Andrea Graziani

 

All’alba del 27 febbraio 1931 i ferrovieri notarono un corpo esanime lungo la ferrovia tra Firenze e Bologna, poco lontano da Prato.

All’arrivo dei carabinieri venne trovato il cadavere di un uomo anziano che portava la divisa nera da alto gerarca fascista. Aveva una lunga barba e capelli bianchi, entrambi insanguinati, segno evidente di colpi sferrati alla testa.
Si pensò a un delitto per rapina, ma nel suo portafoglio venne ritrovata intera una forte somma: 5500 lire, nelle tasche un biglietto di viaggio tra Roma e Verona, e i documenti che lo indicavano come generale in pensione dell’esercito e luogotenente generale della milizia fascista. Il suo nome era Andrea Graziani.

Nato a Bardolino sul lago di Garda nel 1864, aveva intrapreso la carriera di ufficiale dell’esercito. Aveva fatto parte delle prime truppe italiane sbarcate a Massaua, in Eritrea, nel 1885. Rischiò grosso due anni dopo, quando 500 dei 3000 soldati italiani erano stati massacrati a Dogali dagli abissini di Ras Alula.

Ritornato in Italia nel 1895 dopo diverse campagne africane, aveva assunto una mentalità colonialista. I soldati africani ai suoi ordini, gli ascari, non venivano puniti con la consegna o la prigione, ma molto sbrigativamente a frustate. Ormai pensava così anche nei confronti dei soldati italiani.

Malgrado la severità e l’intolleranza nei confronti dei subalterni fece una brillante carriera, fu insegnante nella scuola di guerra di Torino, e si impegnò nel soccorso alle popolazioni durante il terremoto di Messina nel 1908 e quello di Avezzano nel 1915.

All’inizio della Prima guerra mondiale si trova sul fronte degli altipiani sopra Verona, e come generale dimostra un insano desiderio di attaccare. Gli attacchi produrranno pochi vantaggi territoriali e molte perdite tra la truppa. Qui iniziano i guai. Un battaglione di bersaglieri si ribella gridando: “Voi bastardi volete farci ubriacare e poi portarci al macello!”. E gettano in un burrone un mulo carico di acquavite. Graziani allora ordina all’artiglieria di bombardare il reparto.

Il 21 maggio 1916 fa fucilare senza processo quattro genieri zappatori a Samone di Valsugana. Passato sul fronte del Carso, fa fucilare il soldato Piero Scribante di Novara con un sommario processo, dopo che gli era stata già preparata la bara, e nel plotone d’esecuzione furono messi i suoi amici e compaesani.

Nel giugno 1917 andò a inseguire con il fucile alla mano i soldati che indietreggiavano dopo un attacco degli austroungarici. Le sue stranezze paranoiche causarono così tanti rapporti negativi che lo stesso comandante in capo, Luigi Cadorna, dovette sospenderlo con la motivazione: “Graziani manca di elevate qualità e perde spesso il completo dominio delle sue facoltà mentali”.

Tuttavia, in seguito alla rotta dell’esercito a Caporetto, viene nominato ispettore generale del movimento di sgombro, essendo conosciuto come il peggior mastino verso coloro che cercano di disertare. Riesce in questo intento, ma al costo di 36 esecuzioni sul posto di soldati sbandati. Il 10 novembre a San Pelagio di Treviso fa fucilare alla schiena non solo 18 soldati, ma anche tre civili che li stavano sfamando e soccorrendo.
Tra le cinquantasette fucilazioni ordinate in provincia di Padova vi fu quella di un artigliere alpino, Alessandro Ruffini, 23 anni di Castelfidardo, che aveva salutato il generale senza togliersi di bocca il sigaro che stava fumando. Graziani insultandolo lo colpì col suo bastone. Gli abitanti del paese di Noventa Padovana protestarono per la brutalità, ma lui rispose: “Dei miei soldati faccio quello che voglio”, e lo fece fucilare davanti ai paesani.
Finita la guerra i socialisti denunciarono il fatto in parlamento, ma Graziani rispose: “Dovevo dare un esempio terribile, atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia”. E l’inchiesta su di lui venne insabbiata.

Stabilita e consolidata la linea di resistenza sul Piave, l’11 aprile 1918 il ministero della guerra lo incaricò di formare un corpo militare con soldati presi da quei prigionieri austroungarici che speravano nella vittoria dell’Italia per dichiarare l’indipendenza della Cecoslovacchia. Non fu tenero neppure con questi, che pure rischiavano la fucilazione se presi dai loro ex commilitoni dell’impero asburgico. A causa di loro proteste per il cibo scarso e cattivo (dodici anni prima in Russia era accaduta la stessa cosa sulla corazzata Potemkin), il 12 giugno 1918 fece giustiziare otto di questi soldati. A niente valsero le proteste di Stefanik, un generale cecoslovacco passato all’Italia.

Terminato il conflitto, forse per evitare altre contestazioni, Graziani venne subito collocato a riposo, ma lui non volle rimanere inattivo nella politica italiana. Aderì al fascismo ed ebbe da Mussolini il controllo sulle milizie del partito nel Veneto.

Data questa cattiva fama, cosa poté succedere su quel treno che viaggiava da Roma a Bologna il giorno 26 febbraio 1931?

Qualcuno aveva riconosciuto l’ex generale, e quell’individuo poteva avere un parente o amico fucilato a causa sua. Aspettata la notte aveva atteso il momento in cui Graziani aveva lasciato lo scompartimento per andare al gabinetto. Scivolandogli alle spalle lo aveva colpito alla testa, ma non si sentirono grida, poi aprendo il portello lo aveva scaraventato fuori dal vagone (forse gli assalitori erano più di uno, essendo la vittima stata subito sopraffatta). Nessuno aveva visto questa azione, e qualche minuto dopo gli aggressori potevano essere scesi alla stazione di Prato, dileguandosi.

Il regime fascista non volle dare seguito alle ricerche sulla sua improvvisa fine. Graziani ebbe funerali di Stato con la presenza dei dirigenti del partito, e pure un monumento nel suo paese di Valgatara nel Valpolicella sopra Verona (nella foto). La versione ufficiale fu che aveva sbagliato porta precipitando fuori. L’uccisione del generale e gerarca non venne rivendicata dagli antifascisti, è molto più probabile una vendetta privata.


(Il generale Rodolfo Graziani, altro militare al servizio del fascismo, conquistatore e governatore dell’Etiopia e poi capo dell’esercito della Repubblica sociale italiana non era un parente di Andrea Graziani).

 

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