L’ultimo film di Marco Bellocchio, Rapito, ha fatto riscoprire la storia del piccolo Edgardo Mortara, dopo che ormai era quasi caduta nell’oblio. Una storia scomoda per la Chiesa cattolica ancora oggi, che negli anni di poco precedenti all’unità d’Italia sconvolse la vita di una famiglia israelita. Ma cosa accadde veramente a Bologna? Fu davvero rapito un bambino? Nello Stato Pontificio non era infrequente che la polizia papale facesse irruzione nell’abitazione di un privato cittadino nel cuore della notte, perché non esisteva il diritto d’inviolabilità di un domicilio. Accadde anche la sera del 23 giugno 1858, quando una carrozza si fermò davanti alla casa dei coniugi Mortara. Ne discesero i carabinieri pontifici, agli ordini del tenente Luigi De Dominicis, che bussarono alla porta di Momolo Mortara e Marianna Padovani, ebrei, e li informarono che dovevano consegnare loro il figlioletto Edgardo, di quasi sette anni, perché era stato battezzato. L’ordine proveniva dal padre inquisitore Feletti, uno dei religiosi più devoti al governo pontificio. Momolo disse che si sarebbe opposto con ogni mezzo a una simile barbarie, la madre Marianna si mise a gridare e a piangere, tanto che il bambino per qualche ora non fu strappato ai genitori. Tempo prezioso che permise ai Mortara di avvertire i loro correligionari bolognesi e di tentare di convincere l’inquisitore domenicano a revocare o dilazionare il provvedimento. Fu tutto inutile, il giorno dopo all’una di notte il piccolo Edgardo Mortara fu preso di peso dal maresciallo Lucidi e spinto dentro una carrozza per essere trasportato a Roma. Momolo svenne, Marianna ebbe una crisi isterica, si raccolse persino una piccola folla ostile al rapimento fuori dall’abitazione. Qualche giorno dopo, il signor Momolo apprese da La Civiltà Cattolica (organo di stampa dei gesuiti) che non gli avrebbero restituito il figlio, come invece gli avevano fatto intendere. In base a un antico diritto di origine medioevale, la Chiesa poteva strappare alle famiglie infedeli i figli “oblati” (offerti), che avevano ricevuto il battesimo in punto di morte. Con l’emancipazione degli ebrei in Piemonte (1848), si sperava che i tristi casi di oblazione non si sarebbero più verificati. In questo clima di fiducia, gli ebrei bolognesi si dimenticarono che, nello Stato della Chiesa, vigeva nei loro confronti un vero e proprio apartheid. Per esempio, era proibito tenere a servizio una domestica cattolica, ma i Mortara, come molte altre famiglie ebree, commisero l’imprudenza d’ignorare questo divieto. Fu proprio quest’ultima, dopo il suo licenziamento, a confessare al Padre Inquisitore di aver battezzato il piccolo Edgardo quando aveva appena un anno, perché rischiava di morire (effettivamente il bambino si ammalò, ma non corse mai pericolo di vita). Intanto, dopo un penoso viaggio attraverso l’Appennino, durante il quale non furono di consolazione dolci e giocattoli, il bambino fu condotto nella Casa dei catecumeni (coloro che si preparano a ricevere il battesimo) di Roma e il giorno dopo, fu battezzato solennemente con il nome di Pio Edgardo. Perché fu nuovamente battezzato? Il primo non era valido? O forse, scegliendo di celebrarlo nel giorno dedicato a San Giovanni Battista, lo volevano utilizzare come strumento di propaganda? Momolo Mortara partì per Roma ed ebbe un colloquio con papa Pio IX e il Segretario di Stato Antonelli. Furono gentili ma irremovibili sul rilascio del bambino: era stato battezzato e non poteva più vivere con una famiglia di “infedeli”. Probabilmente pensavano che i genitori, dopo un po’ di tempo, si sarebbero rassegnati, ma si sbagliavano. Pio IX Nel mese di ottobre, Momolo e Marianna si mossero per rivedere Edgardo, che avevano saputo risiedere ad Alatri. Il rettore del Collegio dei catecumeni all’inizio disse loro che il bambino non c’era, poi, quando lo videro in compagnia di alcuni sacerdoti, impedì ai genitori di parlargli e ordinò alle guardie pontificie di cacciarli. Tuttavia, i giornali cominciarono a occuparsi del caso e lo sdegno dei cittadini bolognesi fu enorme. Il clamore suscitato dal rapimento in Italia e in tutta Europa indusse il Papa a permettere finalmente ai Mortara di vedere il proprio figlio, sorvegliati però dal rettore del Collegio dei catecumeni. La madre Marianna poté finalmente riabbracciare il figlio tra le lacrime. Fu un ricongiungimento molto triste, Edgardo le disse che voleva tornare a casa e rimanere ebreo. Dopo questo incontro, ci vollero anni prima che potessero rivedersi. Il caso di Edgardo Mortara diventò presto una questione internazionale. Gli Ebrei piemontesi, francesi e inglesi si appellarono ai rispettivi governi per chiedere ufficialmente il rilascio del bambino e il suo ritorno a casa. I giornali fecero il resto, pubblicando la storia commovente del rapimento e il dolore dei genitori. Se ne occuparono persino giornali statunitensi. Pio IX fu preso alla sprovvista dall’enorme interesse suscitato dal “caso Mortara”. Commise l’errore di non restituire il bambino, convinto che ci fosse un complotto contro la Chiesa cattolica e rispose alle pressanti richieste di liberazione con un lapidario “Non possumus”. Arroccato in un sordo isolamento, cieco di fronte ai cambiamenti che attraversavano le società europee, non capì né la gravità del suo gesto, né di aver distrutto la felicità di una famiglia. La rivista Civiltà Cattolica cercò di difendere la reputazione del pontefice: in un articolo colmo di antisemitismo, sostenne che la stampa era stata aizzata dalla comunità ebraica “potentissima di pecunia nella moderna Europa”… dopotutto era stato sottratto un figlio a una famiglia che ne aveva altri sette. La difesa fu talmente spregevole che indignò anche tanti cattolici. A tal proposito, fu esemplare il dotto libello scritto dell’abate francese Delacouture, in cui, in punta di diritto, dimostrò che quando il bambino fu battezzato la prima volta non era in pericolo di vita e che la seconda non aveva ancora l’età giusta per riceverlo (secondo alcuni teologi, l’oblato doveva aver compiuto 12 anni, secondo altri bastava che ne avesse compiuto 7). Inoltre, sostenne che chi separava i figli dai genitori, andava contro la volontà di Dio. L’opuscolo ebbe una diffusione straordinaria e colpì molti cattolici. Dopo un anno, il caso di Edgardo Mortara continuava a suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica. Quando nel 1860 l’Emilia e la Romagna si ribellarono all’autorità dello Stato Pontificio e si schierarono a favore dell’unità d’Italia (sotto l’egida del Regno di Sardegna), P. Feletti venne messo sotto processo. Il frate domenicano dichiarò di aver eseguito gli ordini del Papa. Tuttavia due testimoni affermarono che nella lettera in cui Feletti ordinava al colonnello De Dominicis di prelevare il bambino, non vi fosse alcun cenno a ordini ricevuti da Roma: si trattava dunque di un’iniziativa personale del padre inquisitore. Purtroppo, il tenente colonnello De Dominicis fece sparire la missiva che attestava la responsabilità di Feletti: l’archivio dei carabinieri pontifici fu distrutto dopo la sollevazione della Romagna e con esso anche tutte le prove della colpevolezza dell’artefice del rapimento. Alla fine Feletti, assolto, scappò da Bologna. Nel 1867, nella Roma ancora governata dal papa, Pio Edgardo Mortara fu ordinato sacerdote a soli sedici anni. Questo successe nonostante il cardinale Antonelli avesse giurato solennemente a Sir Moses Montefiore, celebre filantropo ebreo inglese che si era preso a cuore la vicenda, che Edgardo avrebbe deciso del proprio destino a 18 anni. Il bambino fu una vittima ante litteram della sindrome di Stoccolma: costretto a vivere in un ambiente chiuso e ovattato, sorvegliato rigidamente da religiosi, privo dell’affetto della sua famiglia, finì per empatizzare con i suoi rapitori. Non si può escludere che i suoi educatori gli abbiano inculcato l’idea di essere un nuovo Mosè, predestinato alla conversione degli ebrei. Così si spiegherebbe lo zelo che dedicò alla conversione dei suoi ex correligionari, che guastò i rapporti con la famiglia e lo rese sgradito agli occhi degli ebrei presso ogni città in cui soggiornò. Quando il fratello maggiore Riccardo, bersagliere a Porta Pia nel 1870, una volta che anche Roma venne inclusa nello Stato italiano, volle incontrarlo nel convento in cui risiedeva, lo respinse. E quando seppe che suo padre Momolo era giunto a Roma per rivederlo, fuggì. Momolo morì nel 1871 senza poterlo mai riabbracciare. Sebbene nel 1878 in Francia abbia rincontrato sua madre e si sia riconciliato con i fratelli, non riuscì mai a comprendere il dramma vissuto dalla sua famiglia. Edgardo Mortara, a destra, insieme alla madre Marianna Da adulto non fu mai sfiorato dal dubbio di ciò che era successo: tutto rientrava nel disegno di Dio. Si può affermare che dopo il rapimento la personalità di Edgardo Mortara fu “ristrutturata” dai religiosi cattolici, e ciò gli impedì di capire il dolore dei suoi famigliari. A Edgardo fu impedito di crescere normalmente come i suoi coetanei e fu usato come strumento di propaganda da un governo pontificio ormai agli sgoccioli. La tragedia del caso Mortara è tutta qui. (I fatti narrati sono basati sull’eccellente lavoro di Gemma Volli, Il Caso Mortara, edito per la prima volta nel 1960 e ripubblicato da Giuntina nel 2016. La Volli si documentò ampiamente attraverso la consultazione di archivi e lettere private. Esiste anche un presunto “memoriale di Edgardo” pubblicato da Vittorio Messori nel 2005, a sua volta traduzione di un manoscritto che nessuno storico ha potuto consultare finora, di cui non si sa dove fu ritrovato e chi lo conservò dal 1888 al 2005).Immagine in apertura dell’articolo: Moritz Daniel Oppenheim, “Il rapimento di Edgardo Mortara” (1862) – WikiCommons. Navigazione articoli VENTI LEZIONI ILLUSTRATE PER SALVARE LA DEMOCRAZIA GIORNALI IN ITALIA, IL VELOCE DECLINO