ridere stridulo: – Mi inganno… Accetterò come genero il giovanotto che mi farà scoprire il tesoro magico di mastro Ambrogio Chanteseigle, il grande alchimista del 600, tesoro che la tradizione dice sia nascosto in un sotterraneo di questo castello. Così dicendo, mi congedò con un moto secco del capo e incominciò a scrivere la risposta, che il cameriere attendeva. Mi ritirai costernato. Tutte le speranze erano cadute: io dovevo lasciare il castello. Ma non avevo la forza di prendere questa decisione: mi diedi cinque giorni di tempo, per bere fino alla feccia l’amara tristezza d’un amore senza domani. * * * Il giovedì seguente, verso sera, ritornavo dal mio lavoro in una condizione di spirito così oppressa, che avrei accolta, senza rimpianto, la morte. Mi ritirai nella mia camera, a cambiarmi d’abito per la cena, quando vidi un grosso involto sul tavolo. Non portava timbri, soltanto il mio indirizzo chiaro e preciso. Un po’ sorpreso stetti tre buoni minuti ad esaminarlo, dopo lo aprii. Mi trovai davanti a una specie di carta topografica tracciata su di una pergamena, che non dovetti osservare due volte per capire che era molto vecchia. Su di un foglietto unito, era scritto: «Ecco il probabile piano per trovare il tesoro di mastro Ambrogio Chanteseigle». In un angolo della carta vi erano istruzioni, che completavano quelle disegnate. La mia prima impressione fu che io ero vittima di una mistificazione, di cui l’autore poteva anche essere il signor de Beaurel (ipotesi assai verosimile perché questo vecchio, come molti di coloro che si dànno agli studi occulti, aveva una certa tendenza alla mistificazione). Ma, quando uno è pazzamente innamorato, ha sempre in fondo all’anima un bricciolo di credenza nel meraviglioso, sempre che questo sia favorevole. In ogni modo io non arrischiavo nulla: si trattava di fare scavare una fossa attraverso una radura. Per ottenere il permesso dal mio ospite bastava fargli intravedere la speranza di scoprire una fontana. Il vecchio, fra l’altro, aveva anche la mania delle fontane e nel suo grande parco se ne contavano una ventina. Ottenni senza ostacoli e riserve il permesso e il giorno seguente iniziai i lavori. Dopo alcuni assaggi, si scoprì infatti un condotto sotterraneo, abbastanza stretto che si perdeva nell’oscurità. Con una candela in mano mi inoltrai solo per il sotterraneo, dopo avere congedati gli operai, la collaborazione dei quali mi era divenuta inutile. Era già verso il tramonto. Mi inoltravo con molta fatica, ma con una certa convinzione, perché tutto corrispondeva esattamente al piano che mi era stato tracciato. Finalmente arrivai in una specie di camera: a destra vi era una porta di ferro, che secondo le istruzioni io dovevo far saltare. Portavo con me gli strumenti necessari; la porta fece una resistenza abbastanza forte, ma finì per arrendersi: allora apparve una piccola cavità e in fondo ad essa una grande cassetta di metallo… * * * Un’ora più tardi, mi presentai al signor de Beaurel, dopo averlo avvertito che io avevo una importantissima comunicazione da fargli. Il vecchio mi gettò uno sguardo tra lo stupito e l’adirato, quando mi vide posare ai suoi piedi una vecchia cassetta ancora tutta sporca di terra. – Cos’è questo? – domandò con tono aspro, non tralasciando però di osservare con curiosità mista a desiderio la vecchia cassetta. – Non lo so nemmeno io esattamente, – replicai, – perché ancora non ho aperto la cassetta… Non è mio diritto! Ho però quasi la certezza che contenga il tesoro di mastro Ambrogio… e, se veramente lo contenesse, non dimenticatevi che io ho il diritto di sposare vostra figlia… A queste parole, il vecchio maniaco perdette la sua impassibilità. Allungò sulla cassa le mani tremanti, mani grinzose di avaro e di mistico, gridando: – Il tesoro di mastro Ambrogio! No! No!… Sarà troppo bello! Pure non oso credere che voi mi abbiate giocato un brutto tiro! E mi guardò con sguardo furioso e spaventato insieme, pieno d’angoscia e di speranza. – Vi do la mia parola d’onore – risposi – che sono sincero. Certo non so cosa contenga… ma, prestando fede alle ricerche e alle indicazioni che io ho tratte da vecchi libri e che mi hanno condotto a scoprire questa cassetta tutto mi dà a dubitare che essa veramente contenga il tesoro di mastro Ambrogio! Al colmo dell’emozione, il vecchio maniaco soltanto riusciva a balbettare: – Vi credo, vi credo!… E poi, con tono più calmo: – Certo bisogna sapere come si apre… – Avrà avuto senza dubbio una chiave, ma sarà difficile ora trovarla. La cosa più semplice è di forzare la serratura o far saltare il coperchio. Avuto il consenso del vecchio, mi riuscì molto facile a fare saltare il coperchio e allora delle piccole verghe d’oro e d’argento, delle monete e delle pergamene apparvero al nostro sguardo. Nelle monete rilevammo l’effigie di Luigi XI, Carlo VIII, Francesco I e di altri re. Il signor Beaurel si disinteressò completamente delle monete e delle verghe d’oro, che potevano avere il valore di due o tre mila scudi, ma si impadronì subito delle pergamene. Quando le ebbe lette, si lasciò cadere su una sedia e, singhiozzando di gioia, gridò: – Il gran segreto, il gran segreto! Poi, allungandomi la mano, mi disse. – Andate, avete ben meritata la ricompensa. E dopo avere accuratamente riposte le pergamene e chiusa la cassetta in un armadio, mi condusse da Clotilde e me la presentò come mia sposa. * * * Sposai dopo poco tempo Clotilde e con lei condussi una vita serena e tranquilla, mentre mio suocero si affaccendava intorno alle combinazioni insegnate da mastro Ambrogio per trarre dai metalli l’acqua di Jouvence. Ma non s’impazientiva se non otteneva risultati, dacché mastro Ambrogio aveva stabilito nella sua formula un periodo molto lungo per le esperienze. E durante appunto queste esperienze, mio suocero morì senza avere in esse persa la sua fede. Fu soltanto dopo la sua morte, che io venni a scoprire la chiave dell’enigma: era stato un maggiordomo che, dietro istruzioni precise, avute da un ricco signore sconosciuto, aveva deposta la cassetta nel sotterraneo, seguendo però una via molto più comoda di quella che mi aveva tracciata. Le pergamene erano vecchi libri di magia di cui era bastato falsificare qualche cosa per farli tutti attribuire a mastro Ambrogio di Chanteseigle. Dovetti così la mia fortuna a un inganno più o meno volontario. Ma poiché il signor de Beaurel non ebbe a soffrirne il minimo danno, e la mia signora è soddisfatta del suo destino, il fine giustifica un mezzo, di cui solo responsabile è il mio occulto protettore. J.H. Rosny. World © Tea C. Blanc. All rights reserved Navigazione articoli FLUSSI POTENZIALI, RIVISTA D’ENTROPIA TUTTE LE FAKE NEWS SULLA GIOCONDA