Ho chiesto a un grande della fantascienza italiana, Giuseppe Lippi, una piccola intervista. Dico grande perché, attraverso il suo lavoro indefesso e su più fronti, ha dato la possibilità al pubblico di conoscere un genere letterario che ha avuto strabilianti trasformazioni e superato parecchi malintesi, il primo dei quali è stato ritenerlo ingiustamente un genere popolare di entertainment, di divertimento, fine a se stesso. Ma questo, se vogliamo ben guardare, vale anche per la cosiddetta letteratura mainstream (non tutte le ciambelle vengono col buco e spesso l’obiettivo è che la ciambella non ce l’abbia proprio). Genere fantascientifico, dicevo, in fin dei conti reputato minore da alcuni stessi scrittori i quali, pur avendo usato l’escamotage fantascientifico nei loro romanzi, non hanno però voluto essere inscritti nel genere fantascientifico, come se l’esserne inscritti potesse mettere in dubbio l’eventualità talentuosa di un’opera. Si sa, ma forse non mai abbastanza, che un’opera letteraria può essere annoverata in centomila generi ma, se è un’opera di talento, resterà sempre un’opera di talento. Mentre altri scrittori di insuperabile qualità hanno sfatato questa mitologia di parente povero della letteratura pubblicando opere che hanno saputo parlare a tutti, fossero o non fossero lettori interessati al genere letterario propriamente detto. E anzi, sono stati scrittori che proprio attraverso la metafora fantascientifica hanno saputo raccontare meglio di altri un presente che si sta rivelando sempre più veloce e sofisticato, perché la metafora fantascientifica si adatta bene alle profonde trasformazioni tecnologiche che hanno investito la società del Novecento e soprattutto quella informatizzata degli ultimi decenni. Ringrazio Giuseppe Lippi per la pazienza e la gentilezza con cui ha accolto la mia richiesta. Giornalista, critico, traduttore e autore, di lui se ne parla da sempre e molto se ne è parlato ultimamente come curatore delle opere di H.P. Lovecraft, Robert E. Howard, Clark Ashton Smith e del mensile Urania, la famosa collana fantascientifica Mondadori di cui ha tenuto le redini dal 1990 al 2018. La personalità letteraria di Giuseppe Lippi è reduce da un mondo dove prima la Rete non esisteva e per comunicare da un continente all’altro ci si doveva affidare a telefonate previo appuntamento anticipato, ma perfettamente integrata nel mondo di oggi dove, da un semplice e comune telefono portatile, è possibile orientarsi in qualsiasi punto del pianeta. Personalità appartenente alla nuova generazione che ha raccolto l’eredità di quelli che ho definito pionieri qui, nel capitolo dedicato all’Italia, Giuseppe Lippi è stato, e lo è tuttora, tra i maggiori a fare opera divulgativa e di critica della letteratura fantastica in generale e, più nell’ambito di nostro interesse, fantascientifica. Una serie di belle copertine, vecchie e recenti, di Urania. La collana fu fondata nel 1952 Racconti fantastici del ‘900, a cura di Giuseppe Lippi (Mondadori, riedizione modificata e aggiornata del 2009) Howard Phillips Lovecraft: Tutti i racconti (Mondadori, 2015). A cura di Giuseppe Lippi Quali sono stati il tuo primo o i tuoi primi incontri con la fantascienza? E lo sono stati in forma di letteratura o di cinema? A undici anni ero appassionato di astronomia e credevo che la fantascienza parlasse proprio di quello. Tutto è nato da lì, l’amore per lo spazio e la collana che al cielo era intitolata, “Urania”. Il cinema è arrivato poco dopo. Immagino tu abbia letto molto per tuo diletto personale, ma molto anche per lavoro. Oggi che cosa significa leggere per te? Che cosa cerchi quando leggi? Nella lettura cerco due cose: conferme di me stesso, e quindi delle mie passioni, e scoperte che mi conducano verso un approfondimento sempre maggiore del puzzle “chi sono io?”, “in che mondo viviamo?”. Al neofita che si avvicina per la prima volta alla letteratura fantascientifica, come e da dove consigli di cominciare? Non saprei, se uno sente il bisogno di farsi consigliare direi che parte con il piede sbagliato. Faccia lui, o lei, magari cominciando da un titolo evocativo che stuzzica la sua immaginazione. Io ho fatto così e il titolo era “L’altra faccia della spirale”. Quali sono le caratteristiche che fanno l’odierna fantascienza italiana? La nostra SF (science fiction) si è smarcata dalla SF d’oltralpe o ne rispetta presunti canoni già stabiliti? E nel caso in cui abbia dato origine a un suo personale punto di vista, in che cosa si rivela innovativa? La nostra fantascienza ha assunto una voce autonoma… fino a un certo punto, ma non è un male. Trattandosi di un genere, è ovvio che incroci reciproci e idee condivise siano all’ordine del giorno. L’originalità della sf italiana è simile a quella delle altre “fantascienze”: trasferire uno scenario banale in un contesto delirante, o, se preferisci, un contesto già delirante di per sé in un inferno più profondo ancora. Mi dici 5 capolavori che non si può non aver letto? Guarda, io sostengo che si possa benissimo non aver letto i capolavori, purché li sostituiamo con quelli che A NOI sono sembrati libri fertili per l’immaginazione. Per esempio, a uno piacciono i “juvenile” di Robert Silverberg? Benissimo, si accomodi con una copia di “Su Marte segui il gatto”. Non voglio eludere però la tua domanda e ti indico alcuni dei titoli che, ai tempi, sono stati formativi per il sottoscritto: innanzitutto la meravigliosa antologia di racconti “Le meraviglie del possibile”, uscita da Einaudi nel 1959 e tuttora in commercio, “Assurdo universo” di Fredric Brown”, “La tigre della notte” di Alfred Bester, “Crociera nell’infinito” di A.E. van Vogt, “Un amore a Siddo” di Philip Josè Farmer, “Cristalli sognanti” di Theodore Sturgeon, “Cronache marziane”, “Fahrenheit 451” e “Paese d’ottobre” di Ray Bradbury, i racconti di Robert Sheckley e Richard Matheson, “La città sostituita” e “L’uomo dei giochi a premio” di Philip K. Dick, “Io, robot” e la prima trilogia delle Fondazioni di Isaac Asimov, “Brivido crudele” di Robert Silverberg, “Piano meccanico” o “Player Piano” di Kurt Vonnegut, “Solaris” di Stanislaw Lem, “Deserto d’acqua” e “Terra bruciata” di Ballard, di cui meritano anche i bellissimi racconti. E ancora “Le ali della mente” di Thomas M. Disch, “Cantata spaziale” di Raphael A. Lafferty, “Il cabalista” di Amanda Prantera”, “Nicholas Eymerich inquisitore” di Valerio Evangelisti, “Come ladro di notte” di Mauro Antonio Miglieruolo, i molti racconti di Lino Aldani… In generale, dopo gli anacronismi della corrente letteraria steampunk e il pop underground/high tech della corrente letteraria cyberpunk culminate negli anni Ottanta, oggi i nuovi autori sembrano dirigere sempre più lo scenario delle loro storie in ambientazioni iper-tech dove la fisica quantistica svolge un ruolo cardine. Tu come immagini gli scenari letterari fantascientifici prossimi futuri? Al di là di tematiche strettamente contingenti, come potrebbero essere l’ecologia o la nuova sfida spaziale in corso, la SF contemporanea dove potrebbe o dovrebbe spingersi ancora? Se la sf contemporanea e futura non osa penetrare nelle diecimila dimensioni assurde contigue alla nostra e nel milione di buchi neri più o meno affacciati su universi attigui a quello reale, io la boccio. Non dico che debba trascurare del tutto la vecchia terra, ma la sua missione è altrove. Faccio una premessa per introdurre la prossima domanda. All’inizio del Novecento prende piede una letteratura che poi sarà comunemente denominata distopica, dove l’ambientazione (magari futura, ma non necessariamente) di solito delinea una società o luoghi indesiderabili, disastrati, apocalittici, che possono investire la sfera politica o tecnologica. Oppure indicare nell’errore umano, che sia di origine scientifica piuttosto che spirituale, l’inizio del disastro e le sue conseguenze. In questo secondo caso si parla di post-apocalittico. Forse è solo una mia impressione, ma questo immaginario post-apocalittico ha avuto negli ultimi decenni un’impennata paurosa in ogni settore artistico, nel cinema e nella televisione, nel fumetto e anche in letteratura. L’artista che si esprime attraverso l’immagine, lo sceneggiatore, il regista, lo scrittore, quando mettono in campo la loro opera trovano una soluzione creativa (cioè nuova e personale) a una certa quantità di dati e informazioni che li hanno investiti. Questi dati e queste informazioni da cui partono per creare non appartengono solo al passato (dove passato è da intendersi sia in senso letterario, se hanno letto o si sono appropriati di una certa cultura, sia nel senso della propria esperienza personale, maturata e compresa), ma anche al presente. Se questo è vero, la soluzione del creativo visto come somma rappresentativa della società (perché il creativo non sfugge al suo tempo presente, lo sta vivendo) risponde anche alle domande, le paure, i desideri e le angosce del pubblico. Il successo del post-apocalittico/distopico e il compiacimento a renderli di successo sono innegabili e raggiungono ogni pubblico. Basti vedere l’audience di una mediocre serie televisiva come The Walking Dead, ma anche della più sofisticata Black Mirror, dove la morale è all’insegna del miglior pessimismo: non c’è salvezza, punto e finito. Per non menzionare lo scrittore statunitense Philip K. Dick, l’osannato creatore di Il cacciatore di androidi, romanzo poi trasposto in cinema nell’altrettanto famoso Blade Runner. E relativi seguiti. Che cos’è il canto finale dell’androide Roy Batty se non il tentativo di affrancamento di un Pinocchio cyborg? Ma stavolta Pinocchio non si salverà, non sarà trasformato, non si evolverà. Deve restare nel fango, nel legno da cui proviene. Tutto deve rispettare un canone post-apocalittico e pervenire a una soluzione negativa. Tant’è che la storia utopica viene percepita come ingenua, buona solo per idealisti pseudo-ottocenteschi o per chi non sa stare con i piedi per terra: per chi non ha il senso quasi religioso per le storture mentali, tecnologiche, psicologiche, scientifiche, ecologiche, politiche, economiche, non c’è posto. E deve averlo, beninteso, a senso unico, senza possibilità di ritorno. Il pubblico, che nel post-apocalittico dovrebbe trovare un motivo di denuncia o perlomeno l’invito a fare attenzione, invece si ritrova desensibilizzato da questa pioggia di negativo. Anestetizzato, pronto ad accettare come inevitabile uno stato negativo. La mia domanda è: tu credi che questo convulso bisogno di post-apocalittico e distopico sia il bisogno collettivo di ridimensionare la paura del futuro, dei risvolti di una tecnologia che l’essere umano comune sempre più utilizza e sempre meno comprende nel suo reale funzionamento? Oppure il bisogno di purificare un presente di cui si sente involontario artefice e, perché no, magari anche un po’ l’autore? O che altro? Personalmente, non m’interesso troppo di apocalissi e neanche di distopie, tolte le più classiche di Huxley e Orwell. Quella di Bradbury, “Fahrenheit 451”, è solo in parte utopia negativa e per il resto un grido di allarme in difesa dell’immaginazione. Credo che la moda attuale consista nel gridare “al lupo, al lupo!” perché non si sa che altro fare, non ci sono autori o pensatori particolarmente costruttivi e i segnali d’allarme in effetti non mancano. Ma settanta e passa anni dopo l’esplosione della prima bomba atomica, la cultura del piagnisteo si crogiola ancora – e flagella noi – con i romanzi masochisti di chi vorrebbe sentirsi a posto con la coscienza… pfui! “Non tutte le distopie riescono col buco, ma a volte, quelle a fumetti…” (Giuseppe Lippi dixit) Leggi fumetti? Il miglior fumetto di fantascienza di sempre? Leggo molti fumetti ma pochi di fantascienza. I migliori sono forse, in ordine cronologico, “Flash Gordon” di Alex Raymond, “Brick Bradford” di Clarence Gray, “Saturno contro la Terra” di Zavattini e Pedrocchi, certi racconti della “Silver Age” di Superman (analizzati anche da Umberto Eco in “Apocalittici e integrati”), le strisce inglesi di “Jeff Hawke” e alcune cose di Magnus, ad esempio “I briganti”. Poi ci sono gli estimatori degli universi di Jack Kirby, di cui sto per affrontare la serie del “Fourth World”. Negli ultimi tre anni di letture, quali sono, rispettivamente, il romanzo (o il racconto) di Sf che più ti ha coinvolto, al di là dall’epoca in cui è stato scritto? “Specie immortale” di Colin Wilson nel campo del romanzo, “Dio, tu ed io” di Jean Ray in quello del racconto. Una domanda importante che avrei dovuto farti, ma che nella mia ignoranza o inconsapevolezza non ho saputo formulare? Se vuoi possiamo concludere con un invito: lettori, non allontanatevi dalla fantascienza ma neppure isolatela protezionisticamente. Leggete di tutto e di più, e nel campo della letteratura fantastica tutti gli autori che vi interessano, perché la fantascienza non è che un ramo rigoglioso dell’immaginario scientifico/artistico. Illustrazione di Franco Brambilla per “Le fontane del paradiso” di Arthur C. Clark (Urania Collezione, 123) World © Tea C. Blanc. All rights reserved. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 17 marzo 2018 Navigazione articoli ANTONIO RUBINO, DAI PROTOFUMETTI ALLA FANTASCIENZA I TESCHI DI CRISTALLO MAYA, TANTO INCREDIBILI DA ESSERE FALSI
Grande Lippi, ha ragione su tutto, specialmente nel definire dilagante la distopia sf di questi tempi. Io mi definisco un raro esempio di utopia costruttiva, certo nei miei romanzi non mancano le difficoltà né i disastri ma poi… l’empatia tra specie senzienti ha la meglio. Rispondi
Mediocri Blade Runner e The Walking Dead? Anvedi Flic e Floc! Certo, se non se ne capisce una cippa e li si riduce a di-sto-coso o anche solo a fantascenza! Alle volte il giudizio sull’arte altrui richiede che ci si strappi un’attimino li paraocchi del “degenere”, e si guardi ad altro: qeullo che al dams chiamavasi lo stile, il modo, il sotto-testo, per usare parole per noi prive di senso. E’ il caso di Blade Runner, dove, tra l’altro, il replicante sopravvive eccome, sveglia! E’ Deckard, te basta guardà The Final Cut! Il cosetto di carta col corno! Dunque mi tocca spiegavve che B.R. è una attualissima riflessione sull’umano e il disumano, gli schiavi e noi operai, che travallica ogni degenere per essere “solo” puro capolavoro cinematografico. E che dire di TWD? Come ignorare l’attualità della metaffora del potere, della società, dell’individuo? Altro che distocazzo, altro che futuro. Queste opere parlano di noi, del nostro presente, dei nostre rogne attuali, basta avere un minimo di pelo sullo stomaco e divertirsi a unire i puntini. Ma la stessa cosa vale per Asimov: è “solo” letteratura, che ce vo? la pissicostoriografia, che prevede e allo stesso tempo pare che fa succedere il futuro di intere galassie è il destino cinico e baro che si scontra con la determinazione, l’intelligenza, la forza dell’individuo, l’eroe, apparentemente prigioniero dei suoi limiti (è un robot!) il cazzutissimo R.D.O. E non vi dico di Neuromante, altro capostipite, altra distopia, secondo voi altro piagnisteo! E sappiate che il futuro distopico è una tecnica narrativa, uno stile, un pretesto, non è il nocciolo della questione, è un modo per raccontare il presente. Non guardate il Dito (spesso medio), guardate la Luna, cazzo! Rispondi
Buongiorno, ho trovato (quasi casualmente) questo articolo che giudico ben fatto aldilà delle solite ovvie domande sui “capolavori” che sono, forse, indispensabili. Il mio parere è semplice: le opere letterarie e in generale “artistiche” sono valutate da ognuno in modo diverso e il giudizio dipende persino da come e dal momento in cui si fruiscono. Di conseguenza trovo veramente stucchevole parlare di “capolavori”, opere “indimenticabili”, ecc. E che questo sia, a mio parere, vero è dimostrato dal fatto che fior di studiosi, esperti o semplici appassionati hanno opinione OPPOSTE su singole opere. Insomma, smettiamo di “categorizzare” in modo assoluto le opere. Il compito del “critico” dovrebbe essere SOLO quello di fornire il substrato dell’opera e la sua “somiglianza” con altre opere che possano indirizzare il fruitore verso un certo “prodotto”. Grazie. Rispondi