Considerato con un po’ di superficialità un regista di commedie per famiglie, John Hughes (nato a Lansing, nel Michigan, il 18 febbraio del 1950 e morto nel 2009) è stato un autore più complesso e stratificato di quanto possa sembrare. Il fatto che abbia abbandonato la regia nel 1991 dopo pochi film girati e a soli sette anni dall’esordio (limitandosi poi a produrre e a scrivere sceneggiature, allontanandosi da Hollywood) già denota una personalità non comune, che pure lavorava all’interno dell’industria e del cinema di consumo.

Tuttavia è innegabile che se la famiglia non è identificabile come il suo solo riferimento dal punto di vista della fruizione, sia stata però il comune denominatore dell’intera filmografia del regista.

“Penso che specialmente le ragazze siano pronte per questo tipo di film, dopo esser state disgustate dal sesso e dalla violenza di molti film per teenager”.
La frase pronunciata da John Hughes nel 1984 in un’intervista fattagli dal critico Roger Ebert suona come una dichiarazione d’intenti, relativa non solo ai film realizzati soprattutto nella prima parte di carriera, ma in generale alla sua idea di cinema. Sceglie infatti di raccontare la società americana concentrando in particolare l’attenzione sul microcosmo dell’unità familiare, visto inizialmente attraverso gli occhi delle adolescenti e comunque utilizzando sempre i toni della commedia.

L’esordio registico di John Hughes, Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare (del 1984) racconta il giorno del sedicesimo compleanno della liceale Samantha (Molly Ringwald). La ragazza ha grandi aspettative, si attende perlomeno gli auguri da parte dei suoi familiari. I quali però presi dai preparativi per il matrimonio della figlia più grande, se ne dimenticano.
Hughes adotta il punto di vista di una ragazza, con tutti i problemi connessi all’età, innestandolo sul rapporto figli/genitori e creando fin dal primo film una sorta di ritratto della famiglia americana, sostanzialmente middle-class e più o meno tipica.
Il finale è lieto. Sam viene invitata a uscire dal ragazzo di cui è innamorata e che non credeva fosse interessato a lei, e i genitori si scusano per essersi dimenticati del suo compleanno. Ciò non toglie che la dimenticanza ci sia stata.

 

La famiglia è fuori-campo, o quasi, nella successiva prova registica di Hughes, Breakfast Club (1985). Cinque studenti della Shermer High School (Shermer è un’immaginaria città dell’Illinois dove Hughes ha ambientato vari suoi film) vengono costretti per punizione a trascorrere il sabato nella biblioteca della scuola. Sono due ragazze, Claire (Molly Ringwald) e Allison (Ally Sheedy), e tre maschi, John (Judd Nelson), Andrew (Emilio Estevez) e Brian (Anthony Michael Hall).
La sceneggiatura descrive nella prima sequenza i ragazzi con la voce off di Brian nel modo, convenzionale, in cui li vede il professore incaricato di sorvegliarli. Claire la principessa, Allison la pazza, John il criminale, Andrew l’atleta, Brian il genio.
La famiglia è rappresentata fisicamente solo all’inizio del film quando i rispettivi genitori accompagnano in automobile i figli a scuola e quando alla fine li vengono a riprendere. Nel caso di Brian ad accompagnarlo è la madre (con la sorellina), a riprenderlo è il padre, interpretato proprio da Hughes. Mentre Allison scende dall’auto quando arriva ma non si vede l’interno e quando esce vediamo solo una figura dietro al parabrezza seduta accanto al guidatore.
John è l’unico che arriva e torna a casa a piedi.
La situazione familiare dei ragazzi viene fuori però dai discorsi che fanno durante la giornata, da John in particolare. È John che chiede a Claire chi le piaccia di più tra suo padre e sua madre: lei risponde che sono matti tutti e due e che probabilmente sceglierebbe suo fratello. Perché ai suoi genitori non importa niente di lei e la usano solo come un’arma per combattersi.
Poi John chiede a Andrew se va d’accordo coi genitori e dalle successive battute si può intuire che la risposta sia negativa. D’altronde lo si era già desunto dal dialogo iniziale in auto tra Andrew e il padre. Brian si inserisce nel discorso dicendo che nemmeno lui ci va d’accordo, che non gli piacciono nonostante siano perfetti.
Più avanti sempre John in una scena particolarmente efficace prima descrive in modo sarcastico com’è secondi lui la vita familiare di Brian e quando Andrew gli chiede come sia la sua fa capire che il padre è un tipo volgare e violento, mostrando una bruciatura di sigaretta sul braccio.


Dopo l’esordio con una protagonista femminile, e un “break” di gruppo, John Hughes a partire dal terzo film, La donna esplosiva (1985), comincia ad adottare un punto di vista decisamente maschile. Lo fa oltretutto utilizzando un genere che non sembra nelle sue corde, almeno come regista. La vicenda difatti è fantascientifica, anche se virata ancora una volta nei toni della commedia adolescenziale.

Due liceali, Wyatt (Ilan Mitchell-Smith) e Gary (Anthony Michael Hall), non hanno successo con le coetanee e allora usando il computer di Wyatt creano la donna dei loro sogni, la bellissima ed emancipata Lisa (Kelly LeBrock).
Dato il soggetto, Hughes deve per forza infilare qualche spunto sexy a lui poco congeniale. A tal proposito, è indubbio che Hughes non abbia inventato il genere giovanilista-scolastico, che negli Stati Uniti esisteva già da tempo, anche al di fuori della commedia. Ha caso mai eliminato le situazioni voyeuristiche, farsesche ed erotiche (presenti in film degli anni Ottanta come Porky’s, American College e Fuori di testa), lo ha reso più sentimentale, più familiare appunto e se vogliamo anche più realista.
Certo, una favola fantasy un po’ sconclusionata (almeno rispetto alle regie solitamente nitide e controllate di Hughes) come La donna esplosiva non può considerarsi esattamente “realista”, eppure non mancano le asprezze, sempre riguardanti la famiglia. Ad esempio nel rapporto di Wyatt con il fratello maggiore, Chet (Bill Paxton), che lo prende in giro e lo ricatta. Tanto che poi Chet per punizione viene trasformato da Lisa in un essere ripugnante e fatto tornare normale dopo che ha promesso di comportarsi bene.

 

Il rapporto figli-genitori, ma in generale familiari, e dunque anche tra fratelli, è una costante nella filmografia di John Hughes. S’è visto quello che accade in Sixteen Candles. Stante l’apparenza idilliaca, resta un’incrinatura, come la dimenticanza del compleanno. Da ciò traspare un certo ironico distanziamento del regista dallo stereotipo della famiglia borghese americana. Non solo nei confronti degli adulti, peraltro, nonostante nei primi anni di carriera fosse considerato un autore “per giovani”.
In Una pazza giornata di vacanza, del 1986, il protagonista è ancora un liceale, Ferris Bueller (Matthew Broderick). Una mattina Ferris si sveglia con la ferma intenzione di marinare la scuola.
Ai genitori fa credere di essere malato. Madre e padre ci cascano e quando escono il ragazzo telefona al suo migliore amico, il ricco e problematico Cameron (Alan Ruck), e alla sua ragazza, Sloane (Mia Sara), organizzando una giornata in giro per Chicago a bordo della lussuosa automobile dell’ignaro padre di Cameron. Pranzano sotto falso nome in un ristorante esclusivo, visitano un museo, si ritrovano in mezzo a un’affollata parata.
Nel frattempo la notizia dell’assenza di Ferris si diffonde tra gli studenti, che organizzano una colletta credendo che il compagno debba curare chissà quale grave malattia, e diventa addirittura di dominio pubblico. Alla fine della giornata, Cameron, che ha un rapporto difficile col padre, distrugge l’auto mentre Ferris riesce a tornare a casa e a mettersi a letto prima che i genitori rientrino, riuscendo anche a evitare che il preside Rooney (Jeffrey Jones), sospettando l’inganno, ne sveli la scappatella.
Se in Sixteen Candles la dimenticanza, pur con le dovute e tardive scuse da parte dei genitori, resta, il soggetto di Una pazza giornata di vacanza può ricordare un progetto di Godard, tratto dall’Emilio di Rousseau: la storia di un liceale che diserta le lezioni e sceglie di apprendere leggendo, guardando le persone, andando al cinema. Ma il gesto di Ferris è pur sempre basato sull’inganno, su una menzogna a cui i genitori credono persino di fronte all’evidenza.
La madre infatti allibisce sentendo che il figlio è stato assente ben nove volte e finisce per ignorare le parole del preside, mentre il padre incrocia in due occasioni Ferris (prima lo scorge a bordo di un taxi, poi mentre il ragazzo lo affianca correndo), ma preferisce convincersi d’aver visto male.
Per non parlare del rapporto di Cameron col padre, che per il ragazzo simboleggia, dice, “fatti e persone per me negativi”, a cui vuole sottrarsi.


Tra il 1987 e il 1988 Hughes gira due pellicole con protagonisti adulti.

In Un biglietto in due, del 1987, in prossimità del Giorno del Ringraziamento, il pubblicitario Neal (Steve Martin) si appresta a partire da New York per tornare a Chicago e festeggiare con la famiglia. Il volo però viene cancellato e Neal è costretto ad aspettare in aeroporto. Qui fa la conoscenza con il logorroico e però amichevole venditore Del (John Candy), che si ritrova a fianco sull’aereo quando finalmente riesce a partire. Da questo momento i due finiscono per condividere un viaggio disastroso tra contrattempi e disavventure. Dopo l’iniziale insofferenza di Neal e i conseguenti tentativi di liberarsi di Del, nasce un rapporto d’amicizia. Quando arrivano finalmente a Chicago, Neal scopre che Del è rimasto vedovo e non ha una casa. Lo invita perciò a trascorrere il giorno del Ringraziamento con i suoi.
Un biglietto in due è probabilmente tra tutti i film di Hughes quello nel quale la famiglia assume maggiore rilevanza. Se nei primi lavori vi erano assenze e fratture subite dagli adolescenti, qui personaggi adulti sono costretti a ingaggiare una vera e propria lotta contro lo spazio e il tempo per ricongiungersi con la famiglia nel luogo nel quale per eccellenza essa si costituisce, la casa (altro elemento basilare nella filmografia del regista). Il viaggio, irto di ostacoli, da New York a Chicago (Chicago è la città in cui Hughes aveva scelto di vivere e lavorare), si frappone tra Neal e la propria famiglia. In mancanza di una contrapposizione figli/genitori come nei titoli precedenti.
In linea teorica, Del non ha una famiglia da cui tornare. Nel corso della narrazione però la famiglia di uno diventa anche quella dell’altro, tanto che una volta scesi dal treno a Chicago, si salutano e Neal dice a Del di salutare sua moglie, aggiungendo: “Mi sembra quasi di conoscerla”. E nella scena in cui i due arrivano a casa, la famiglia di Neal diventa davvero anche quella di Del.
Tuttavia, lo sguardo di Del su cui si chiude il racconto del lungo viaggio verso casa è un fermo immagine alquanto significativo che sembra esprimere il senso di una mancanza destinata a perdurare.
Un biglietto in due a dire il vero non finisce così. Dopo i titoli di coda, con una sorta di circolarità, torna nel luogo dove è cominciato. L’elegante sala riunioni di un’industria di cosmetici. Nella scena iniziale Neal insieme ad altri colleghi attende il responso del cliente su alcuni layout per la campagna pubblicitaria di un rossetto. Ma la decisione viene rinviata a una riunione successiva. Nella scena conclusiva, vediamo il cliente, questa volta da solo, ancora intento a osservare i layout.


Il mondo della pubblicità è presente in vari film di Hughes, sia diretti che scritti. Lui stesso, del resto, ha lavorato fino al 1978 presso l’agenzia pubblicitaria Leo Burnett di Chicago come copywriter.

Un amore rinnovato, che viene distribuito dopo Un biglietto in due ma che in realtà è stato girato prima (segno forse dell’intenzione di raccontare film dopo film il passaggio dalla giovinezza all’età adulta), potrebbe avere addirittura un’origine autobiografica. Il protagonista, Jefferson o Jake (Kevin Bacon), sta per sposare Kristy (Elizabeth McGovern) nonostante il parere negativo del futuro suocero, che lo ritiene un buono a nulla. Del resto, Jake è disoccupato, non è ancora laureato e ammette di non avere le idee chiare sul proprio futuro, anche se aspira a diventare uno scrittore. Dopo il matrimonio, non volendo che Kristy sia l’unica a lavorare, Jefferson trova un impiego in una grande agenzia pubblicitaria. La coppia però vive momenti di crisi, anche per via delle intromissioni di un amico di Jefferson e dei rispettivi genitori, soprattutto del padre di Kristy, che vorrebbe un nipotino. Jefferson non è propenso ad avere un figlio, teme che diventare padre potrebbe ingabbiarlo. Kristy riesce a convincerlo e dopo alcuni infruttuosi tentativi rimane incinta. Le difficoltà del parto rinsaldano il rapporto coniugale.
Il discorso familiare si fa ancora più pregnante in questo che forse è il film più ambizioso e stravagante (visioni e sogni di Jake contrappuntano la narrazione) del regista. Sia per Jefferson che per Kristy il rapporto con la propria famiglia e con quella dell’altro è frustrante e fonte di discussioni.
Lui poi sembra ancora molto legato alla propria (a un certo punto pensa che signora Briggs sia riferito alla madre e non alla moglie) e la cosa infastidisce Kristy.
Con la nascita del bambino si conclude il film. L’arrivo del figlio fa della coppia una famiglia a sé stante, che una volta per tutte si stacca dalle precedenti, appianando ogni tipo di contrasto.

 

In Io e zio Buck, del 1989, i coniugi Cindy e Bob Russell devono recarsi al capezzale del padre di lei, che ha avuto un infarto. Hanno quindi bisogno di trovare qualcuno a cui affidare i figli: l’adolescente Tia, in perenne conflitto con la madre, e due bambini. Non avendo altre possibilità, si rivolgono al fratello di lui, Buck (John Candy), nonostante Cindy non lo ritenga adatto. Invece Buck si dimostra all’altezza e riesce persino ad accattivarsi la simpatia di Tia, inizialmente ostile. Il miglioramento del rapporto con lo zio influisce sullo stato d’animo di Tia, che si riavvicina alla madre.
Con Io e zio Buck Hughes propone quasi una summa dei film precedenti e getta le basi di quelli che seguiranno. Troviamo l’adolescente problematica che ha un rapporto difficile con la famiglia come in Breakfast Club, l’assenza dei genitori come in La donna esplosiva, lo strepitoso John Candy propone un personaggio per certi versi simile a quello di Un biglietto in due (lui stesso a un certo punto descrive se stesso come “matto, disoccupato e buono a nulla”, ma è così che lo vede Tia e anche si qui torna a Breakfast Club). Bug (notare l’assonanza con Buck), lo studente scapestrato che cerca inutilmente di sedurre Tia, somiglia ad altri studenti immaginati dal regista e più in generale ai “cattivi” sopra le righe e perdenti che diventeranno un suo marchio di fabbrica nelle sceneggiature successive. Come i bambini, che qui per la prima volta assumono un ruolo di assoluto rilievo.


Le bambine hanno meno spazio nell’intera produzione del regista, però solo una bambina, Curly Sue, riesce a essere protagonista (è il titolo originale a designarla tale) di una pellicola di John Hughes: a nessun coetaneo maschio è capitato.

In La tenera canaglia, del 1991, il senzatetto Bill Dancer (Jim Belushi) s’è preso cura di Sue dopo che la bambina, figlia della sua ex-compagna, è rimasta orfana. I due girano per gli Stati Uniti arrangiandosi come possono. Un giorno per rimediare un pasto Bill finge un investimento ai danni dell’avvocatessa in carriera Grey Ellison (Kelly Lynch). La donna infatti offre loro la cena. Qualche giorno dopo Bill e Sue tornano dove lavora Grey, sperando di incontrarla e magari di approfittare nuovamente della sua generosità. Questa volta però Bill viene davvero investito da Grey, che porta lui e la bambina a casa sua, nonostante l’opposizione del suo fidanzato, il cinico yuppie Walker (John Getz). Dopo una serie di vicissitudini, Bill e Grey scoprono di essere innamorati, e con Sue formano una vera, nuova famiglia.
La tenera canaglia non può essere annoverato tra i migliori film di Hughes, comprendendo quelli prodotti e sceneggiati. Il regista riesce come sempre a creare un buon equilibrio tra situazioni serie (che qui non mancano) e comiche. I personaggi principali però sono poco empatici e rispetto al solito le figure di contorno non restano impresse. Rimane tuttavia la degna conclusione di una carriera registica ed è difficile pensare che possa essere casuale il fatto che ciò avvenga al tramonto di un’epoca: la fine dei “suoi” anni Ottanta.
Dal punto di vista tematico, Hughes afferma per l’ennesima volta, con forza e in maniera definitiva, che la famiglia, pur con tutto ciò che di irrisolto vi è in essa, è l’unica ancora di salvezza, l’approdo insostituibile.

 

Nella carriera di John Hughes l’attività di sceneggiatore per film diretti da altri (che in vari casi realizza anche in veste di produttore) non è stata certo di minore importanza.
Non solo per via della quantità, visto che è proseguita ben oltre quella di regista, ma perché probabilmente lo stesso Hughes anteponeva il lavoro di scrittura a quello dietro la macchina da presa. Lo testimoniano le numerose sceneggiature mai diventate film.
Quanto invece a quelle realizzate, si può facilmente notare che le sue storie sono semplici ma quasi sempre efficaci variazioni su due o tre soggetti. Fin dai primi lavori.
La famiglia, la famiglia in viaggio, il viaggio per tornare dalla famiglia. Nel 1978 Hughes scrive un racconto, intitolato Vacation ‘59, che viene pubblicato dalla rivista satirica National Lampoon (fondata nel 1970 da Douglas Kenney e Henry Beard), con cui in quegli anni collabora assiduamente.
Il racconto, narrato dal figlio maggiore, è imperniato sulle disavventure che capitano alla famiglia Griswold durante un viaggio dal Michigan a Hollywood.
Apportando alcune modifiche, nel 1983 Hughes sviluppa una sceneggiatura per il film National Lampoon’s Vacation, diretto da Harold Ramis. Il padre di famiglia Clark Griswold (Chevy Chase) ha programmato una vacanza in auto attraverso gli States, da Chicago alla California, insieme alla moglie Ellen (Beverly D’Angelo) e ai due figli adolescenti Rusty (Anthony Michael Hall) e Audrey (Dana Barron). Il viaggio prevede varie tappe, tra cui la visita alla famiglia della sorella di Ellen, i Johnson. Qui viene affidata loro la zia Imogene perché la riportino a casa, ma la donna muore durante il viaggio. Quando infine arrivano all’agognata meta, il parco a tema Walley World, lo trovano chiuso per pulizia e riparazioni. Clark non ci sta, si arma di una pistola giocattolo e costringe la guardia a far fare alla famiglia il giro del parco. Alla fine arrivano la polizia e Roy Walley, che però non sporge denuncia.
La differenza più evidente riguarda il finale. Nel racconto la famiglia raggiunge Disney World, incontrando addirittura Walt Disney in persona. Inoltre, nel racconto i Griswold hanno anche un neonato, che nel film invece è l’ultimo nato dei Johnson. Tra le aggiunte al racconto operate da Hughes, un flirt di Clark con una bionda avvenente, che si conclude comicamente nell’acqua fredda di una piscina.
National Lampoon’s Vacation è una delle più riuscite sceneggiature di Hughes, dimostrazione del suo talento nel creare situazioni tragicomiche, scrivere dialoghi e soprattutto caratterizzare ogni tipo di personaggi, in questo caso valorizzati dall’intelligente regia di Harold Ramis.

 

Dal 1986 al 1988 Hughes scrive e produce tre film per la regia di Howard Deutch. I primi due rientrano nel genere sentimentale con protagonisti adolescenti. In Bella in rosa (1986), la studentessa Andie (Molly Ringwald) si innamora di un ragazzo più grande e di buona famiglia, nel successivo Un meraviglioso batticuore (1987) al contrario è Keith (Eric Stoltz) a prendersi una cotta per una ricca liceale. In entrambi i film ha una certa importanza la figura paterna.
Decisamente più comica è la terza collaborazione tra Hughes e Deutch, Non è stata una vacanza… è stata una guerra (del 1988). Ancora una vacanza, che Chet (John Candy), sua moglie Connie (Stephanie Faracy) e i due figli di tredici e otto anni sono inaspettatamente costretti a condividere con la famiglia della sorella di lei: Roman (Dan Aykroyd), Kate (Annette Bening) e due bambine gemelle. Oltre alle situazioni tipiche di Hughes anche qui vi sono personaggi di contorno delineati con grande intelligenza.
A partire dal grande successo nel 1990 di Mamma, ho perso l’aereo, senza dubbio il maggior incasso della carriera di Hughes, i bambini diventano protagonisti assoluti. Nel film, scritto e prodotto ma affidato a Chris Columbus (anch’egli già affermato sceneggiatore e qui alla seconda prova registica), il piccolo Kevin (Macaulay Culkin) viene dimenticato a casa dai familiari, partiti per una vacanza. Kevin in un primo momento è felice di essere rimasto solo, ma poi deve difendere la casa e se stesso da una maldestra coppia di ladri. Sente infine la mancanza della famiglia e soprattutto della mamma. È proprio il film di Columbus con ogni probabilità ad aver creato la fama di Hughes autore di commedie per famiglie, fama con cui si è dovuto confrontare e che forse lo ha ingabbiato.
Tuttavia Mamma, ho perso l’aereo e ancor di più il seguito non danno una visione poi così idealizzata della famiglia. Resta insomma seppur sottesa l’incrinatura a cui è stato già accennato. Come spesso accade in Hughes c’è bisogno di un intervento esterno (i ladri in questo caso) per saldarla, almeno temporaneamente. Si veda il finale di entrambi. Nel primo il fratello più grande, con cui Kevin è in perenne disaccordo, urla quando scopre che gli ha messo sottosopra la stanza. In Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a new York, nel quale Kevin viene questa volta abbandonato a New York e si stabilisce in un hotel grazie alla carta di credito del padre, è il genitore a urlare quando scopre che il bambino ha speso quasi mille euro per il servizio in camera.

 

Tra i film successivi scritti e prodotti da Hughes con bambini protagonisti, di un certo rilievo sono Dutch è molto meglio di papà (1991, regia di Peter Faiman), nel quale un ragazzino antipatico e snob impara ad apprezzare il nuovo compagno della mamma, Dennis la minaccia (Nick Castle, 1993), in cui un bambino pestifero rende la vita difficile a un anziano e burbero vicino di casa e soprattutto il sottovalutato Baby Birba – Un giorno in libertà (1994, Patrick Read Johnson). I ricchi coniugi Cotwell, Laraine (Lara Flynn Boyle) e Bennington (Matthew Glave) vogliono realizzare un servizio fotografico per il loro bimbo di nove mesi, Baby Birba. I fotografi però vengono sequestrati da tre malviventi, che si sostituiscono a loro e rapiscono il bambino. Quando il bambino scappa, i tre lo inseguono per tutta Chicago.

 


Filmografia essenziale di John Hughes

1979
Delta House (telefilm – episodi The Shortest Yard, The Deformity, Campus Fair, The Matriculation of Kent Dorfman) – sceneggiatura
1983
Mister Mamma (Mr. Mom, regia Stan Dragoti) – sceneggiatura
National Lampoon’s Vacation (regia Harold Ramis)- sceneggiatura
1984
Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare (Sixteen Candles) – regia e sceneggiatura
1985
Breakfast Club (The Breakfast Club) – regia, sceneggiatura e produzione
La donna esplosiva (Weird Science) – regia, sceneggiatura e produzione
Ma guarda un po’ ‘sti americani (National Lampoon’s European Vacation, regia Amy Heckerling) – sceneggiatura
1986
Una pazza giornata di vacanza (Ferris Bueller’s Day Off) – regia, sceneggiatura e produzione
Bella in rosa (Pretty in Pink, regia Howard Deutch) – sceneggiatura e produzione
1987
Un biglietto in due (Planes, Trains & Automobiles) – regia, sceneggiatura e produzione
Un meraviglioso batticuore (Some Kind of Wonderful, regia Howard Deutch) – sceneggiatura e produzione
1988
Un amore rinnovato (She’s Having a Baby) – regia, sceneggiatura e produzione
Non è stata una vacanza… è stata una guerra! (The Great Outdoors, regia Howard Deutch) – regia, sceneggiatura e produzione
1989
Io e zio Buck (Uncle Buck) – regia, sceneggiatura e produzione
Un Natale esplosivo (National Lampoon’s Christmas Vacation, regia Jeremiah S. Chechik) – sceneggiatura e produzione
1990
Mamma, ho perso l’aereo (Home Alone, regia Chris Columbus) – sceneggiatura e produzione
1991
La tenera canaglia (Curly Sue) – regia, sceneggiatura e produzione
Tutto può accadere (Career Opportunities, regia Bryan Gordon) – sceneggiatura e produzione
Dutch è molto meglio di papà (Dutch, regia Peter Faiman) – sceneggiatura e produzione
1992
Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York (Home Alone 2: Lost in New York, regia Chris Columbus) – sceneggiatura e produzione
1993
Dennis la minaccia (Dennis the Menace, regia Nick Castle) -sceneggiatura e produzione
1994
Baby Birba – Un giorno in libertà (Baby’s Day Out, regia Patrick Read Johnson) – sceneggiatura e produzione
1996
La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera (101 Dalmatians, regia Stephen Herek) – sceneggiatura e produzione

 

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