Lo scrittore Georges Perec (noto ai più per la La vita, istruzioni per l’uso oltre che per la sua passione rivolta a parole crociate e giochi di logica pubblicati sui settimanali Le Point e Télérama) e i due coautori Pierre Lusson e Jacques Roubaud hanno scritto nel loro Breve trattato sulla sottile arte del go: “… ma, novizi tra i novizi, sapendo fin troppo che in questo gioco saremo sempre principianti, sapendo fin troppo che una vita intera non basterà a farci percepire un solo quarto delle raffinatezze che accompagnano il go, subiamo questa fascinazione senza poterla esprimere.”. È singolare come, nella loro cosciente dichiarazione di ignoranza, quasi fosse uno specchio al negativo, ne abbiano raggiunto la comprensione sapendo di non comprendere. In accordo a questa ignoranza, a cui mi associo, parlerò dell’arte del go attraverso tre libri, di cui proporrò una scaletta di lettura da osservare nella sequenza in cui sarà esposta (per il lettore occidentale, o comunque per chi non conosce il go). Scaletta che sarà una sfida, sia per chi non conosce il gioco e desidera introdursi, sia per chi il gioco lo pratica. I tre libri di cui ho accennato sono due romanzi e un saggio da poco pubblicato di cui farò una recensione. Per chi leggerà il primo, ci sono grandi possibilità di non poter fare a meno di leggere gli altri. Prima di iniziare, è necessario almeno descrivere i punti essenziali del go. L’arte del go, denominato in modi diversi a seconda di dove è giocato e vedremo come (go è la denominazione giapponese), è il gioco di strategia per eccellenza e si gioca su una scacchiera o goban dove si intersecano 19 linee verticali e 19 orizzontali per un totale di 361 intersezioni. I due sfidanti hanno 181 pietre nere e 180 pietre bianche (il nero inizia). Il gioco inizia a tavoliere vuoto. Lo scopo è costruire territori inattaccabili circondati da pietre del proprio colore. Le pietre si dispongono man mano lungo le intersezioni e non si muovono. Ogni pietra ha valore paritetico a qualunque altra e gode di quattro libertà (lungo il bordo sono tre). Una pietra viene catturata quando le pietre avversarie ne occupano tutte le libertà; questo vale anche per un gruppo di pietre. La partita termina di comune accordo quando gli sfidanti dichiarano non esserci più possibilità di fare territori o minacciare quelli avversari. Vince la partita chi ha circondato maggior territorio. Trevanian: Il ritorno delle gru (Sonzogno, 1980) Trevanian: Shibumi (“Crown”; Outlet, 1979). Prima edizione originale Il primo libro è Il ritorno delle gru, scritto da Trevanian, pseudonimo dello scrittore statunitense Rodney William Whitaker (chissà perché, fino a pochi anni fa lo credevo canadese). Nato nel 1931 e scomparso nel 2005, ha pubblicato anche con altri pseudonimi: Nicholas Seare, Edoard Moran e Beñat Le Cagot. Quest’ultimo nom de plume ricorrerà, nelle vesti di uno dei protagonisti, nel romanzo Il ritorno delle gru, in originale uscito come Shibumi nel 1979. Trevanian è uno scrittore misterioso. Dalle poche notizie bibliografiche pubbliche, si sa che ha vissuto per alcuni anni nei Paesi Baschi, in Europa. Questo, però, non spiega la profonda intensità con cui ha saputo descrivere alcuni luoghi e circostanze (e arti) che nulla hanno a che vedere con i Paesi Baschi e che costituiscono i diversi nuclei del romanzo Shibumi. Una normale “raccolta dati”, infatti, non implica la conoscenza delle numerose tematiche che ha rivelato scrivendolo. Per esempio, non ho trovato testimonianze della sua conoscenza del go, eppure racconta come se lo conoscesse. Shibumi parrebbe quasi un romanzo di formazione, nel suo significato originale (cioè un genere letterario che segue e racconta la formazione di un individuo, attraverso lo sviluppo storico dell’ambiente che lo circonda), se non fosse che il protagonista è un apolide. Da molti è definito un romanzo di suspense, un giallo thriller: è riduttivo, raccoglie solo l’atmosfera incalzante e complicata degli eventi. In realtà, le connessioni tra i protagonisti e le vicende vanno ben al di là di un intreccio spy story, pur contenendolo. Non si può dire nemmeno che sia un romanzo d’amore sebbene contenga un intreccio d’amore di sublimi pennellate erotiche. Neppure politico, anche se dinamiche politiche vengono contemplate. E nemmeno storico, anche se pezzi di storia affiorano e vanno a confluire in un affresco crudo e disincantato. Se proprio volessimo trovare una definizione, potremmo chiamarlo romanzo poliglotta, oppure romanzo di strategia, e ancora non avremmo detto niente. Di certo, Shibumi è quel che si suole definire un trait d’union, cioè un elemento di unione di due opposti, l’Oriente e l’Occidente, nella figura stessa del protagonista, Nicholai Hel, che vediamo per la prima volta a Shanghai negli anni Trenta. Shanghai comincia la sua storia internazionale quando i britannici, in seguito alla prima guerra dell’oppio che si protrasse dal 1839 al 1842, hanno la meglio sull’impero cinese e la occupano, in virtù dei loro interessi commerciali, firmando il trattato di Nanchino. L’anno dopo, il 1843, segue una ratifica con il trattato di Humen, in cui il regno britannico si accaparra due clausole di diritto internazionale: extraterritorialità e nazione più favorita. Con l’ulteriore trattato del 1844, il trattato sino-americano di Wanghia, Shangai si trova invasa da potenze europee e statunitensi che riescono a estendere la loro influenza commerciale anche oltre le mura della città, pur essendo territorio governato dai cinesi. Nel 1863 l’insediamento britannico e quello statunitense si uniscono per formare l’insediamento internazionale di Shanghai, provocando un’ingente migrazione da tutti i continenti verso la città. Nel decennio che va dal 1920 al 1930, in seguito alle purghe della neonata Unione Sovietica, circa ventimila russi si spostano a Shanghai creando la seconda comunità straniera più grande. È proprio in questo periodo, per l’esattezza nel 1922, che la fuoriuscita nobildonna Alexandra Ivanovna arriva da Pietroburgo per stabilirsi in città con il suo piccolo, il sopracitato protagonista Nicholai Hel. Poco dopo, sarà la volta dell’impero giapponese che, con la battaglia del 1937, occuperà la parte cinese e poi, nel 1941, anche gli insediamenti internazionali… Ma il romanzo non si apre su questo scorcio di storia, bensì su uno scorcio di Stati Uniti e di Europa intorno agli anni Sessanta. Da questo momento è ben difficile parlare oltre della trama senza rovinare l’incanto della storia. Basti dire che il piccolo Nicholai imparerà a giocare il go, di cui un giorno, ormai adulto, darà questa definizione: “Gō sta agli scacchi come la filosofia sta alla contabilità della partita doppia”. Ma il vero, primo concetto, da cui sarà affascinato sarà quello che ruota intorno a shibumi. “Shibumi, signore?” chiede il piccolo Nicholai. “In che senso usa questa parola, signore?” “Oh, vagamente. E scorrettamente, sospetto. Un goffo tentativo di descrivere una qualità ineffabile. Come sai, shibumi allude a una grande raffinatezza sotto apparenze comuni. È un’affermazione così ardita, così acuta che non dev’essere bella, così vera che non dev’essere reale. Shibumi è comprensione più che conoscenza. Silenzio eloquente. Nel modo di comportarsi, è modestia senza pruderie. Nell’arte (…) è elegante semplicità, articolata brevità. Nella filosofia (…) è una serenità spirituale non passiva; l’essere senza angoscia del divenire. E nella personalità di un uomo, è… come dire? Autorità senza dominio? Qualcosa del genere.” Il romanzo è strutturato come una partita di go: i capitoli si distendono tra l’inizio (fuseki), varie altre fasi di gioco e il capitolo finale, quando le gru tornano al nido (tsuru no sugomori), cioè il momento decisivo in cui si catturano le pietre dello sfidante. Kawabata Yasunari: Il maestro di go (Einaudi, 2012 e 2019). La presente edizione è stata condotta sull’originale Kawabata Yasunari zenshū (Shinchōsha, 1981-1984) e comprende tutti i 47 capitoli di Meijin, sei capitoli in più rispetto all’edizione inglese curata da Edward G. Seidensticker, The Master of Go (Tokyo, 1973) Kawabata nella sua abitazione a Hase, Kamakura, intorno al 1946 Dalla febbrile compartecipazione a Shibumi, il passaggio successivo è a un secondo libro che, a differenza del primo, è stato scritto da uno scrittore giapponese, Yasunari Kawabata, nato nel 1899 e morto nel 1972, forse suicida. Premio Nobel nel 1968, la sua opera letteraria, sebbene in Italia dai più sia conosciuta per la qualità prettamente giapponese, in senso tradizionale, contiene istanze sperimentali che lo fanno uno scrittore moderno. Ma poco è stato tradotto, in generale, di questa sua produzione e quindi in Occidente non c’è, in generale, una comprensione olistica di ciò che ha scritto. A noi interessa il suo romanzo Il maestro di go (名人, Meijin ), pubblicato nel 1954. Per il lettore digiuno di go, e anche di cultura giapponese, è un libro difficile, ma non per scrittura o per trama: Kawabata scrive in un modo puro e cristallino. La sua penna mostra le cose, gli spiriti, gli eventi, come se li si guardasse attraverso acqua di sorgente. Tutto affiora con una pulizia sintattica e di pensiero che ne fanno un capolavoro, e, come guardando il letto dove scorre l’acqua di una sorgente, il fondo su cui scivola il flusso (dell’acqua, delle parole) è esaltato attraverso una visione lenticolare quasi decuplicata per l’effetto della materia pura, che nulla nasconde. Proprio questa mancanza di oscurità che esalta il vuoto, crea il significato nascosto (il pieno) del racconto. Percepirlo è il ruolo del giocatore di go, ma anche del lettore. Nel 1938 avvenne una partita di go che iniziò il 26 giugno e terminò il pomeriggio del 4 dicembre, per un totale di quattordici incontri. Fu un evento di interesse nazionale e dai risvolti drammatici, e numerosi giornali ne pubblicarono via via la cronaca. Tra i cronisti c’era Kawabata che all’epoca aveva ricevuto dal giornale Tōkyō nichinichi l’incarico di seguire la partita. La sua cronaca venne pubblicata in sessantaquattro puntate, raccolta in volume nel 1954. In questo romanzo in forma di cronaca si raccontano gli eventi, inerenti alla partita ma anche allo schema esteriore di contorno, ossia la vita, che concorsero durante la partita di go avvenuta tra il maestro Hon’inbō Shūsai, ultimo capo della casa Hon’inbō e Meijin (quest’ultimo il massimo grado assegnato e con equivalenza di 9° dan, titolo storico a partire dal Periodo Edo) e il maestro Minoru Kitani. Quella partita sancì una differenza epocale che, raccontata con le parole del go, creava un vuoto nazionale a cui sarebbe seguito, di necessità, un pieno. Kawabata, pienamente cosciente, descrive con l’oggettività di un maestro quello che sta accadendo nella partita e, di risvolto, a un intero Paese. Perché la simbologia dell’arte del go, in Giappone seguito da ogni strato sociale, stava cronicizzando in tempo reale la storia di tutti i giapponesi e il futuro immediato. Si potrebbe dire che la sera del 4 dicembre, quando fu reso noto l’esito, ogni giapponese era in grado di conoscere lo schema nazionale che si stava preparando, lo schema vitale che si stava delineando e, di riflesso, quello personale e altrui. Ora facciamo un salto indietro, e di riflesso in avanti. Nel romanzo Shibumi si racconta, tra le altre cose, di quello che avviene in Giappone poco dopo quell’anno descritto da Kawabata. Al lettore le proprie considerazioni, dopo aver letto entrambi i romanzi Nella sua dedica iniziale a Shibumi, Trevanian scrive: “Alla memoria degli uomini / che appaiono in questo libro / sotto il nome di: Kishikawa / Otake / De Landhes / Le Cagot – Tutti gli altri personaggi e tutte le organizzazioni / qui descritte non hanno alcun rapporto / con la realtà: anche se qualcuno di essi non se n’è accorto.”. Forse è una coincidenza che Otake sia anche il nome fittizio con cui Kawabata chiama il maestro Minoru Kitani. Il secondo e unico altro nome fittizio del romanzo è quello dello stesso autore. Voltata l’ultima pagina, l’incantesimo di Shibumi corre su fili nascosti dove si affastellano mille domande, talvolta di natura parallela all’arte del go. Chiuso Il maestro di go, il clima di sospensione struggente lascia luogo a quiete e straordinaria lucidità mentale. È possibile trovare qualche risposta a questi stati perfettamente antitetici e perciò concorrenti al movimento del pieno e del vuoto, in un saggio pubblicato poco tempo fa, il quale mi ha dato l’idea di scrivere il presente testo. Si tratta di Evoluzione e rappresentazione simbolica del gioco del go di Marco Milone (Aracne, ottobre 2020), del quale tempo fa avevo già recensito un altro suo saggio sugli emaki. Sapere anche qualcosa sul gioco del go, sulle sue origini e come si è diffuso, permetterà di capire un po’ meglio i primi due libri, anche se una sensibilità aperta e priva di pregiudizi dovrebbe coglierne ugualmente il senso ultimo. Diversamente, nulla impedisce di tornare a rileggere Shibumi e Il maestro di go, dopo aver letto il saggio. Il saggio di Milone parte dalle origini di questo antichissimo gioco, collocandolo in Cina in una data incerta poiché le prime notizie risalgono alla tradizione orale che racconta dell’imperatore Yao (2357 – 2255 a.C.). Le fonti scritte in cui è citato cominciano con i classici cinesi, dal quinto secolo avanti Cristo in poi, dove viene chiamato Yi, termine con cui era designato anticamente il wei chi, cioè il go. In Giappone il go arriva tra il V e l’VIII secolo d.C. e, attraverso i secoli, arriva a essere giocato da professionisti in tornei. In Corea il go arriva, presumibilmente, sempre dalla Cina ed è chiamato baduk. Non si sa esattamente quando. Le prime notizie certe della sua presenza nel Paese si leggono nella Cronaca dei tre regni, scritta da Chen Shou nel III secolo d.C. In Vietnam viene chiamato cò vây, oppure vi ký in sino-vietnamita, e approda intorno all’XI secolo, sebbene sia presumibile che fosse già stato introdotto dai cinesi durante l’invasione incominciata nel III e II secolo a.C. Nel Tibet arriverà nel 641, in seguito al matrimonio con l’imperatore Songtsen Gampo e la principessa cinese Wencheng. Verrà chiamato mig mang, ma si discosterà dal gioco del go tradizionale per un tavoliere diverso, costituito da un goban 17×17, anziché 19×19. Ogni capitolo illustra nel dettaglio il percorso storico del gioco, la documentazione e le testimonianze letterarie, le vicissitudini e la popolarità presso le diverse fasce sociali, nonché l’evoluzione del sistema di punteggio. Il gioco, invece, è pressoché rimasto il medesimo nel tempo. Chi lo ha portato ai massimi livelli è stato il Giappone. Un capitolo conclusivo illustra la sua diffusione nel globo, con uno studio sulle motivazioni per cui ha incontrato resistenza a diffondersi in Occidente. L’autore non dimentica, inoltre, di fare una panoramica del gioco ai tempi odierni. Il saggio si presenta esaustivo e ben documentato, con appendici e una vasta bibliografia. Unica pecca: una vistosa mancanza di revisione da parte dell’editore (negli ultimi anni ormai una pratica quasi endemica), per cui esiste un fiorire di refusi che poco si allineano con il shibumi dell’argomento. Infine e più importante, la bibliografia in lingua italiana sull’argomento è pressoché inesistente, nella forma di un saggio che ne contempli la storia, la diffusione e l’evoluzione; è quindi encomiabile e necessario questo libro, per cui ringraziamo l’autore. Un antico goban giapponese. I contenitori per le pietre si chiamano goke World © Tea C. Blanc. All rights reserved Navigazione articoli SE L’ITALIA FASCISTA AVESSE VINTO LA GUERRA… TRIFONE LO CONOSCIAMO GRAZIE ALLA BUROCRAZIA
Il tuo articolo indica un’orizzonte verso cui incamminarsi. Ora indispensabile. Sperando di cogliere i veri “pieni e vuoti” del presente. Grazie. Rispondi
Un nono dan, Kajiwara Takeo, una volta ha detto: “Io non gioco per vincere, io gioco a go”. Questo stato, applicato alla vita, non “spera di”, ma riconosce i pieni e i vuoti per veracità intrinseca. Sì, è vero, può essere un orizzonte. Il tuo commento è stupendo. Grazie, Arcangelo. Rispondi