Partiamo da un dato biologico: il cervello rettiliano è stato il primo a svilupparsi ed è deputato alla sopravvivenza in modo istintivo. Produce la conoscenza comportamentale innata, cioè la tendenza a compiere azioni istintive con lo scopo di rispondere a bisogni primitivi di sopravvivenza, come l’esplorazione, la ricerca del cibo, la dominanza di rango e la sessualità. Questa è materia da psicoantropologi, tuttavia appare opportuno parlarne anche a proposito dei social media per evidenziare come detta disciplina abbia notevoli implicazioni con gli attuali metodi di comunicazione. Iniziamo con una citazione di Melvin Kranzberg, storico statunitense del Novecento che, profeticamente, affermò: “La tecnologia non è né buona né cattiva, ma neanche neutrale”. Ma che cosa esattamente significa per lo strumento della tecnologia (che come ben sappiamo non vive, non pensa, non prova emozioni, non dà giudizi e non si schiera politicamente) essere “neutrale”? Cerchiamo di capirlo partendo da uno strumento di cui facciamo tutti quotidianamente uso: il motore di ricerca (in arte Google). Non appena inseriamo nella sua barra una parola o un argomento, esso si mette in moto e, in pochissimi istanti, ci suggerisce nelle prime pagine (le sole che attirano la nostra attenzione) una serie di link da cliccare in cui trovare o approfondire ciò che andiamo cercando. Lo stesso criterio naturalmente vale per i motori di ricerca interni dei principali social media. La tecnologia che sta alla base della ricerca sovrintende quest’ultima e la indirizza, a seconda dell’utente, verso scelte precise. Detto in termini più digeribili: Google e gli altri motori non forniscono le stesse ricerche a tutti gli utenti, se Tizio e Caio effettuano la ricerca sulle voci ”Putin”, ”guerra”,”aborto”,”cibi biologici” eccetera, otterranno risultati completamente diversi, o meglio, Google e i motori dei social forniranno loro risultati completamente differenti. Ma perchè tutto ciò? Chiediamo la risposta a questa domanda a Roger McNamee, imprenditore nelle nuove tecnologie e apprezzato musicista statunitense: “Quando gli utenti sono arrabbiati, consumano e condividono più contenuti. Se rimangono calmi e imparziali hanno relativamente poco valore per Facebook che fa di tutto per attivare il cervello rettile”. Ed eccolo qui, il rettilpensiero che ritorna. McNamee è stato uno dei primi investitori nel neonato Facebook e oggi afferma che la “strategia della rabbia” è il capitale primo dei social network: “Se non sei arrabbiato non stai tutto il tempo attaccato al telefono, se invece aggredisci, senti con la pancia, rispondi nell’immediato, allora sei utile e aiuti a rendere virale il contenuto”. Un valido esempio di questa teoria lo possiamo leggere sulle pagine di Repubblica, dove lo scrittore Roberto Saviano ha formulato un’interessante analisi: “Quello che i social network fanno, ho provato a compararlo al mercato delle auto. Perché più dell’ottanta per cento delle auto sul mercato italiano ha motori in grado di arrivare (e superare) i duecento chilometri orari? In nessuna strada sei autorizzato a tale velocità. Eppure puoi comprare un’auto che corre oltre i limiti, puoi farlo sapendo che rischierai, oltre che di ammazzare e di ammazzarti, il ritiro della patente. I social network fanno qualcosa di simile ma senza limiti. Autorizzano a spammare ogni sorta di contenuto, di insulto, di bugia, di manipolazione, violano sistematicamente la privacy raccogliendo ogni sorta di informazione su di te ma non solo ti autorizzano a farlo, ti garantiscono (e si garantiscono) impunità. Al massimo in qualche raro caso banneranno qualche insulto…“ (cit. “OnLife, Roberto Saviano: “Il mio viaggio nel web oscuro” – Repubblica 2019). Ancora più tranchant e colorito sull’argomento l’attivista e saggista Franco Berardi: “Innumerevoli tempeste di merda sommandosi hanno trasformato l’infosfera globale in uno tsunami di merda che ha disattivato l’universalismo della ragione, ridotto la sensibilità e distrutto i fondamenti del comportamento etico. Il risentimento identitario ha sostituito la solidarietà sociale e la cultura dell’appartenenza ha sostituito la ragione universale. Esprimere i propri pensieri con un tono corretto ed educato viene percepito come inautentico, non utilizzare un registro sarcastico ti degrada immediatamente all’ambiguità: cosa nascondi se provi a convincere e non a demolire, a ragionare e non a vincere? Questo ha creato un riflesso automatico per cui nello spazio dei social il sentire comune crede solo a chi palesa il suo interesse chiaramente, a chi si sente chiaramente che difende se stesso, la sua parte, i suoi soldi, il suo successo, la sua razza. Insomma, sé e basta”. Ecco quindi che il cervello rettile trova il terreno adatto al proprio modo di pensare. Puro istinto, puro automatismo nel postare, nel rispondere, nell’interagire, nell’ingaggiare diatribe con altri utenti. Il cervello rettile non ragiona ma agisce, non riflette ma attacca, non argomenta ma demolisce. Chi pensa con il cervello rettile crede che tutto sia esclusivamente governato da un interesse personale, che l’odio conferisca patenti di autenticità e genuinità e che, di converso, la ricerca di empatia, di giustizia e di bontà siano ambigue e tartufescamente mosse da celati tornaconti personali. Per farla breve, il pensiero rettile non solo ti fa perseguire esclusivamente il tuo tornaconto personale, ma ti fa sentire simile a chi pensa e agisce come te e, passando nel mondo dei social media, ti porta a leggere e condividere solo ciò che conferma il tuo sentire, snobbando e attaccando tutto il resto. Il pensiero rettile non tollera e non sopporta voci discordanti (anzi, induce ad attaccarle senza pietà), è divisivo per definizione. Di questo modo di pensare si nutrono i social media, alimentando lo scontro e la contrapposizione grazie ai filtri dei propri motori di ricerca. Come ben sappiamo, oggi la percezione conta molto più della realtà stessa, e tutti noi abbiamo la cattivissima abitudine non solo di vedere, ma anche di analizzare il mondo attraverso i nostri occhi e quindi attraverso quel minuscolo ed effimero tribunale che è il nostro metro di giudizio, che ci porta a essere sempre in guerra “nel nome di Io”. Ciascuno si percepisce come membro di un’eletta minoranza minacciata (non importa sapere o anche solo indagare da chi) di cui bisogna difendere gli autoproclamati diritti e gli autodeterminati spazi protetti. Ci stiamo abituando, e il pensiero rettile ne è il principale artefice, a comunicare e interagire solo con chi la pensa come noi, scomunicando a scettro teso chi la vede diversamente. Ciò rende impossibile comporre analisi logiche e sensate (perché unicamente autocentrate ed esclusive di tutto ciò che è “altro”). Il “vero” non è più l’intero, anzi, l’intero è drasticamente abolito o, come dovremmo dire oggi, “bannato”. Naturalmente il pensiero rettile, favorendo lo scontro in ogni possibile settore e mettendo al bando qualsiasi tipo di continenza verbale, crea l’humus perfetto per l’insorgere di insulti (spesso anche gratuiti), improperi e minacce di ogni tipo tra gli utenti. Sintomatiche sul punto sono le carrellate di commenti (a volte anche migliaia) che sempre più spesso si possono leggere scrollando i pensieri degli utenti a corredo di un determinato post o di una determinata notizia. A volte sono commenti composti da una sola o da più faccine arrabbiate (o intente a vomitare), a volte sono una sola parola (quasi sempre un insulto feroce o volgare), a volte hashtag (uno su tutti mi ha colpito a corredo di un post: #chediotifulmini!), quasi mai un pensiero elaborato o anche solo quattro o cinque parole una dietro l’altra. Il pensiero rettile è per sua natura spiccio e coltiva il dono della sintesi. Multa paucis avrebbero detto i latini. Da notare come, e correva l’anno 1971, Malcom McDowell, nell’interpretazione (che lo ha reso eterno) di Alex DeLarge, ci fornisce una perfetta e immediata comprensione di come funziona il pensiero rettile in una delle scene più iconiche di Arancia Meccanica. Mentre cammina con gli altri drughi (che lo avevano appena messo in minoranza all’interno del gruppo) sulla baia del cemento abitato, a un certo punto pensa: “E d’un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione”. Dopodiché, con ferocia inaudita, si scaglia contro i suoi amici, prendendone a bastonate uno e ferendo con il coltello l’altro, così da ristabilire immediatamente la propria leadership. Pensiero rettile allo stato puro, che si concretizza nell’agire senza pensare (attività definita “da stupidi”) e nel dare immediato sfogo a quelli che sono i propri bestiali istinti (definiti, quasi romanticamente, “ispirazione”). Anche in questo caso, una delle tante profezie di Kubrick, si è perfettamente avverata. Navigazione articoli LA DECADENZA ESTETICO-SCIENTIFICA DEL DINOSAURO L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NON È DI PER SÉ INTELLIGENZA
Ah be’, Saviano è proprio la persona da citare in un articolo che aspira alla divulgazione scienitifica. Se non altro adesso so che non è che ho un SUV sportivo – che sì, fa tranquillamente i 250 – perché è comodo, sicuro, agile ed è una goduria da guidare, ma perché in fondo non vedo l’ora di tirar sotto qualcuno, ok, capito. Molto scientifico. Ah, a parte le vecchie 500 e 600 e la Panda 750, tutte le auto in circolazione superano abbondamentemente i 130. Orpo che paura! Rispondi
Avevo cercato dottrina di Salvini sull’argomento, ma non ho trovato nulla. Ho quindi dovuto fare di necessità virtù con gli autori che avevo a disposizione. Rispondi
Salvini? ah una battuta alla Luttazzi, forte! comunque, averlo saputo che non aveva fonti attendibili le prestavo qualche libro tipo di MacLean, ma anche il classico di Sapolsky benché leggermente fuori tema è sempre di ispirazione; prossima volta mi faccia sapere; Rispondi