“Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”. Nel pomeriggio del 7 novembre del 63 a.C. fu pronunciata a Roma, di fronte al Senato riunito, forse la più celebre orazione politica della storia, quella in cui il console Marco Tullio Cicerone investì il suo avversario politico tuonando col famoso incipit: “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”. Subito dopo, con un colpo a effetto, Cicerone snocciolò per filo e per segno i contorni della congiura che Lucio Sergio Catilina aveva ordito, elencando con meticolosa precisione luoghi, date e nomi delle persone coinvolte, grazie agli schiaccianti elementi di prova raccolti dalla fitta rete spionistica di cui poteva disporre. Lo incalzò poi dicendo: “Non vedi che ormai la tua congiura è sulla bocca di tutti e pertanto nasce già sconfitta?”. Grazie dunque a Cicerone, il “Defensor Rei Publicae”, le trame di quel “maneggione” furono scoperte. Stupisce soltanto il fatto che, in tutta la città, l’unico a non saperlo fosse proprio lui, Catilina! L’anno prima, nella sfida per l’elezione a console, Cicerone aveva avuto la meglio su di lui, giocando la carta eternamente valida dell’”Homo Novus”. Egli infatti rappresentava una rarità per l’epoca, avendo deciso di “scendere in campo” quando poteva contare sulla sua intraprendenza e il forte carisma personale, senza però possedere un retroterra di nobiltà, prestigio o appoggi importanti. I “nobiles”, cioè i discendenti di quanti in passato avevano rivestito le maggiori cariche pubbliche, guardavano i personaggi come lui con malcelato snobismo, se non con aperta ostilità, ritenendo che “il Consolato si sarebbe contaminato, se l’avesse ottenuto un Homo Novus, anche se di straordinaria levatura” (Sallustio, De Coniuratione Catilinae). Eppure lui, l’Arpinate, dopo il suo trasferimento nell’Urbe si era via via costruito una solida fama di avvocato, grazie alle sue impareggiabili capacità oratorie. Servendosi di una tecnica caratterizzata dall’impiego di periodi ariosi e ridondanti, sapeva emozionare e suggestionare gli ascoltatori fino alle lacrime, in tal modo collezionando importanti successi forensi. Il suo primo trionfo lo mise a segno nel 70 a.C. nel processo contro Verre, corrotto e dispotico ex-governatore della Sicilia famoso per le angherie cui sottoponeva i contadini, con il ricorso ad appaltatori di imposte disonesti, segretamente figuranti sul suo “libro-paga”. C’erano tutti gli ingredienti per attirare su quella vicenda la spasmodica attenzione del grande pubblico, il che, se da una parte contribuì a rendere famosissimo lo stesso Cicerone, dall’altra costrinse l’accusato a darsela a gambe per evitare il linciaggio. Atteggiandosi a moderato, sull’onda della notorietà, l’Arpinate riuscì a mantenere buoni rapporti con cavalieri e ottimati fino a guadagnarsi l’elezione a console per l’anno 63 a.C. a discapito proprio di Catilina, del quale era riuscito a costruire un’immagine da mostro, pronunziando appena pochi giorni prima delle elezioni l’orazione “In toga candida”, di cui purtroppo ci sono rimasti solo alcuni frammenti. Qui Cicerone elencava tutta una serie di vizi e nefandezze ripartite equamente tra i suoi eterni nemici Catilina e Antonio, accusati di essere “corrotti, libidinosi e pezzenti”. La presentazione dell’avversario alla stregua del cattivo per antonomasia, empio e debosciato, dovette risultare convincente se la maggioranza degli elettori scelse proprio Cicerone come console, così inducendo il furibondo Catilina a ordire quella che nei secoli a venire si sarebbe imposta come la “madre di tutte le congiure”, ideata per decapitare (non solo metaforicamente!) i vertici della Repubblica romana, Cicerone compreso. Con quella memorabile orazione quest’ultimo sventò un pericolo mortale per la Repubblica, costringendo il suo avversario a fuggire in Etruria, dove un paio di mesi più tardi avrebbe trovato la morte in battaglia nei pressi dell’odierna Pistoia. Gli elementi romanzeschi che appaiono nelle descrizioni dell’evento tramandateci dagli autori classici ritorneranno quasi invariati in tutte le più famose congiure dei secoli a venire: un leader carismatico, conciliaboli notturni, giuramenti solenni e tradimenti, infiltrati, spioni e donne compiacenti, a conferma del fatto che nella storia, dopo tutto, non s’inventa e non si butta mai nulla. “Cicerone denuncia Catilina”, di Cesare Maccari, 1880, Palazzo Madama, Roma Navigazione articoli GUELFI E GHIBELLINI PRIMA DI SINISTRA E DESTRA TANGENTOPOLI NELLA MILANO DEL SEICENTO