In questi giorni cade il trentennale della uscita nella sale cinematografiche italiane del film Jurassic Park. Io sono sufficientemente vecchio per ricordare come era il mondo della paleontologia prima di Jurassic Park, poiché nel 1993 ero un adolescente appassionato di fossili e scienza, quindi il target predestinato per la “dinomania” commerciale di quegli anni. Inoltre, da metà del tempo trascorso da allora sono anche gestore di un blog che spesso ha parlato di Jurassic Park e del suo impatto mediatico, in particolare nel plasmare (o trasfigurare) concezioni paleontologiche a livello popolare. So che molti “addetti ai lavori” nel mondo dinosaurologico hanno espresso commenti, rievocato esperienze personali, e formulato bilanci sull’eredità di Jurassic Park. Io invece non mi accodo al (rispettabilissimo) filone agiografico e intimista dentro cui la maggioranza delle testimonianze ha dipinto Jurassic Park come un momento di epifania personale. L’eredità di un prodotto culturale non si misura dalle singole esperienze personali (sovente sovraccariche di retorica emotiva), ma analizzando lucidamente (e distaccatamente) le ricadute a larga scala di un successo cinematografico planetario (sì, c’è anche il romanzo, ma il grosso delle ricadute mediatiche popolari è stato prodotto dal film) su una intera generazione nata e cresciuta dopo il film. Che ci piaccia o no, Jurassic Park ha influenzato un’intera generazione. L’impatto del film non si limita alla piccola cerchia di appassionati e paleontologi, perché se così fosse non avrebbe senso rievocare tale evento 30 anni dopo. Quando dico “influenzare” intendo che per la grande maggioranza nata e cresciuta dopo il 1993, è praticamente impossibile pensare ai dinosauri “fuori” dal mondo di Jurassic Park. Sì, sono sicuro che tu che stai leggendo sei un vero appassionato di dinosauri e che penserai che questa frase non si applica a te. Tu hai sicuramente letto e studiato tanti libri di paleontologia, e forse sei persino un giovane paleontologo professionista. Ma ti sbagli a pensare che Jurassic Park non influenzi anche te. Prima di arrivare a te, ti ricordo che in questo contesto tu non sei “la persona media” bensì un caso eccezionale (ma che conferma la regola) che non fa testo per dedurre una tendenza generale. Nella grandissima maggioranza dei casi, quando una persona a caso è invitata a parlare di o pensare ai dinosauri, i suoi pensieri e le sue parole sono invariabilmente filtrati ed elaborati alla luce della iconografia cinematografica spielberghiana. E da là non escono. Oggi è quasi impossibile pensare ai dinosauri fuori dalla logica di Jurassic Park. E persino quando si riesce a farlo, ciò avviene comunque come reazione, risposta, rigetto o riflusso dal “jurassic-park-pensiero”. Questo post ne è un esempio. Da questa prospettiva, Jurassic Park è una gigantesca gabbia concettuale, un’isola per la mente, un vero parco virtuale recintato non con l’elettricità ma con potentissime icone alle quali tutti siamo assoggettati. Jurassic Park ha prodotto una iconografia che, per quanto del tutto particolare, soggettiva e ampiamente discutibile, è divenuta “oggettiva” e quindi “vera”, persino “sacra”. La prova è data delle innumerevoli situazioni in cui mi sono trovato nelle quali ho dovuto spiegare al mio interlocutore perché “no, i dinosauri non erano come quelli di Jurassic Park” e le altrettanto numerose volte in cui la reazione dell’interlocutore a questa rivelazione è stata di costernazione, delusione, sconcerto, ostilità, fino al fanatico rifiuto. Jurassic Park ha incasellato l’immaginario paleontologico di milioni di persone, le quali non sanno nemmeno di essere ingabbiate dentro quella isola mentale. I “dinomaniaci” non sono quindi dei casi patologici marginali, bensì solo la forma più estrema di un fenomeno generazionale su ampia scala, che coinvolge praticamente tutti dal 1993 a oggi. Prendete uno spot pubblicitario su un prodotto non legato alla paleontologia: se nello spot è incluso un dinosauro, nella maggioranza dei casi esso è ricalcato più o meno ottusamente sulla iconografia di Jurassic Park. I dinosauri “in vivo”, in quanto iconografia delle specie estinte, sono irrimediabilmente quelli di Jurassic Park, e non importa se noi quattro addetti ai lavori e voi otto appassionati conosciamo a menadito la enorme quantità di evidenze e informazioni accumulate negli ultimi 30 anni e siamo consapevoli di come queste abbiano sostanzialmente falsificato gran parte dei dettagli inclusi nelle icone di Jurassic Park: queste ultime vincono perché sono ormai profondamente innestate nella mente della collettività. E tale processo di innesto radicato è anche esso un prodotto di Jurassic Park. Come si sono imposti i dinosauri di Steven Spielberg (e il film)? Mostrandosi per la prima volta al mondo come iconografia iper-realistica mediata dalle (allora nuovissime e in parte sconosciute) tecniche di grafica computerizzata: in quel modo, i dinosauri di Jurassic Park hanno sbaragliato ogni oppositore, e demolito qualsiasi altra alternativa iconografica. I dinosauri del film, “più veri del vero”, hanno sbancato ai botteghini proprio perché la loro iper-realistica rappresentazione ha facilmente superato qualunque filtro e opposizione razionale dello spettatore. Più realistici di qualunque precedente rappresentazione, quindi “reali”, quindi, veri. Imponendosi senza più opposizione, le icone del film sono divenute “La” Iconografia dei dinosauri, l’unica possibile, la sola pensabile, quindi QUELLA VERA. Questo processo di radicamento di una sola iconografia ha progressivamente eroso ogni opposizione critica, ha annacquato e sminuito qualsivoglia richiamo alla natura virtuale e soggettiva delle rappresentazioni del film, e ha reso difficile uscire dalla gabbia iconografica auto-alimentata dal franchise. Se lo spettatore medio assume senza troppa critica che una icona iper-realistica è “quella ufficiale”, e ciò viene reiterato e moltiplicato dai sequel e da tutti i prodotti più o meno accodati alla iconografia del film, alla fine non esisterà nemmeno il concetto di “alternativa” a tale iconografia. Ciò spiega lo sconcerto e l’ostilità dello spettatore medio quando gli viene rivelato che le ricostruzioni di Jurassic Park non sono solo obsolete, ma erano soggettive e arbitrarie anche nel 1993. Ricordo quando, a cavallo dell’anno 2000, furono scoperte le piume nei dromaeosauridi, scoperta che di fatto falsifica l’iconografia del celebre raptor di Jurassic Park. Oggi a noi ciò farebbe ridere, ma 15 anni fa non erano pochi i lettori del mio blog che ostinatamente volevano auto-convincersi che la scoperta di “raptor piumati” non implicasse che quelli “squamati” siano da abbandonare. E questa inerzia nell’accettare i fatti scientifici documentati si spiega solo con la difficoltà di scardinare l’iconografia di Jurassic Park dalla mente di chi è “cresciuto” con tale impostazione. Come può una immagine “più vera che vera” essere falsa? Perché dovrei abbandonare qualcosa di così realistico e vivo solo perché qualche stupido paleontologo dice che un fossile mostra qualcosa di diverso? Sì, a ripensare a questi episodi di oltre un decennio fa, si sorride bonariamente. Ma forse quel comportamento di rifiuto delle evidenze scientifiche non è lo stesso tipo di reazione emotiva che guida in questi giorni i vari sostenitori del “T-rex senza labbra”, palese figlio di Jurassic Park? Non sto qui affrontando il dibattito sulle labbra sul piano tecnico, ma analizzo la reazione di chi, senza essere un anatomista comparato, pare comunque sentirsi legittimato a criticare delle ricerche tecniche al fine di “salvaguardare” una certa iconografia, guarda caso proprio quella di Jurassic Park. Dopo tutto, le labbra in Tyrannosaurus erano una iconografia scientificamente fondata esistente ben prima del 1993, e la rimozione delle labbra avvenuta nella ricostruzione di questo dinosauro è proprio parte della iconografia ufficiale di Jurassic Park: possibile che l’ostilità ad ammettere un “ripristino” delle labbra in questi dinosauri carnivori sia proprio legata alla difficoltà ad abbandonare l’iconografia spielberghiana? Forse, tu che stai leggendo pensi di non rientrare tra i casi a cui ho fatto riferimento in questa analisi, perché, in fondo, tu non sei lo “spettatore medio”, non sei un passivo fruitore di icone, perché conosci la letteratura paleontologica e forse sei persino un paleontologo che fa ricerca. Non illuderti: anche tu sei ingabbiato dentro Jurassic Park! Ti faccio una domanda a risposta secca, immediata, a cui rispondere in modo istintivo: come ti immagini un documentario sui dinosauri? Se la prima cosa che hai immaginato nella tua testa è stato qualcosa come Prehistoric Planet oppure Walking with Dinosaurs, allora sei anche tu un felice e mansueto suddito di Isla Nublar. Se la prima immagine che il tuo cervello ha prodotto alla parola “documentario” equivale a una scena in grafica computerizzata in cui dinosauri iper-realistici interagiscono in modo (apparentemente) etologico in un contesto naturale, allora significa che nella tua testa la parola “documentario” è un sinonimo di “filmato alla Jurassic Park”. E ciò avviene solo perché Jurassic Park ha plagiato anche il tuo modo di concepire un qualunque sistema di divulgazione della paleontologia dei dinosauri. Non si può fuggire da Jurassic Park. Non sei ancora convinto? Andiamo allora alla radice del problema. Domandiamoci quale sia lo scopo della paleontologia. Se la tua risposta è “ricostruire la vita e l’aspetto delle specie estinte”, stai sbagliando. Lo scopo della paleontologia è un altro, ed è interpretare la documentazione fossile. No, non sono due modi per dire la stessa cosa. C’è un baratro concettuale che li divide. Per quanto ti possa apparire assurdo, non sempre il lavoro del paleontologo ha come obiettivo quello di “ricostruire la vita del passato”. Nella maggioranza dei casi, il paleontologo cerca di capire perché un fossile esiste, e ciò spesso ha quasi nulla a che vedere con come fosse la vita dell’organismo da cui quel fossile ha tratto la propria forma biologica. Non sempre il paleontologo lavora per “riportare in vita i dinosauri” (anche solo concettualmente). Eppure, quello di “riportare in vita i dinosauri” è proprio il grande pregio di Jurassic Park. Il concetto stesso di Jurassic Park è che i dinosauri non sono estinti del tutto, ma che se si lavora sodo, i dinosauri possono tornare a vivere, anche solo come iconografie iper-realistiche. L’idea, oggi “mainstream”, di ricreare i dinosauri, anche solo virtualmente, è figlia di Jurassic Park. Prima del 1993 nessuno pensava seriamente che questo fosse un obiettivo intelligente di una persona adulta. Già il perder tempo a studiare rocce è considerato ridicolo dalla maggioranza delle persone serie, immaginatevi quello di “ridare vita” a queste rocce… Sì, so benissimo che anche prima del 1993 avevamo già i modelli anatomici, le ricostruzioni in vivo e i paleoartisti, ma non avevano quel peso e quella rilevanza mediatica che hanno oggi. Oggi è praticamente impossibile immaginare di pubblicare una ricerca paleontologica senza corredarla di qualche “ricostruzione”. Il pubblico post-Jurassic Park la chiede, anzi, la pretende! Prima che qualche fanatico della paleoarte inizi a bestemmiare contro la mia iconoclastia (palesando la classica reazione emotiva da dinomaniaco), preciso che io qui non sto dando un giudizio morale di questo cambio di paradigma, non sto dicendo che “era meglio prima”, sto solo constatando che dopo Jurassic Park l’aspetto iconografico e “ricostruttivo” ha assunto un peso che prima non aveva. E che questo cambio di paradigma ha indebolito la paleontologia – intesa come scienza dei fossili – e rafforzato una diversa idea del paleontologo come “investigatore della vita del passato”. Questo ultimo elemento è, però, preoccupante, perché va oltre la paleoarte e il franchise, e ha ricadute proprio sulla ricerca paleontologica. Se nemmeno i paleontologi possono fuggire da Jurassic Park, chi potrà pensare ai dinosauri in modo “scientifico” senza essere plagiato da quel mondo, dalle sue icone, dal suo modus operandi? Quante ipotesi, scenari, modelli, approcci e interpretazioni vengono inconsciamente scartati o evitati perché in qualche modo entrano in conflitto con la paleonto-logica alla Jurassic Park? Faccio solo tre esempi. Quanti ancora non riescono a realizzare che i diversi modelli anatomico-dimensionali dei dinosauri implicano diversi sistemi biomeccanici ed etologici, e non un solo singolo e uniforme modello ricalcato sui dinosauri del film? Quanti ancora si ostinano a pensare che i dromaeosauridi siano terribili macchine di morte, perché così li dipinge il film? E quanti ancora non riescono a immaginare modelli eco-etologici alternativi a quelli della mucca lobotomizzata quando si riferiscono ai dinosauri non-predatori? Ritengo un ultimo il problema più impattante di Jurassic Park: se una intera generazione di paleontologi non riesce a immaginare la paleontologia dei dinosauri fuori dal mondo di Jurassic Park (non solo il mondo iconografico, ma anche quello metodologico), come possiamo essere oggettivi e distaccati analisti della documentazione fossile? Con questa domanda irrisolta, ma che penso sia importante porsi, chiudo questa analisi. Ci siamo tutti dentro. Che ci piaccia o no. Tutti in qualche modo siamo plagiati da Jurassic Park. Nato con l’obiettivo legittimo di fare un enorme successo al botteghino, il film di Spielberg ha demolito gran parte della concezione popolare dei dinosauri e ha imposto la propria personale e del tutto arbitraria iconografia del Mesozoico, in modi e con mezzi di tale potenza che, ancora oggi, spesso in modo non del tutto consapevole, noi dobbiamo fare i conti con tale successo. Ma, soprattutto, Jurassic Park ha eroso l’idea che la paleontologia sia una analisi scientifica della documentazione fossile, innestando in una intera generazione il feticcio che si possa “riportare in vita i dinosauri”. No, non si può riportare in vita i dinosauri, e per quanto avvincente possa sembrare tale obiettivo se visto dal filtro del cinema, esso non è nemmeno lo scopo della paleontologia. In quella illusione tanto falsa quanto ammaliante sta il bilancio finale sulla eredità di Jurassic Park. (Da Theropoda). Navigazione articoli SONO POSSIBILI GLI ZOO CON I DINOSAURI? IL COLORE DEL CIELO AL TEMPO DEI DINOSAURI
Mah! Sono abbastanza vecchio da ricordare il mondo prima di Jurassic Park e non mi pare che i paleontologi fossero una cerchia di grigi studiosi, al contrario ricordo bene come ogni 6 mesi ci fosse una “clamorosa scoperta” che rivoluzionava le conoscenze sulle abitudini di vita delle specie estinte. E gli articoli erano spesso correlati di disegni che mettevano a confronto immagini in stile anni 30 con quelle disegnate per l’occasione. E, da quello che ricordo, i disegni degli anni 80 erano già in stile Jurassic Park. Insomma non mi pare che il film sia uno spartiacque, che ci sia un prima e un dopo nella dinomania. La mia impressione è che la dinomania ci sia sempre stata e il film si è inserito in un immaginario collettivo già formato. Tra l’altro i film (almeno i primi tre) si sono dimostrati disponibili a recepire le nuove intuizioni che arrivavano dal mondo accademico: in Jurassic Park 3 i velociraptor hanno qualche ciuffo di piume e il T. Rex (presente in un’unica scena) si ciba di una carcassa, per adeguarsi alle teorie che lo volevano saprofago. Rispondi
io che sono del 1972 ho ancora in cantina libri di fine anni 70-inizio 80 con tanti bei disegni di dinosauri pre-JP. con le piume o senza, con i combattimenti tra tirannosauro e triceratopo ecc.ecc. e ne andavo matto, appunto una cosa da bambini. come il bestione del museo di milano o gli scheletri montati più o meno correttamente. poi mi sono appassionato del mammuth sperando un giorno di trovarne uno nel permafrost siberiano. Alla fine ho studiato geologia per fare l’indiana jones degli idrocarburi, e dei dinosauri non me ne è più fregato nulla, un po’ di più dei foraminiferi… Rispondi