Vivo da alcuni anni a Bruxelles, la capitale belga, nel quartiere Matongé del municipio di Ixelles. Matongè è un affascinante mix di culture africane e di bohème belga, un quartiere eccentrico e alla moda. Un vivace luogo di incontro, pieno di colori, rumore, musica e una varietà di odori, a poche centinaia di metri dai palazzi delle istituzioni dell’Unione europea. Matongè prende il nome da un altrettanto vivace quartiere di Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo (che per un certo periodo di tempo è stata chiamata Zaire). Il quartiere nasce sulla scia dell’indipendenza del Paese nel 1960, in una zona di Bruxelles che già ospitava alcune associazioni africane. Un aristocratico filantropo decise di fondare la Maison Africaine, un ostello per studenti congolesi, attorno al quale è cresciuta una comunità fatta di locali notturni, bar, negozi e parrucchieri, man mano che altri immigrati africani arrivarono. In un’angolo in ombra c’è una statua che non ha nulla di gioioso, un’opera dello scultore congolese Freddy Tsimba: “Oltre la speranza”. La scultura, che rappresenta una madre con in braccio il figlio morto, è realizzata da decine di bossoli di proiettili d’artiglieria leggera saldati tra loro. Rappresenta un massacro dimenticato. Il Congo, quando era un possedimento personale di re Leopoldo II del Belgio, è stato soggetto a uno sfruttamento così brutale da essere causa diretta e indiretta di milioni di morti. Dal 1908 al 1960 il Congo passò dal re all’amministrazione paternalistica del governo belga. La situazione migliorò, ma non abbastanza da cancellare le ferite di quello che è stato il massacro dimenticato della storia coloniale europea. Stanley: l’apripista del Congo Verso la metà del 1800, gli esploratori europei si interessarono all’Africa per ragioni scientifiche, scopi umanitari e missionari. I loro resoconti rivelarono le risorse naturali di cui era ricco il continente, scatenando tra le potenze europee, grandi e piccole, la corsa all’Africa. Un ruolo importante lo ebbe il giornalista Henry Morton Stanley, che divenne famoso per le sue esplorazioni e per la sua ricerca di David Livingstone, un medico e missionario scomparso in Africa. Celebre la frase oltremodo flemmatica, data la situazione, con la quale salutò Livingstone una volta incontrato in mezzo al continente: “Il dottor Livingstone, suppongo” (“Doctor Livingstone, I presume”). Per conto del quotidiano New York Herald e del londinese Daily Telegraph, tra il 1874 e 1877, Stanley diresse la prima spedizione africana “da costa a costa”, dall’Oceano indiano all’Atlantico, discendendo tutto il corso del fiume Zaire, che sarà la grande autostrada liquida per i traffici dell’Africa occidentale. Era l’uomo che cercava re Leopoldo II del Belgio. Per aggirare il coinvolgimento del governo del Paese su cui regnava, che non mostrava interesse né aveva risorse economiche e militari per un’avventura colonialista, nel 1876 il sovrano agì quasi da privato cittadino, fondando l’Associazione internazionale dell’Africa. Nel 1878 assunse Stanley e lo inviò nella regione congolese per stipulare contratti commerciali e diplomatici con le popolazioni del bacino del fiume Zaire, ribattezzato Congo. Henry Morton Stanley In pochi anni Stanley firmò per conto di re Leopoldo oltre quattrocento trattati di commercio o protettorato con i capi locali. Con il sostegno dello schiavista arabo Tippu Tip fondò diversi empori, tra cui Stanleyville (oggi Kisangani) e Léopoldville (Kinshasa) e avviò lo sfruttamento sistematico del Paese. Per appianare le divergenze tra gli Stati coloniali, nel 1884 fu convocata la Conferenza di Berlino, a cui parteciparono quasi tutti i Paesi europei, più Turchia e Stati Uniti. L’Africa fu spartita in zone di influenza tra le varie nazioni europee, con confini che resistono ancora oggi. Le rivalità tra le varie potenze favorirono le mire di Leopoldo e l’antico regno del Congo fu diviso in tre parti: al Portogallo toccò l’Angola, alla Francia la fetta a nord del fiume Zaire e al monarca belga le terre esplorate da Stanley, cioè tutto il bacino del grande fiume e zone circostanti. Nasceva il Libero stato del Congo che il parlamento belga riconobbe come proprietà esclusiva di re Leopoldo II, senza oneri per i contribuenti. Re Leopoldo, con il pretesto della ricerca scientifica, organizzò diverse spedizioni per impadronirsi, a nord, delle regioni del Sudan orientale e, a sud, delle province del Kasai e Baluba: quasi 2,5 milioni di chilometri quadrati. Testimonianza di queste spedizioni è la raccolta di opere del Museo reale per l’Africa centrale. Lo Stato cattolico del Continente nero Con le rendite provenienti dal Congo, Leopoldo assicurò a ogni membro della numerosa famiglia reale un cospicuo reddito annuo, inoltre acquistò in Belgio e in Francia vaste proprietà terriere. Effettuò spese enormi per condizionare la stampa, creando un apposito ufficio per coprire i crimini sulla popolazione locale. Il “Libero stato del Congo” non fu mai né libero né uno Stato, ma un dominio privato che il monarca gestì senza alcun controllo da parte del governo belga. Tutta la terra non coltivata fu dichiarata proprietà dello Stato (cioè di Leopoldo), che aveva il monopolio assoluto sulle sue risorse di qualche valore, il cui sfruttamento fu concesso a varie compagnie con accordi di affitto per 99 anni. Il processo di vulcanizzazione della gomma inventato da Charles Goodyear e il suo impiego industriale, che permise lo sfruttamento industriale del caucciù, fecero della colonia uno dei più grandi serbatoi mondiali di questo prodotto fondamentale per realizzare gli pneumatici necessari alla nascente industria dell’automobile. Tutti gli africani (ironicamente chiamati “cittadini”) furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso. Ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale. Chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione. A chi non produceva la quota di caucciù richiesta veniva tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle. Contro a chi si ribellava si ricorreva all’omicidio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi e presa in ostaggio delle donne. Un testimone di questi orrori fu lo scrittore e avventuriero Joseph Conrad, le cui esperienze vissute in Congo furono materia del suo romanzo più famoso e ambiguo, Cuore di tenebra, in cui la sua visione della natura umana si cristallizza nella figura dell’agente della Compagnia, il famigerato Kurtz. A fare il lavoro sporco erano stati chiamati circa duemila agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del Paese. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse da quelle che dovevano controllare, per assicurare che i nativi facessero il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i capitani subivano fustigazioni o mutilazioni. Congo, il genocidio dimenticato In 23 anni di esistenza, nel Libero stato del Congo morirono milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, che decimò la popolazione. A ciò deve essere aggiunta la caduta del tasso di natalità: un missionario arrivato in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice. Leopoldo sosteneva di non essere responsabile per ciò che i suoi agenti facevano in Congo. In Belgio, il parlamento e l’opinione pubblica consideravano l’intera faccenda come un affare sporco del sovrano e non ne volevano sapere. Le altre potenze coloniali non protestavano perché avevano i propri scheletri nell’armadio. Quando le notizie delle atrocità commesse in Congo cominciarono a diffondersi attraverso i missionari, alla fine l’opinione pubblica si scosse. Prima quella estera, poi anche quella belga. L’americano George Washington Williams, partito per il Congo nel 1890, constatata l’entità del martirio inflitto ai congolesi, scrisse una lettera a re Leopoldo, rinfacciandogli che i servizi pubblici efficienti da lui sbandierati erano un’impostura. Non c’erano né scuole né ospedali, ma solo qualche capanna “neppur degna di ospitare un cavallo”. George Washington Williams I missionari, che erano stati per lungo tempo testimoni impotenti, trovarono un megafono per le loro testimonianze contro i “nuovi negrieri”. Nel 1906, Leopoldo II, di fronte alla crescente ostilità dell’opinione pubblica e sotto la pressione internazionale, fu costretto a nominare una commissione d’inchiesta per indagare sulla gestione del suo Stato. La commissione rivelò in maniera definitiva le atrocità del regime coloniale. Leopoldo usò tutti i mezzi per conservare la sua proprietà personale, ma alla fine dovette cedere il suo possedimento al Belgio. Era l’agosto 1908. Leopoldo bruciò parte degli archivi della sua colonia personale, prima di consegnarli al governo belga. “Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto di conoscere i miei affari”, disse. Una parte importante della storia della dominazione di Leopoldo II sul Congo è sparita dalla memoria degli europei. Come e più di altri stermini che hanno accompagnato la colonizzazione dell’Africa. Oggi il Belgio cerca di fare ammenda di questi crimini, ristrutturando il Museo dell’Africa per togliervi la patina di colonialismo, e relegando la grande statua di Leopoldo II in un’aiuola a fianco del Palazzo Reale. In Africa, però, il ricordo delle atrocità commesse nel nome del sovrano belga non sono state dimenticate, e ogni tanto riemergono clamorosamente. Per esempio, con le periodiche contestazioni all’albo Tintin in Congo. Nel quale l’autore, Hergé, ha implicitamente elogiato la “buona amministrazione” belga e sbeffeggiato la presunta indolenza dei congolesi. Contestazioni che sono arrivate fino alla richiesta di far ritirare l’albo dal commercio. La sentenza del tribunale belga, emessa pochi anni fa, può essere letta in questo articolo di Giornale POP. Navigazione articoli FINALE, DI FRANCO CREPAX FLORENCE NIGHTINGALE E LA MODERNA INFERMIERISTICA