Prima di presentarvi il tema centrale di questo articolo complottista, a beneficio di distratti, indaffarati e lontani è bene riassumere che cos’era il servizio di filodiffusione. In due parole: la trasmissione dei tre canali radiofonici Rai più due musicali aggiuntivi non attraverso l’etere, ma trasportando i segnali attraverso i cavi telefonici fin nelle case dei singoli utenti. La cosa fu inaugurata a fine anni Cinquanta e presentata senza tanto clamore come la migliore soluzione per raggiungere con il segnale radiofonico, che allora era solo quello di Stato della Rai, anche le località più lontane e schermate rispetto agli onnipresenti trasmettitori in onde medie (oggi tutti spenti) e le prime frequenze in FM. Non solo, ma la larghezza di banda di 15 kHz del segnale consentiva una qualità di ascolto impensabile con i segnali in onde medie, e quel segnale non soffriva neppure di interferenze atmosferiche cui le onde medie erano suscettibili o di fruscii insistenti come accadeva con gli ancora deboli segnali FM. Il segnale veniva iniettato nelle centrali telefoniche, percorreva i fili del telefono (detti doppini) e arrivava nelle case di chiunque fosse abbonato alla Sip (o alle compagnie telefoniche presenti prima del 1964, Stipel, Telve eccetera). A quel punto era necessario disporre di un apposito ricevitore provvisto di sei tasti di selezione dei canali. In teoria si poteva usare anche un comune ricevitore dotato della banda di onde lunghe, tuttavia in Italia, in quei tempi anche solo il pensare di collegare alla presa telefonica qualcosa di non autorizzato e noleggiato dalla compagnia telefonica poteva provocare multe bestiali, quindi quasi nessuno si azzardava, e comunque il tecnico doveva istallare un filtro concettualmente simile a quello che oggi separa il segnale telefonico da quello internet Adsl. I tecnici potevano provvedere all’operazione solo previa sottoscrizione dell’abbonamento al servizio. Va ricordato che fino alla fine degli anni Ottanta del Novecento il telefono di casa, inteso come apparecchio, prese, suonerie eccetera, era un dominio sacro: se un tecnico notava anche solo una prolunga telefonica o un cordless, erano grane. Il filtro era piuttosto semplice da costruire o comprare, ma se beccati, oltre alla multa sarebbe partita anche una denuncia penale – un po’ come avviene adesso se si guardano le pay-tv a scrocco. Peraltro l’abbonamento costava mi pare l’equivalente di un paio di euro all’anno. Oltre ai tre canali nazionali erano disponibili due canali dedicati, uno di musica leggera, il quarto, e uno di classica, il quinto, entrambi con i brani trasmessi senza interruzioni. Il che era una grande novità perché in quei tempi per evitare che la gente si registrasse le canzoni alla radio invece di comprarsi i dischi, i conduttori dei programmi radiofonici di tutto il mondo erano legalmente obbligati a sporcare i brani presentandoli a gran voce all’inizio offuscandone i primi dieci-venti secondi, poi ricordandone autore e titolo a metà e infine troncandoli con buon anticipo non senza aver ri-ricordato che cosa era stato trasmesso parlando sulla coda. Sui canali della filodiffusione questo non avveniva, anzi: i titoli in programma erano elencati con una settimana di anticipo sul “Radiocorriere TV” e così il giovane squattrinato poteva prepararsi in tempo alla registrazione con il suo Philips a cassette e il microfono appoggiato sull’altoparlante. Solo che le canzoni non erano certo scelte tra le hit del momento.Il canale di classica presentava grandi quantità di registrazioni originali Rai, di media non all’altezza della corrente produzione discografica. Gli annunci erano fatti tra un brano e l’altro da voci precise ma un po’ tombali. Esisteva poi il tasto del magico sesto canale della filodiffusione, che per un paio d’ore al giorno ampliava in stereofonia il canale di classica. A metà anni Settanta le radio private trasmettevano persino in quadrifonia, ma il tapino sesto canale alle dieci di sera continuava ad annunciare il programma sperimentale stereofonico di due ore. La filodiffusione era una meraviglia per chi voleva o aveva bisogno di musica di sottofondo, oltre tutto benché la trasmissione fosse in AM, la notevole ampiezza di banda permetteva un’ottima qualità sonora, seppure in mono. Un certo impulso alla diffusione del servizio fu l’introduzione della italiana Brionvega di un ricevitore disegnato da Marco Zanuso che resta una delle migliori realizzazioni del design europeo applicato all’elettronica di consumo. Era così bello che non poteva mancare nelle case della gente-bene delle grandi città mentre in provincia, l’ambito per il quale teoricamente la filodiffusione era nata, arrivavano perlopiù ricevitori di color grigio-crema ospedaliero neanche brutti ma neppure molto gradevoli prodotti per esempio dalla Siemens italiana. Anzi, in provincia non arrivavano neanche i ricevitori bruttini, perché fuori delle grandi città e soprattutto nei paesini più lontani dalle centrali telefoniche, il segnale proprio non c’era. In seguito anche la Siemens assoldò Zanuso il quale propose un ricevitore che pur non essendo una meraviglia del Creato aveva comunque una sua eleganza plasticosa. Ricevitore per filodiffusione prodotto dalla SIT-Siemens, fine anni Cinquanta. Licenza CC BY-SA 4.0 da Wikipedia L’impossibile raggiungimento dei centri minori e distanti è il punto. In Europa, la filodiffusione era stata introdotta stabilmente nel 1931 in Svizzera con una tecnologia primitiva, o telefonavi o ascoltavi la radio, usando esattamente le stesse motivazioni distributive presentate in Italia trent’anni più tardi. In Baviera già negli anni Venti era stato approntato un servizio analogo. Una decina di anni fa, la lettura di un interessante volumetto dedicato alla storia delle telecomunicazioni nella regione di Innsbruck, in Austria, mi ha rivelato uno dei possibili motivi di fondo, globali ma soprattutto italiani, soggiacenti alla nascita della filodiffusione: “Durante la seconda guerra mondiale, i trasmettitori dei programmi radiofonici erano i principali punti di orientamento per gli aeroplani nemici in incursione. Per render più difficile la loro navigazione venivano allora attivati diversi trasmettitori sulla medesima frequenza e con lo stesso programma ma in luoghi diversi e con la stessa potenza mentre al contempo venivano spenti quelli presenti nelle zone verso cui intendevano dirigersi i velivoli. In questo modo si interrompeva però la diffusione di notizie e la gente si ritrovava isolata e priva di informazioni talora vitali.Sin dall’inizio della guerra si cercò dunque il modo di poter diffondere in ogni situazione bollettini importanti e in tempo reale alla popolazione civile. Per questioni organizzative si escluse l’utilizzo del telefono per l’inoltro dei dispacci, ma si trovò comunque il modo di utilizzare le linee telefoniche sfruttandole come veicolo per diffondere il segnale radiofonico nell’ambito delle onde lunghe (da 150 a 300 kHz)“ (R. Lechmann, Die Entwicklung von Telegraphie, Telephonie und Sendeanlagen im Bereich der Post – und Telegraphendirektion Innsbruck, 2006, p. 191). La descrizione ha qualche lacuna: se anche veniva acceso un trasmettitore civetta a cinquanta chilometri da, poniamo, Innsbruck, il suo segnale sarebbe stato comunque ricevibile in città. Lo svantaggio del sistema era che gli utenti provvisti di telefono erano ancora relativamente pochi, però quei pochi potevano far passa parola con il vicinato. Resta il fatto che la postazione militare di allertamento di attacchi aerei poteva avvisare prontamente la popolazione con un sistema il cui segnale restava confinato nei cavi telefonici e che non poteva essere usato dall’aviazione nemica per localizzare gli obiettivi da bombardare né essere ascoltato per conoscere eventuali contromosse. Questo metodo di occultamente e allertamento era stato mutuato dalla Germania, che l’aveva imposto ovunque possibile dopo il tragico bombardamento di Hannover. Il quotidiano viennese “Kleine Volks-Zeitung” nell’articolo Hier spricht der Drahtfunk – Qui parla la filodiffusione – del 25 luglio 1944 spiega che “Quando nel mezzo di un programma radiofonico trasmesso dalla stazione di Vienna si ode il canto di un cuculo, bisogna passare all’ascolto della filodiffusione, su cui continuerà l’emissione. […] Già dopo pochi minuti […] si presenterà l’annunciatrice: ‘Qui parla la filodiffusione e la difesa dell’aria di Vienna! Diamo ora notizie su attacchi aerei [Luftlagemeldung]…‘“. L’utilizzo della filodiffusione come strumento di difesa era stato caldeggiato dallo stesso Hermann Göring, braccio destro di Hitler e fondatore della Luftwaffe, l’aviazione militare dell’era nazionalsocialista. Finita la guerra, la rete austriaca di filodiffusione continuò a espandersi, la gente apprezzava la possibilità di ricevere senza disturbi i programmi nazionali e in alcune regioni quelli svizzeri, fin quando finì più o meno forzatamente nel dimenticatoio.Ora, ci si può domandare se la filodiffusione sia nata come strumento di comunicazione in tempo di guerra, attuale o in previsione, o se sia stata considerata un utile strumento di diffusione soprattutto musicale rivelatosi poi prezioso come arma tattica di difesa. Certo è che in Germania il servizio fu chiuso nel 1963 (a Berlino nel 1966). In Austria e Svizzera, qualche anno più tardi. E invece in Italia si svegliarono misteriosamente a fine anni Cinquanta, quando però non c’era alcuna guerra in corso ed esistevano centinaia se non migliaia di trasmettitori che permettevano di ascoltare ovunque e discretamente bene i programmi radiofonici dell’allora monopolista Rai. Perché allora mettere in piedi un sistema tecnicamente così complesso a fronte della ipotetica necessità radiofonica dilettevole di uno sparuto numero di abitanti di valli dolomitiche? E soprattutto perché presentarlo come praticamente e velocemente fattibile, quando era tecnicamente evidente che non si sarebbe mai riusciti a portare il segnale radiofonico in tutte le centrali telefoniche più remote? E ancora e soprattutto, perché non introdurlo solo nelle località effettivamente isolate? Un ingegnere Telecom in pensione mi ha rivelato che ancora negli anni Novanta “nel bellunese il servizio era molto limitato, poiché copriva i soli comuni di Belluno e Cortina d’Ampezzo”: e le centinaia di paesini e paesoni minori come Agordo o Santa Lucia? Lì niente. Il sistema non funzionò mai nei termini definiti dal progetto ufficiale, la filodiffusione di fatto non raggiunse mai le località lontane dai capoluoghi. Portare i segnali della filodiffusione in ogni singola centrale telefonica periferica implicava uno sforzo logistico e economico decisamente più pesante della istallazione di un ripetitore radiofonico locale. E per quel che ricordo da grande ascoltatore di radio da bambino, la Rai si sentiva bene in Val d’Aosta come in Alta Valtellina. Affermare di poter raggiungere con cavi, amplificatori, ripetitori di segnale la miriade di paesini marchigiani appollaiati ognuno su un proprio colle o le località disperse nell’entroterra ligure era davvero un azzardo. Però: ancora nei primi anni Sessanta del Novecento gli aerei non potevano far conto su sistemi di navigazione granché più sofisticati di quelli usati durante la guerra finita quindici anni prima. Avanzo l’ipotesi che l’improvviso interesse italiano per la filodiffusione fosse nato come una delle misure di difesa da adottare contro il pericolo sovietico, sempre incombente soprattutto con il potenziale attivismo di buona parte di quei comunisti italiani che ancora non avevano abbandonato l’idea di un Paese obbediente a Mosca. In questo senso la filodiffusione era perfetta proprio per il motivo opposto a quello della sua presentazione: funzionava solo nelle città principali, quelle popolose e con industrie da proteggere come Trieste. Gladio, l’organizzazione anticomunista finanziata dalla Cia, nasceva in quegli anni e tra i suoi fondatori c’era Francesco Cossiga, radioamatore esperto di questioni radiofoniche e poi informatiche. Si può ipotizzare che anche su suo consiglio la filodiffusione fosse stata inserita tra gli strumenti di difesa da una invasione che avrebbe probabilmente sfruttato il passaggio aereo dalla limitrofa Jugoslavia e che seppure ipoteticamente limitata all’Italia nordorientale avrebbe quasi certamente scatenato attacchi mirati su larga scala. Quello che accade oggi in Ucraina. Certo non si sarebbe potuto dire la verità alla popolazione, intenta a ricostruire il Paese, circa il progetto, meglio presentarlo come una delle tante nuove prospettive di progresso, in fondo la televisione era stata inaugurata pochi anni prima e il secondo canale era in arrivo assieme ai primi satelliti per telecomunicazioni. Può anche darsi che dietro la filodiffusione (e dietro a chissà quante cose) esistessero solo pressioni americane propagandistiche finalizzate a tenere alta la tensione tra i dirigenti delle forze democratiche che si ritrovavano a dover fronteggiare un partito comunista allora di violentissima e gravissima pericolosità. Pressioni e finanziamenti pur di evitare inopportuni compromessi storici. Negli atti parlamentari relativi all’istituzione del servizio non ho trovato che i soliti e vaghi accenni alla necessità di una distribuzione del segnale radiofonico nelle località lontane, senza obiezioni neppure da parte delle opposizioni teoricamente obiettivo dell’iniziativa, le quali incapsulate nelle loro prigioni ideologiche antitecnologiche probabilmente non capivano neanche di che cosa si stesse parlando. Peraltro anche i parlamentari peones delle varie maggioranze democristiane erano perlopiù un esercito di avvocati e laureati in lettere del tutto incompetenti di questioni tecniche. Sfogliando i numeri del “Radiocorriere TV”, la pubblicazione ufficiale Rai, dal 1957 al 1965 non ho trovato praticamente nessuna informazione estesa sulla filodiffusione, eppure il giornale era non di rado prodigo di notizie sugli avanzamenti tecnologici dell’azienda. A metà anni Sessanta il “Radiocorriere” cominciò a pubblicare la programmazione dettagliata del quarto e quinto canale, divisa per regioni: trasmettere da Roma simultaneamente verso tutta Italia occupando ben due canali nazionali di trasferimento era ai tempi un impegno gravoso, così fu organizzato un viavai di nastri (o di speciali dischi a uso radiofonico, non ricordo), per cui i nastri che erano stati trasmessi nel nordovest da Torino erano poi trasferiti, poniamo, a Napoli per essere diffusi nella rete di filodiffusione del sud, e via così. Qualche anno fa i residui utenti della filodiffusione italiana sono stati congedati. Il suo segnale utilizzava una banda di frequenze occupata dal canale di upload della Adsl, e comunque per poche migliaia di persone era necessario tenere in piedi una costosa e complessa struttura in rapida obsoloscenza. È una piccola e verosimile storia di natura complottista che vorrei anche inducesse i complottisti di professione a non guardare all’ovvio, per di più sbagliato, come il 5G o le batterie degli smartphone che non si possono sostituire, ma a frugare tra le pieghe dei fatti quotidiani apparentemente più banali. È lì che si nasconde l’oscuro inatteso, come nella filodiffusione di settant’anni fa. Poi magari si trattò solo dell’iniziativa di un dirigente miope. (Testo Copyright © 2023 Andrea Antonini Berlino; immagini di pubblico dominio o protette dalle licenze indicate; immagine di apertura, elaborazione grafica di un apparecchio per filodiffusione Brionvega di proprietà dell’autore). Navigazione articoli ESPERIMENTI DI PALEOARTE VELOCIRAPTOR, CHI SEI REALMENTE?