James Bond, il proverbiale agente 007 dalla licenza di uccidere, non fu, al suo apparire, di grande richiamo.
Questo probabilmente perché i romanzi di Ian Fleming, l’ideatore del personaggio, non sembravano poi così entusiasmanti alla loro uscita nel 1953.

Ian Fleming (1908-1964), se lo avessero conosciuto i redattori del settimanale satirico italiano Marc’Aurelio (1931-1958), lo avrebbero immediatamente affidato alle cure dell’acuminato disegnatore Attalo e questi all’immedesimazione nella sua creatura più famosa: “Il Gagà che aveva detto agli amici…”, caustica presa in giro della vanteria piccolo borghese nel tempo a cui il giornale vendeva circa trecentomila copie.

Fleming, amante delle donne e della bella vita, non era certo un grande scrittore e nemmeno una personalità affascinante.
James Bond avrà successo non grazie alla capacità letteraria dell’autore, ma a quanto questi seppe trasfondere in lui tutto quello che desiderava: femmine e champagne, grand hotel e soggiorni superlativi, vestiario di gran marca e cinismo da vendere.

La prima edizione del primo romanzo di James Bond scritto da Ian Fleming: “Casino Royale” (1953)

Anche il primo regista dei film di Bond, Terence Young, era pure lui molto affezionato alla tradizione del dandy anglosassone, più nel senso di certi eroi che trasponevano in era contemporanea lo stile perduto delle creazioni di Kipling e A.E.W. Mason, che in quello più soffice di Noel Coward.

Casino Royale, il primo romanzo, rappresenta il mondo di Fleming nella cornice del servizio segreto inglese, introduce il personaggio di M, diretto superiore di 007, ma crea anche un problema con la Francia dove non si gradisce che il cattivo sia Le Chiffre (riuscito a trasformarsi nel responsabile dei fondi del Partito Comunista d’oltralpe che ha investito in affari tanto illeciti quanto lucrosi ed è un bieco torturatore) poiché la faccenda fa cadere il discredito su tutta la classe politica francese.

Peraltro la Francia dal 1949 fa affari d’oro con l’agente OSS 117 della Deuxième Bureau (l’Intelligence Service) di Jean Bruce (1921-1963), le cui avventure stanno diffondendosi nel mondo. L’agente francese non diffonde l’ideologia da guerra fredda che invece sarà una caratteristica più della narrativa di Fleming che degli adattamenti cinematografici.

Inoltre Hubert Bonisseur (questo è il nome dell’agente 0SS 117) corrisponde a quasi tutte le caratteristiche e fisime di Bond, anche se la “licenza di uccidere” non ce l’ha per contratto, ma solo per estrema necessità.
Gira per il mondo in un eterno turismo pericoloso e romanzesco, sorseggia champagne d’annata, seduce ed è sedotto da seducenti perverse, ha un nemico fisso in un nemico attrezzatissimo e colmo di risorse finanziare il quale, se non è la Spectre, poco ci manca.

Un primo tentativo di inserire James Bond in un serial americano, Climax (1954-1958), non riscontra un grande successo.
Nel terzo episodio della prima stagione televisiva gli sceneggiatori Charles Bennett e Anthony Ellis adattano Casino Royale ai 45 minuti di prammatica senza ottenere grandi risultati. Nonostante la partecipazione del grande Peter Lorre come Le Chiffre che ovviamente non tratta con i comunisti (anche i criminali sono patriottici ai tempi del maccartismo) e della supersexy Linda Christian, è il protagonista a toppare.

L’attore che interpreta 007 in questo telefilm, Barry Nelson, aveva allora 37 anni e assomigliava garbatamente a un fumetto della linea chiara, un giuggiolone tutto dovere e fedeltà alla patria. Davvero inadatto nei panni dell’ufficiale dell’Intelligence Service, che non è un un comune corpo di polizia.

“Casino Royale” di Anthony Hern e John McLusky: le prime strisce di James Bond pubblicate dal “Daily Express” nel 1958

James Bond interessa anche al quotidiano inglese Daily Express, dove il redattore della pagina dei fumetti, intuendone le possibilità di attrazione sui lettori, ne vara l’edizione a strisce giornaliere scritta da Anthony Hern (solo il primo episodio) ed Henry Gammidge e disegnata da John McLusky, il quale rifiuta la proposta di Fleming di farlo assomigliare a Cary Grant, attore classico della commedia sofisticata, e inventa un volto che raffiguri la durezza e la spietata determinazione dell’agente.

Il secondo episodio disegnato da John McLusky, il prima scritto da Henry Gammidge .(“Daily Express”, 1958/59)

Caso vuole che assomigli un po’ a Sean Connery, allora poco noto e ignaro del suo futuro di primo attore a impersonarlo. Se pensiamo al viso e alla muscolatura proletaria dello scozzese dobbiamo ammettere che il fumettista McLusky, vantandosi di avere influito sulla scelta dell’attore, probabilmente ci ha preso.

Sean Connery

Quando si parla del successo di James Bond, prima di riferirsi al cinema bisognerebbe ricordare che divenne famoso già nel 1957 (cinque anni prima di esordire sugli schermi) attraverso l’adattamento dei romanzi ai fumetti.

Le prime strisce dell’adattamento del romanzo bondiano “Moonraker”, scritto da Henry Gammidge (nella striscia è accreditato solo il nome del romanziere) e disegnato da John McLusky del 1959, nell’edizione italiana di “Eureka” dell’ottobre 1979 uscita in contemporanea con l’adattamento cinematografico

Le avventure di Bond sul Daily Express hanno successo e già si è programmato un volume che raccolga le strisce quotidiane quando, nel 1958, il primo romanzo, Casino Royale, esce con il titolo La benda nera, nella collana I romanzi del Corriere. I romanzi di Fleming hanno una loro vita italiana legata al Corriere della Sera fino al 1960.
Non è che in Italia ci vadano pazzi, ma siamo nel momento in cui il libro giallo, del quale quello di spionaggio è un sottogenere, ha acquisito nuovo vigore e interesse sull’onda dei numerosi film noir arrivati in Italia con le armate americane alla fine della guerra.

Già Livio Garzanti, editore di gran razza, sembra abbia capito la portata della faccenda proprio leggendone i fumetti durante un soggiorno in Gran Bretagna. Nel 1961 si aggiudica i diritti letterari di Fleming e pubblica, per primo, Operazione Tuono che, nel frattempo, sta uscendo a fumetti sul Daily Express con molte libertà nella sceneggiatura.

Da notare che l’editore non colloca la serie di James Bond in una collana a se stante, ma in Garzanti per tutti, dove sono già apparse altre serie popolari di svariato genere.
Solo nel 1965 Garzanti ricolloca 007 su I gialli Garzanti (il che dà un’idea che il sottogenere spionistico non è ancora da tutti considerato autonomo da quello poliziesco). L’unica collana di Garzanti che, pur editando successivamente nomi che diventeranno importanti nella giallistica (tra cui i narratori scandinavi), non reggerà mai il confronto con le vendite del Giallo Mondadori.

Il primo numero di “Segretissimo” (Mondadori, 1960), illustrazione di Ferenc Pinter

Dal canto suo, alla Mondadori, Laura Grimaldi inventa per l’edicola Segretissimo che, dal 1960, ospita la prima serie dei romanzi di Jean Bruce dell’agente OSS 117.
Le nere copertine di Segretissimo sono affidate a Ferenc Pinter, il quale mette i suoi magici pennelli al lavoro su storie dove, come in effetti accade nelle nuove avventure degli spioni internazionali, le componenti tradizionali del giallo, fondendosi come da sopra, suscitano stupori e perplessità tra gli addetti ai lavori, ma non tra i lettori.

Le pile delle copie dei Gialli e di Segretissimo nelle edicole delle stazioni ferroviarie raggiungono il soffitto, mentre tra i giovani nascono club e iniziative diffuse dai settimanali e quindi utilizzate alla radio e nell’unico canale televisivo della Rai.

Intanto nel Regno Unito, sempre il redattore dei fumetti del quotidiano inglese Daily Mirror, Bill Aitken, commissiona allo sceneggiatore Peter O’Donnell e al disegnatore Jim Holdaway un nuovo personaggio a fumetti: Modesty Blaise, una James Bond in gonnella. La direzione del quotidiano però non è convinta e rifiuta il personaggio, che viene allora pubblicato nel 1963 dal giornale del pomeriggio London Evening Standard. Il fatto che nel 1966 anche Modesty Blaise diventi un film, diretto da Joseph Losey con una inaspettata Monica Vitti nella parte della protagonista, dà un un’idea dall’importanza dei fumetti dell’epoca.

Modesty Blaise di Peter O’Donnell e Jim Holdaway (non accreditato)

Nel 1966 lo sceneggiatore del James Bond a fumetti diventa Jim Lawrence, coadiuvato dal disegnatore Yaroslav Horak, il quale riprende i caratteri essenziali dell’eroe e dei suoi abituali comprimari del Servizio Segreto, ma in modo da non essere troppo legato al cambio dell’attore protagonista di turno.
Infatti, se dal 1964 circa il volto della strip è diventato decisamente quello di Sean Connery per effetto dei primi film, l’attore, già sostituito nel 1969 da George Lazenby, nel 1973 lascerà il posto a Roger Moore.

Le strisce del primo episodio realizzato da Jim Larence e Yaroslav Horak “The man with the golden gun” (Daily Express, 1966). Qui nell’edizione francese

La prima scelta per il ruolo di James Bond dei produttori cinematografici Albert Broccoli e Harry Saltzman era stato proprio Roger Moore, però Moore non poté accettare per impegni presi precedentemente. Ma forse proprio il successo del primo film di James Bond (1961) gli permette di vestire i panni di un personaggio piuttosto simile, l’avventuriero Simon Templar detto Il Santo, dal 1962 al 1969.

Il creatore di Simon Templar, Leslie Charteris (1907-1993), un americano per modo di dire, essendo nato a Singapore da padre cinese e madre gallese scrisse, tra il 1928 e il 1963, 34 romanzi de Il Santo (in Italia, dove i santi vengono onorati a differenza che nella protestante Inghilterra, l’appellativo è stato usato molto poco preferendovi il nome Simon Templair) e ne firmerà altri 27 nonostante questi ultimi siano scritti da altri sotto la sua supervisione o meno.

Dal 1935 la casa produttrice americana Rko allestì una serie di nove film, prima con Louis Hayward (inglese) e poi con George Sanders (russo con accento britannico), trasmessi dalla Rai negli anni novanta a cura di Nedo Ivaldi. Ma solo nel 1960 e nel 1966 se ne fecero due adattamenti di un certo prestigio in Francia, uno con Jean Marais.

Charteris, che teneva molto all’anglicità del personaggio, non gradiva particolarmente i film americani (della durata media di 60 minuti, girati interamente in studio per il pubblico del pomeriggio) e fu soddisfatto solo dalla serie televisiva inglese con Roger Moore. Glissiamo sulle più recenti trasposizioni cinematografiche del personaggio

Anche Simon Templar ebbe una sua fortuna fumettistica a vent’anni dal primo romanzo. Dal 1948 al 1961 come striscia pubblicata su svariati quotidiani americani, prima con le sceneggiature dello stesso Charteris e Dashiell Hammett (o qualcuno dei suoi ghost writer) e i disegni prima di Mike Roy e poi Bob Lubbers. Quindi, dalla fine dei cinquanta, con i disegni di Doug Wilder.

Charteris non era un novellino come scrittore di fumetti, avendo già realizzato i testi dell’Agente X-9 di Alex Raymond e avendo collaborato anche con Milton Caniff in più di un’occasione per la sua competenza delle culture asiatiche.

Un’altra versione a fumetti di Simon Templar vide la luce tra il 1959 e il 1962, sempre per gli affiliati al New York Herald Tribune Syndicate, scritta sempre da Charteris, con John Spranger e Bob Lubbers alle chine. Questa serie si avvale anche di tavole domenicali a colori.
Oltre alla versione dei quotidiani ne esiste anche una dei comic book pubblicata da Avon Comics dal 1947 al 1952.

Simon Templar (meglio conosciuto nei paesi anglosassoni come “Il Santo”) in un comic book della Avon tra gli anni quaranta e cinquanta

Quindi al momento del varo di James Bond nel film Agente 007 Licenza di uccidere, Simon Templar aveva già un passato, cinematografico-radiofonico-televisivo e nei fumetti, senza contare i romanzi originali, editi in Italia anch’essi da I gialli Garzanti e poi in una sottocollana autonoma.

Qualcosa di simile è accaduto per l’agente OSS 117 di Jean Bruce.
Sulla spia francese sono stati girati undici film, alcuni tratti da romanzi e altri da soggetti originali, che però non hanno avuto grande fortuna fuori dall’Europa.
Realizzati in Francia con la coproduzione italiana produttiva dal 1957 al 1971, non costituirono mai un grande impegno finanziario e, dopo il successo di James Bond, furono anche scambiati come imitazioni tra le tante.

Allo scarso successo di OSS 117, che pure aveva avuto un grande richiamo letterario popolare, non è estraneo l’utilizzo, nel ruolo del protagonista, di attori sempre diversi e spesso di nazionalità varia. I quali, se in alcuni casi dovevano favorire l’esportazione dei film nella distribuzione d’oltreoceano, non riuscirono mai a sfondare fuori dal perimetro Francia-Italia-Spagna-Germania.

L’attore apolide Ivan Desny inaugurò la serie di OSS, seguito dall’americano Kerwin Matthews, famoso nei fantapeplum all’anglicana con i trucchi di Ray Harryhausen. L’altro apolide Frederick Strafford (un europeo dell’Est convertito alla lingua inglese). Sean Flynn, il figlio di Errol Flynn che, dopo una breve stagione come attore in Europa, morì torturato e ucciso dai khmer rossi in Cambogia (dove si era recato per svolgere il mestiere di reporter). L’americano John Gavin, che avrebbe partecipato alle selezioni per interpretare James Bond ed è stato l’unica vera star internazionale ad apparire nel serial. Luc Merenda, il primo effettivamente francese che ebbe così il lancio per arrivare ai polizieschi italiani. Per concludere, l’ignoto statunitense (se lo era davvero) Alan Scott.

Perché quindi, malgrado personaggi analoghi sulla piazza, il successo di James Bond scoppiò come una bomba generando una vera e propria mania, una moda che attecchiva ovunque, una sequenza innumerevole di imitazioni, una incredibile stagione di varianti che durò circa quindici anni e fece dell’agente segreto un personaggio familiare sia nella comunicazione popolare che in quella più sciccosa e intellettuale ?

A mio parere, non fu la nuova atmosfera della guerra fredda, non il fascino dello scozzese Sean Connery, anche se qualcosa ci mise pure, e nemmeno i soldoni che gli americani spesero del secondo film.
Il motivo, per dirlo in poche righe, è tutto nello stile del personaggio e nella natura delle storie.
James Bond, per quanto sia un dipendente del governo inglese, è una spia cinica, spudorata, spesso anche spietata.

Le belle donne dalle quali è circondato, così poco vestite da incorrere nella censura quando arrivarono in alcune zone dell’America rurale, l’amore per la roulette e lo champagne d’annata, l’utilizzo di sempre più sofisticati strumenti di trasporto e di armi micidiali, creano intorno a lui la sensazione che l’epoca dei buoni tutti di un pezzo contro i cattivi sia finita per sempre.

Queste particolarità non erano tutte nate da Fleming, però Broccoli e Saltzman ne fecero una prima stagione di film che abbagliarono per la loro esplosione di fantasia.
I due, all’inizio gestori della Eon, una casa di produzione che realizzava principalmente film con star hollywoodiane le quali giungevano in Inghilterra per sbloccare i fondi congelati da una legge che proteggeva il povero cinema inglese dall’invasione americana, avevano progettato, esperienza dopo esperienza, il momento fatidico.

Quando ero bambino anche i miei genitori, abbagliati dalla moda che imperava ovunque, mi portarono con loro, caso più unico che raro, a vedere il film di James Bond Si vive solo due volte (1969) di Lewis Gilbert, sceneggiatura del grande Roal Dahl da un libero adattamento del romanzo omonimo scritto nel 1964 da Fleming ed edito in Italia dal 1965 al 1968 in diverse collane Garzanti.

Illustrazione di Robert McGinnis per il manifesto del film “Agente 007 – Si vive solo due volte”

In questo film Sean Connery (che poi imparai ad apprezzare come interprete di altre pellicole) non mi era affatto simpatico, il suo atteggiamento con le donne mi dava fastidio. Che il suo amico Charles Gray morisse sul più bello mi ripugnava. Il trattamento di Molly Penny (Lois Maxwell) mi pareva indegno data l’evidente simpatia che la sensual-materna segretaria prova per l’agente. La doppiezza di Karin Dor, allora ben conosciuta attrice tedesca famosa in tutto il cinema europeo, mi orripilava.
Infine trovai veramente spaventoso e gratuito, con tutte quelle cicatrici e gli occhi così gelidi, Donald Pleasance come avversario. Troppo cattivo e collerico per gestire un’organizzazione come la Spectre.
Insomma, uscii dalla sala con la sensazione che, se da grande avessi avuto a che fare con qualcuno come Bond, sarei dovuto stare ben attento a non farmi rubare la ragazza e ricevere contemporaneamente una pugnalata nella schiena.

Si è detto che Sergio Leone, nel disegnare i suoi primi bounty killer (ma anche lui aveva i suoi sceneggiatori benché, facendoli magari lavorare all’oscuro l’uno dell’altro, gli si è poi attribuito tutto e gli si è creduto anche quando raccontava cose ben poco credibili per chi aveva familiarità con il cinema italiano), tenne conto della sua infanzia tra i bulli del quartiere, tra i ragazzacci della Roma popolare.
Questo è certamente vero, almeno in parte.
Ma come non accorgersi che il comportamento dei suoi antieroi era spesso dichiaratamente ispirato a James Bond e succedanei ?

Se la violenza e lo scetticismo erano armi di fascinazione sul pubblico per gli agenti di Sua Maestà, perché non potevano esserlo per uomini dispersi in un universo di prepotenza e malversazioni?

Da ragazzo divenni uno spettatore frequente dei film di 007, anche perché venivano puntualmente replicati durante l’estate.
Ci furono, anzi, due o tre anni di seguito in cui vidi, in mancanza d’altro o per non abbandonare la comitiva, ben cinque volte Operazione Tuono, dove almeno c’era Luciana Paluzzi che sprizzava la sua conturbante sensualità e la meravigliosa Claudine Auger, appena nominata dalla rivista Time donna più bella del mondo.
Più avanti nel tempo, al celeberrimo cinema Universale di Firenze, che si manteneva con una programmazione monografica settimanale, ebbi modo di rivedermi tutti i film della serie, da Licenza d’uccidere, con Ursula Andress che emergeva dalle acque, a Moonraker, Operazione Spazio (1981), il quarto con Roger Moore.

Su Moonraker, appassionato e distaccato come sempre, l’amico Tullio Kezich, uno dei maggiori critici cinematografici del secolo scorso, scrisse: “Una volta si diceva che questi film portavano avanti il cinema. Ormai siamo arrivati al punto in cui sarebbe come dire che la terza guerra mondiale può essere un ragionevole passo avanti nel progresso della tecnologia”.

Lo stesso Kezich, riferendosi all’inaspettato successo di Per un pugno di dollari, sedici anni prima aveva definito James Bond il viaggiatore invisibile sulla diligenza sconquassata del western italiano.
E le sue ragioni, allora, le aveva.
E io, come bambino educato al fulgido eroismo di Miki e Blek o anche alla dura esecuzione della giustizia eseguita da Tex Willer, non potevo non condividere per quanto, ovviamente, non leggevo ancora l’edizione cartacea de La settimana Incom e Bianco e Nero.

In Licenza d’uccidere Bond viene tradito da Dent, un personaggio di secondo piano con la faccia tragicamente sconfitta di Anthony Dawson, e gli spara, lo uccide distrattamente, quando non gli costerebbe niente lasciarlo in vita.
In Per un pugno di dollari, al fine di guadagnarsi la fiducia di Ramon Rojo, il pistolero senza nome si fa affidare una missione notturna insieme a un gruppo di fuorilegge al soldo della famiglia messicana, e, con la stessa noncuranza, li ammazza tutti nel sonno, quando potrebbe tranquillamente fuggire nella notte e riuscire lo stesso nel suo inganno.

Quando Bond deve smettere di giocare a rimpiattino con il cattivo di turno e viene torturato dai suoi uomini (quasi sempre di inquietante anonimia o algida presenza sessuale) non anticipa l’ormai proverbiale pestaggio del protagonista a opera di Mario Brega nei primi tre western di Leone?
Certo, ormai sono passati decenni e non c’è più il cinema classico, con i suoi valori e i suoi autori, a contrapporsi, anche economicamente, ai biechi generi popolareschi.

La critica ha smesso da tempo a far distinzioni ideali e si accoda ai fenomeni invece di studiarli.
Così James Bond (no, Mario Brega inmessicanito e crudelissimo no), una volta così estraneo, è divenuto un personaggio simpatico, un testimone del suo tempo, un eversore dei generi classici (che l’inglese di Shanghai Terence Young e il romanesco Sergio Leone potevano violare perché non ne conoscevano i codici), il personaggio di un genere speciale dove la fantasia di Roal Dhal correggeva il dandismo di Fleming e creava universi di divertimento, di goduria avventurosa e, alla fin fine, un senso di piacere visivo che dal fumetto nasce e nel fumetto soltanto può ancora espandersi.

In fondo le storie di James Bond non sono, come i western di Leone e gli imitatori più o meno validi, che la ricostruzione ineccepibile di un mondo fantastico che ha le sue radici nelle emozioni e nelle delusioni dell’infanzia di una generazione.
Per Sergio Leone quelle del quartiere romanesco da cui dovette uscire per riscattarsi socialmente e provarsi migliore del padre, regista dimenticato. Per Ian Fleming gli ambienti aristocratici e sprezzanti, le conventicole militari e i cenacoli politici vicini alla Corona, contro cui lottò tutta la vita per farne parte.

Naturalmente quando parlo di James Bond mi riferisco unicamente a quello con Sean Connery e Roger Moore. Dopo, con tutto il rispetto per l’irlandese Pierce Brosnan, c’è solo ripetitività.
Ormai James Bond è come l’Inghilterra: ha perso l’impero e la faccia, la reputazione e la credibilità. Il suo servilismo verso gli americani è palese.

Nel tempo che separa le ultime e stanche imprese con Roger Moore dalle trovate periclitanti con Dan Craig (quasi una quarantina d’anni) abbiamo imparato che il personaggio non invecchia bene.
Dal tempo in cui i bambini sostituirono, tra i giocattoli, la sei colpi con l’automatica a canna sottile e silenziatore, da quando le “bond girl” non erano una compagnia di smandrappate dall’occhio spento, abbiamo capito che il gioco è finito.
È finito anche se continuerà e un film con James Bond non smetterà di apparire ogni due o tre anni.

Prima con la defezione del produttore Harry Saltzman e poi col potere produttivo nelle mani di Barbara Broccoli, James Bond è diventato americano, fatto apposta per piacere al pubblico più facilmente ingannevole del mondo occidentale.
Con il montare dei costi degli effetti speciali imposti al mondo dalla Hollywood di oggi non sarebbe potuto accadere altrimenti.

Non è più un gioco, ma un condizionamento pubblicitario. L’eco di una tradizione divenuta abitudine, la vittoria degli effetti speciali totali su quelli che Connery sapeva fare lanciando un’occhiata malandrina.

È un altro mondo e, per coloro che se ne sentono parte, capisco sia difficile capire come anche l’agente 007 corrispondesse a regolamenti che sono stati annullati, fin dalla scuola elementare, con la mancanza di istruzione al senso della giustizia e dell’avventura, la troppa tecnologia a portata di mano nello smart-phone, lo sport non come esperienza motoria e atletica ma impresa soprattutto fiscale e televisiva.

Collana dell’inglese Titan Book degli anni ottanta che raccoglie le strisce del “Daily Express”

Tornando al fumetto, le strisce vengono pubblicate anche quando il fascino di Connery e quello di Moore si smorzano nei meno interessanti successori.
I fumetti sono gestiti, nell’epoca di Timothy Dalton, dalla casa editrice inglese Titan Book, che, però, per mancanza di storie sufficienti a riempire gli album e le raccolte in volume, utilizza ancora sia McLusky che Horak, e anche altri per l’adattamento della seconda serie di romanzi di Fleming e degli scrittori che lo sostituiranno dopo la morte.

Dopo Ian Fleming, i romanzi di James Bond sono scritti nel 1968 da Kingsley Amis (con lo pseudonimo di Robert Markham), nel 1973 da John Pearson, nel 1977 e nel 1979 da Christopher Wood. Seguono John Gardner, con sedici romanzi dal 1981 al 1986 (da cui anche rielaborazioni delle sceneggiature dei film); Raymond Benson, dodici tra romanzi, raccolte di racconti e trasposizioni da copioni, dal 1996 al 2002; Sebastian Faulks, un romanzo nel 2008; Jeffrey Deaver nel 2011; William Boyd nel 2013 e Anthony Horowitz, un romanzo nel 2014, per poi divenire scrittore ufficiale e unico delle storie).

Copertina e una tavola dell’adattamento del primo film di James Bond, “Agente 007 – Licenza di uccidere”, pubblicato dalla Dc Comics nel 1962. Testo e disegni di Norman Nodel, che segue troppo fedelmente le immagini del film

I fumetti, intanto, si sono propagati, pure loro, in territorio americano. Sia pure con edizioni piuttosto modeste e dimenticabili.
Per effetto di un contratto che concede i diritti alla Dc Comics in Usa, nel 1962, questa casa editrice fa realizzare un adattamento da Norman Nodel.
Dal 1981 al 1991 il personaggio passa alla Eclipse che pubblica altri due rifacimenti di pellicole.
Dal 1992 al 1995 tutto passa alla Dark Horse, che ne realizza altre cinque.

Versione a fumetti di James Bond della Dark Horse dei primi anni novanta, testi di Doug Moench e disegni di Paul Gulacy

Dopo una pausa dovuta a controversie legali, i diritti passano di mano ancora una volta e arrivano alla Dynamite Entertaiment, la quale ha finora dato alla luce solo tre storie tra il 2015 e il 2017.

“Casino Royale” versione Dynamite (2018), testi di Van Jensen e disegni di Dennis Calero

In Italia James Bond a fumetti non ha avuto il buon riscontro ricevuto in altri paesi.
Il che si spiega con il fatto che la prima storia appare quando ormai il personaggio è affermato in letteratura e al cinema.
Ma anche con l’evenienza inesorabile che è difficile proporre le prime vignette disegnate se, intanto, l’agente ha il viso di Sean Connery.

James Bond nella prima edizione a fumetti pubblicata in Italia da “Giallo Selezione”

Lo pubblicano, nel tardo 1964, le edizioni Vitagliano in Il giallo illustrato (di Settimo Giorno) e Giallo Selezione.

Nel 1965 l’editoriale RM edita, come nuovo, “Avventura al Casino di Royale”, che è poi la ristampa di quanto già apparso su Giallo Selezione che aveva stampato storie di McLusky.

Dal 1967 alla fine degli anni settanta l’Editoriale Corno fa apparire su Eureka alcuni episodi di McLusky, ma anche di Horak.

James Bond, dopo essere comparso nel 1966 sul settimanale “Intrepido”, viene pubblicato (rarissime volte per la verità) dal mensile “Eureka”

Nel 1973 esce, a dimostrare anche una riabilitazione dell’eroe disegnato, un volume de L’Olimpo dei fumetti con storie di Horak.

Nel 1979, decisamente fuori tempo, le edizioni Euredit danno vita alla collana Speciale Film, che riprende una storia edita dalla Marvel, di Howard Chaykin, che adatta Solo per i tuoi occhi (1981) con Roger Moore.

“For your eyes only” di Larry Hama con disegni di Howard Chaykin e Vince Coletta, pubblicato dalla Marvel nel 1981 in corrispondenza della versione cinematografica

Nel 1992 la Star Comics pubblica sulla rivista antologica Hyperion due storie disegnate da Paul Gulacy per la Dark Horse.

L’unica collana italiana realizzata con criterio è quella di Camillo Conti dal 1974 al 1995, intitolata serie James Bond: 38 albi che riprendono, in ordine cronologico, 42 storie da McLusky a Horak. Le giacenze sono ancora oggi diffuse da Alessandro Distribuzione.

La prima serie della Camillo Conti editore del 1974, che ripropone l’adattamento a fumetti del primo romanzo di Ian Fleming

Infine nel 2016 la Panini Comics edita in Italia le storie della Dynamite.

A questo punto bisogna considerare che nel fumetto, come al cinema, gli imitatori sono spariti prima dell’originale. Come Dennis Cobb (1965) di Max Bunker e Magnus.

La matrice di Diabolik di Angela Giussani (1962) deve molto a James Bond, per il carisma del personaggio violento e i vari congegni, mentre l’altro tascabile ancora in edicola, quello dello scalcagnato agente segreto Alan Ford di Magnus e Bunker (1969), ne è la dichiarata parodia.

Non sarebbe male se almeno gli appassionati ritornino al fumetto, quello delle strisce inglesi intendo, dell’agente 007.
Sono strisce che ci rimandano a un tempo in cui la cultura pop europea poteva sconvolgere i mercati americani e assumersi le proprie responsabilità creative.

Oggi a James Bond è rimasta solo la licenza di ripetersi e incassare.
Proprio per questo scontato.

3 pensiero su “CONNERY ASSOMIGLIAVA AL FUMETTO DI JAMES BOND”
  1. Io leggendo da piccolo un romanzo di Ian Fleming, “Dalla Russia con amore”, l’avevo trovato così brutto che avevo deciso di non guardare i film di James Bond.

    Sbagliavo, Sean Connery ha portato quel filo di ironia necessario per digerire la sbobba.

  2. Articolo confuso e con vari errori. Rispondendo alla domanda: no. Il fumetto di McLusky, pubblicato nel 1958, risente dello stile di John Prentice (Rip Kirby) e il volto è preso da quello del cantante, musicista e attore “Hoagy” Carmichael, come descritto in Casino Royale. Connery fu scelto in seguito a un sondaggio, soprattutto dal pubblico femminile e il suo volto divenne quello del Bond dei fumetti grazie a Jim Lawrence (Captain Easy) e Yaroslav “Larry” Horak (Mike Steele) nel 1966. Sempre per i fumetti, segnalo la serie autonoma della Ed. Zig-Zag cilena, pubblicata dal 1968 al 1970.

  3. Ovviamente non replico all’affermazione per cui l’articolo sarebbe confuso e con vari errori.
    La libertà di stampa implica anche la libertà di criticarla pur senza dimostrarla.
    ***
    Però, riguardo al disegno di McLusky, io non dico, non dico, che il suo James Bond non è preso da Rip Kirby e da Hoagy Carmichael (che, a mio parere, non gli assomiglia – a quello dei fumetti – proprio per niente) ma, mi limito a scrivere :
    “Caso vuole che assomigli un po’ a Sean Connery, allora poco noto e ignaro del suo futuro di primo attore a impersonarlo. Se pensiamo al viso e alla muscolatura proletaria dello scozzese dobbiamo ammettere che il fumettista McLusky, vantandosi di avere influito sulla scelta dell’attore, probabilmente ci ha preso”.
    Né nego l’apporto di Jim Lawrence e Larry Horak se non fosse che il loro contributo si compie quasi cinque anni dopo il successo del James Bond cinematografico, quando il volto di Connery è ormai celebre e raffigurato dovunque.
    ***
    Teresio Spalla

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