Siamo proprio sicuri che gli italiani non sappiano fare film horror?

Attenzione: Spoiler!
Se non avete ancora visto il film rimandate la lettura.

È uscito il 14 luglio 2021 l’atteso A Classic Horror Story, la pellicola horror tutta italiana distribuita da Netflix, vincitrice del Festival di Taormina 2021 come miglior film. Nella loro prima collaborazione, i due registi Roberto De Feo (The Nest, 2019; Ice Scream, 2013) e Paolo Strippoli (Piove 2022; Nessun Dorma 2018) hanno realizzato il lungometraggio sulla sceneggiatura di Lucio Besana e Milo Tissone (subentrato in un secondo momento con l’arrivo di Paolo Strippoli), conoscitore del folklore del nostro paese. Hanno ripreso il collegamento con il filone horror socio-politico a metà strada tra l’orrore fantastico, il fatto reale e la cronaca che non si vedeva dai tempi di Aldo Lado.
Il film si contraddistingue per la tensione e le “delizie visive” aggiunte dalla fotografia a cura del giovanissimo Emanuele Pasquet.

L’Italia ritorna al genere horror dopo gli anni sessanta e ottanta, decenni d’oro per la cinematografia del genere grazie alle produzioni di Mario Bava, Luigi Fulci e Dario Argento, ai quali (e non solo) i due giovani registi hanno voluto rendere omaggio. Dopo questo periodo prolifico per il genere, in Italia le produzioni horror hanno subito un arresto, superate dalle produzioni americane.

C’è in A Classic Horror Story una volontà evidente di creare una connessione con quel momento storico, infatti i riferimenti sono ben evidenti e rimandano anche alla tradizione internazionale con la quale la pellicola intende creare un collegamento; tra questi si ritrovano tracce di film come Evil Dead di Sam Raimi, Le colline hanno gli occhi nella versione originale del 1977 di Wes Craven, dal quale i due registi recuperano il tema del viaggio e il suo remake del 2006 del regista Alexandre Aja, Il villaggio dei dannati del 1976 di Stuart Rosemberg. Altri riferimenti sono Non aprite quella porta nelle innumerevoli versioni susseguitesi dagli anni settanta ai duemila, The Wicker man (1973) di Robin Hardy e Midsommar di Ari Aster, (2019).

All’interno di questi riferimenti visivi e narrativi, i due giovani registi di A classic horror story mostrano anche la necessità di produrre qualcosa di nuovo, personale, rappresentativo di una nuova generazione di talenti in crescita che intendono dialogare con l’estero.

A Classic Horror Story ha voluto introdurre novità importanti, etnografiche, folkloristiche e politiche in un continuo gioco di rimandi e collegamenti che arricchiscono e rendono per certi versi colte e raffinate alcune particolari scelte meta-cinematografiche.

A emergere sono le particolarità della cultura italiana, troppo spesso tralasciate, che sceneggiatori e registi di questo film hanno saputo valorizzare rendendolo un prodotto “glocal”, italiano ma aperto all’internazionalità.

Solitamente all’università la prima cosa che ci viene detta quando ci avviciniamo alla bibliografia di studio è leggere bene il titolo dei volumi che dobbiamo studiare. Sembra un’operazione banale, ma non lo è. Già dal titolo i due registi hanno comunicato in modo chiaro l’intento del loro lavoro. E lo hanno fatto aiutati da scelte grafiche e di comunicazione (a cura di Vertigo Cinema).

La scelta del caratteri di stampa e la composizione grafica del manifesto fanno sì che al loro interno si trovino tutti gli elementi anticipatori del contenuto. Quali aspetti emergono da questi elementi visivi? Il titolo A Classic Horror Story rimanda da un lato a una citazione ironica ad American Horror Story, come a dire che questo film può confrontarsi con la fortunata serie, anche perché non è escluso che i due registi italiani non decidano di realizzare una serie a partire da questo primo film.

Secondariamente, il titolo ha diversi rimandi sottolineati dal personaggio di Fabrizio quando afferma che “sembra davvero la scena di un film horror”. I caratteri di stampa recuperano alcune famose scritte dei manifesti del genere, rimandano anche a The Rocky Horror Picture Show. La locandina è già un presagio di ciò che accadrà, è infatti Elisa (la giovane protagonista interpretata da Matilde Luz) a essere raffigurata con la maschera che si vedrà nel finale. Si aggiunge la massiccia presenza del colore rosso sangue che caratterizza l’intera pellicola.

A Classic Horror Story

Ma che cosa succede in questo film?
La storia si presenta fin dall’inizio come un classico. È quasi scontato nella linearità dei fatti che si susseguono e, almeno da principio, vuole “illudere” lo spettatore che sia cosi. Perché la sua trama è effettivamente “classica”. Abbiamo un “classico” gruppo di persone rappresentato da Elisa, la giovane ragazza “di buona famiglia” spinta ad abortire dalla severa madre che vede in lei una talentuosa studentessa destinata a fare carriera; Riccardo, un personaggio un po’ oscuro del quale si comprende fin dall’inizio che ha problemi con la moglie e con il lavoro e per questo è diretto a casa della madre; Mark un giovane americano che sta per intraprendere un viaggio-vacanza con la fidanzata Sofia, ucraina. I personaggi sono diversi per sesso, età, e vicende personali che partono per un “classico” viaggio (devono raggiungere il Sud Italia, ciascuno per proprie esigenze) e decidono di affidarsi a un servizio di trasporto condiviso. Si ritrovano tutti sul “classico camper” che appartiene a Fabrizio, l’autista che si scopre essere uno studente della scuola di cinema di Roma, strano e a tratti anche simpatico che proprio per il suo ambito di studi, gira un filmato amatoriale della partenza.

Sembra un bel quadro della normalità. Ognuno dei personaggi ha la sua vita più o meno difficile. Ognuno, con le proprie esperienze, parte con la possibilità di sistemare le cose. Intenti comuni che spingono le persone a sposarsi e che nel corso della storia, man mano, si disgregano completamente. Di questi personaggi si conosce molto poco, ma quanto basta per accorgersi delle caratteristiche personali di ciascuno.

Durante il tragitto, il passeggero straniero, Mark, fidanzato di Sofia, il “classico” americano burlone, decide di guidare al posto di Fabrizio, ritenuto da tutti uno “sfigato” al quale piace parlare e guida piano come una lumaca. Tra una birra e l’altra, improvvisamente compare in mezzo alla strada la “classica carcassa” di un animale e, per evitarla, Fabrizio interviene facendo sterzare Mark, il quale porta il camper fuori strada.
Anche questo è un “classico imprevisto” da film horror.

Dopo un primo momento di black out i cinque compagni di viaggio capiscono di trovarsi in un luogo privo di punti di riferimento, un non-luogo dove non si vede alcuna strada. Le tracce del tragitto sono completamente svanite. Provando a cercare aiuto, i cinque viaggiatori si imbattono in una “classica” strana costruzione. La casa appare deserta, esattamente come il contesto che la circonda.

Scesa la sera, iniziano a insorgere i primi problemi: convinti della presenza di qualcosa di sinistro, i compagni decidono di avventurarsi nuovamente verso la casa lasciando Mark da solo nel camper, perché impossibilitato a muoversi a seguito dell’incidente. È qui, all’interno della casa, che Fabrizio interpreta e racconta ai suoi compagni la leggenda dei “Tre cavalieri d’anuri”: Osso, Mastrosso e Carcagnosso.
Il racconto è spaventoso al punto che i personaggi ascoltano terrorizzati. È così che la leggenda prende vita: all’improvviso, i tre cavalieri appaiono trascinando Mark all’interno della casa, torturandolo a morte sotto gli occhi dei compagni nascosti in soffitta.

A Classic Horror Story
Comprendendo che quella di Mark sarebbe stata la sorte di tutti, i quattro sopravvissuti provano a scappare grazie alle informazioni di Chiara, una bambina vittima dei tre cavalieri rinchiusa nella soffitta (che si scoprirà essere l’impietosa e sconcertante sorella di Fabrizio). Il tentativo di fuga fallisce, del resto le sorti dei personaggi sono intuibili fin dall’inizio del film. Già si sapeva che Elisa sarebbe stata protagonista insieme a Fabrizio della vicenda perché sono loro due a tirare le fila degli avvenimenti in ogni occasione, così come si era inteso che gli altri sarebbero stati sacrificati. Anche questa gerarchia tra i personaggi, che stabilisce chi sarà sacrificato e chi no è uno schema tradizionale. Qualcuno deve essere sacrificato per permettere ai pochi sopravvissuti di proseguire la narrazione.

Chiara, Riccardo e Sofia vengono catturati e torturati sulla pubblica piazza di fronte agli abitanti del bosco, complici e sudditi dei tre cavalieri. Gli unici a rimanere in vita sono proprio Fabrizio ed Elisa, che hanno assistito alla tragedia dalla finestra della soffitta impietriti dall’orrore. Elisa ha l’impressione che qualcosa non torni. Inizia così a sospettare di Fabrizio, costringendolo a scoprire le carte. È proprio lui il malvagio della vicenda, colui che ha orchestrato l’intera trappola fin dal principio.
La foresta, come scrive Chiara nel suo diario, non è una vera foresta, ma un luogo costruito appositamente per commettere crimini efferati. Facendone dei veri e propri film per il mercato del deep web. Saltata la sua copertura, Fabrizio fa catturare Elisa, che dovrà lottare da sola per la sua sopravvivenza…

Il film presenta molti elementi che mettono in relazione diverse tematiche. Si va dai riferimenti che omaggiano il cinema del genere horror, alla critica sarcastica del mercato cinematografico, fino alla trattazione di argomenti che riguardano la vita di tutti: la nuova delinquenza, l’evoluzione della violenza e della pornografia della morte, l’oscurità del deep web, la diffusione del sadismo e del voyeurismo in rete.

Gli argomenti emergono e si chiarificano nel dialogo finale tra Fabrizio ed Elisa, quando la finzione emerge di fronte alle telecamere che hanno ripreso interamente il sadico set orchestrato dalla comunità mafiosa: “La mafia non è più quella di una volta”, e ancora, “l’avete voluto voi, questi sono i contenuti originali più richiesti”, contenuti realizzati per “clienti” che pagano per vedere la gente morire. Su questo filone esistono diverse pellicole, ma certamente prima tra tutte è la serie di film Hostel di Eli Roth dal 2005, dove sono i “clienti” paganti a scegliere quali tipi di torture e sevizie infliggere alle vittime “acquistate”.

Tutti questi temi, leggibili in momenti precisi del film, sono stati confezionati in una bomboniera visiva, una zuccherosa carta di caramella dal sapore internazionale, che nella scelta della palette dei colori rimanda ad altre produzioni Netflix, tra le quali Ratched e Dark, rendendo il film un “post-splatter raffinato” che non manca di mettere in scena gli elementi classici, per l’appunto, della narrazione horror, pur innovandola per renderla appetibile ad un pubblico contemporaneo e glocal. La pellicola infatti parla di italianità ripercorrendo il classico schema americano al quale resta legato sentendo la necessità di mantenere tra i personaggi protagonisti con nomi stranieri. Tuttavia ad esclusione di questo semplice collegamento, la pellicola riesce ad avere un gusto internazionale e lo fa (finalmente) parlando di italianità; lo fa con le nostre storie, con i nostri problemi e con il nostro territorio che ben poco ha a che fare con la cultura americana alla quale ultimamente, questo genere di “massacri visivi” più o meno estetizzanti fa riferimento. E a mio avviso è proprio questo insieme di elementi a rendere il film una coraggiosa opera stilistica che andrebbe attentamente valutata ampliando le proprie vedute e soprattutto ascoltando le parole dei registi e degli sceneggiatori per capire le riflessioni e le ricerche che sono state fatte in corso d’opera.

La direzione della fotografia e il lavoro scenografico e di set design di Roberto Basili (in collaborazione con gli arredatori Tiberio Caporossi e Giulia Brandolini) hanno ulteriormente sottolineato questi aspetti. A partire dalla progettazione della “casa”, luogo nel quale si svolgono i fatti più cruenti del film.

La struttura, infatti, ha alcune caratteristiche particolari che la proiettano in contesti non nazionali, al punto da mitigare “l’italianità” della location (il film è stato girato tra Roma e la Foresta Umbra posta all’interno del Parco nazionale del Gargano) che rispecchia precisi intenti narrativi ed emotivi. Il tetto della struttura, realizzato a punta e di forma triangolare, appare da subito come un elemento fuorviante per essere solo un “classico chalet” di montagna.
Anche il rapporto con il luogo in cui si trova la casa, il bosco, si fa tramite simbolico che accentua la paura per l’ignoto. Il bosco è da sempre il luogo in cui l’uomo si perde, fin dai tempi della letteratura cavalleresca, rappresenta il luogo della perdita della ragione, è una zona che delimita il contatto con la realtà, un labirinto nel quale si perde l’orientamento perché governato da regole proprie, che non permettono imposizioni razionali esterne. Ed è qui, nel bosco, che si attua la scelta di stringere il film all’interno di un rapporto con il territorio e con le sue origini, con il folklore e con la storia grazie all’apporto di Milo Tissone, profondo conoscitore di filosofia e antropologia.

La leggenda spagnola di Osso, Mastrosso e Carcagnosso pare risalire al Quattrocento, un espediente storico con il quale per primo Roberto Saviano (e altri autori) ha spiegato la nascita della mafia. Osso sarebbe stato il fondatore di cosa nostra, Mastrosso, il padre della ‘ndrangheta e Carcagnosso della camorra.
La leggenda e la scelta strutturale della casa sono legate: alla narrazione leggendaria è stata attribuita una veste rituale, che rimanda ad antichi culti pagani. Il collegamento al Nord Europa è quindi evidente nella riproposizione delle strutture a doghe in legno con guglia, elementi appartenenti alle costruzioni delle chiese nordiche, già al centro di numerosi incendi e soggette a particolari episodi di vandalismo negli anni Novanta.

Questo riferimento, chiaramente rielaborato e riproposto in una veste attualizzata, sottolinea l’aspetto rituale al quale si aggiunge la scelta del colore rosso a simboleggiare la pregnanza sanguinolenta delle patinature che appaiono dall’alto delle pareti esterne, quasi alla stregua di un mattatoio. La nascita e l’evoluzione della mafia assume quindi toni soprannaturali in un continuo mescolarsi di realtà e finzione.
D’altra parte, come ben ha testimoniato Tissoni, il folklore ha molto a che vedere con la politica e con quanto di più basso e “sporco” possa esistere nell’umanità. Perché è lo “schifo” a essere protagonista, è un rapporto viscerale che nasce dalla terra, dalle origini delle culture dei luoghi e dalle persone che lì, in quei luoghi, decidono di restare per farle proprie, per instaurarvi il proprio potere.

Perché la leggenda si intreccia con lo studio dell’esoterismo, della religione cattolica vissuta anche nei suoi aspetti più distorti e ha a che fare con la criminalità organizzata tutta.

A sottolineare ulteriormente questo aspetto interviene la presenza delle maschere dei tre cavalieri, la cui realizzazione ripercorre la storia delle “grandi” maschere del genere (altra caratteristica dei classici dei film horror) da quella di Jason in Venerdi 13 di Sean Cunningham e di altri e ben noti film (Scream, 1996) alle quali viene attribuito, nella pellicola italiana, un significato ben preciso: eliminare la persona per divenire entità comune, nel segno della sottomissione al potere del male (alla mafia e alla criminalità organizzata).

Tuttavia questi sono solo alcuni aspetti che hanno permesso ai registi di confrontarsi con la classicità del genere riuscendo a proiettarsi ben oltre.

Da un lato è la critica al sistema della produzione cinematografica a correre velatamente all’interno dei dialoghi, soprattutto nelle frasi di Fabrizio, il “genio” incompreso del cinema accusato da Elisa di realizzare “scopiazzature di altri film”. Sarcasmo schietto quindi quello dei due giovani registi e degli sceneggiatori, che uno straordinario Francesco Russo (decisamente superiore nella recitazione rispetto ad altri protagonisti del film) fa emergere nella sua interpretazione del “regista del male” sovvertendo le regole che differenziano il riconoscimento del bene e del male, giocando con gli stereotipi nazionali: dalla presa in giro costante dei “terroni”, alla violenza perpetrata nei confronti della gente del Sud, al circolo vizioso che investe il settore artistico nel nostro paese, dove le idee nuove vengono costantemente castrate sul nascere.

Il lavoro di sceneggiatura ha dunque fatto degli stereotipi, così presenti e riconoscibili nella cultura italiana anche all’estero, uno strumento, una via per trasmettere qualcosa di più complesso, a canalizzare il caos storico dell’umanità creando un ponte di collegamento inquietante, quanto vero, con il passato.

Se quindi la veste della pellicola appare “semplice”, il suo costante gioco di rimandi implica la conoscenza delle tecniche meta-narrative del cinema, ma anche una consapevolezza nell’utilizzo degli strumenti linguistici del cinema stesso per raccontare argomenti emotivamente ed eticamente ingombranti. I due registi in collaborazione con i due giovani sceneggiatori riescono a farlo così, sfruttando le caratteristiche dei personaggi, ma soprattutto quelle dell’attore Francesco Russo, che ha reso normale l’innominabile, vero ciò dal quale vorremmo prendere le distanze, quotidiano ciò che deve essere aborrito. Ed è proprio la normalizzazione della violenza il tema sul quale vale la pena riflettere, i rischi incontro ai quali non bisognerebbe spingersi perché “questi sono i contenuti originali più richiesti. Per il futuro”, dice Fabrizio a una Elisa sanguinante nel momento di piena presa di coscienza del dramma. Questa forse era la frase che avrebbe meritato tutto il suo osceno e crudo finale. Un attacco di pietra, duro e allucinante in quelle parole dalle quali non traspare alcuna differenza tra la schizofrenia omicida e la normalità delle cose tutti i giorni che accadono fomentate dalla televisione, dai talk show, ma soprattutto dalla richiesta del pubblico in un perverso gioco di domanda-offerta.

È infatti sempre Fabrizio a dire “in Italia solo commedie e youtubers … entrate in un cinema e dite ‘che schifo!’, poi però accendi la televisione e ci sono solo morti, morti dal mattino alla sera, perché vi piace. A voi la studentessa che fa a pezzi la coinquilina vi piace, la mamma che soffoca il figlio … bellissimo […] e tu chiedi che cosa stiamo facendo noi qua?”.

Si tratta, dunque, di una critica al sistema della comunicazione, alla pornografia della morte e del dolore, quella che il film lascia intendere tra la citazione di Goddard (Quella casa nel bosco, 2012) ed Eli Roth (Cabin Fever, 2002) e dello stile sarcastico di Tarantino che sembra apparire in alcune limitate occasioni ma tuttavia piuttosto riconoscibili. Ma è la paura della verità a rendere questa pellicola un film dell’orrore, che è orrore del vero, del tangibile, di qualcosa che può essere spiegato e provato perché vive vicino a noi, tra la nostra gente. È quindi una violenza normalizzata quella che viene messa in scena dal film, qualcosa che, nonostante tutto, non ci aspettiamo (o forse si?) e per questo, ancora più sconcertante.

La realtà ha decisamente superato la fantasia: Fabrizio è a tratti psicotico, ma anche simpatico, è un personaggio con il quale lo spettatore entra in una rischiosa empatia. Ed è questa empatia a portare i nostri sentimenti allo scoperto, perché a tratti il delirio di Fabrizio è fatto di cose condivisibili. In quel margine, quale tratto sottile che separa l’accettabile da ciò che non lo è, è lì, che si apre la voragine del terrore, perché Fabrizio sta accusando tutti di complicità. Non solo i capi e i potenti. Non solo i falsi perbenisti e benpensanti. Anche noi.
È quindi uno schiaffo in faccia quello che ci arriva, sono verità sbattute davanti a noi senza alcun filtro, senza mediazione quelle che il film propone, che si concretizzano in un finale aperto, che avrebbe potuto, forse, anche essere più corto e incisivo, ma che lascia comunque aperte più interpretazioni, tante ferite, tante schiette e crudeli realtà.

Per quanto non si voglia togliere nulla alla buona interpretazione di Matilde Luz, a mio avviso è Francesco Russo ad essere entrato maggiormente nella parte interpretando un macabro e sadico regista incompreso, che vive il suo dissidio interiore scoprendo le carte sulle critiche mosse ai giovani registi. Già attore in Piove del regista Strippoli, Russo è geniale nei panni di Fabrizio con il quale l’attore condivide la comicità che lo contraddistingue anche nella vita.

Anche la colonna sonora rimarca strategie già note alla tradizione cinematografica del genere con chiari riferimenti al cinema tarantiniano, all’uso brutalizzato del carillon e delle filastrocche che da sempre ci fanno paura perché entrate a far parte del corredo linguistico “classico” del cinema horror. In particolare, nella parte finale del film, quando Elisa si ribella al dramma uccidendo Chiara con un colpo di fucile esplosivo (e visivamente splatter) a seguito del dolore vissuto dapprima a tavola con gli inquietanti complici della congrega omicida e successivamente alla sconcertante dichiarazione di Fabrizio, appare la citazione velatamente tarantiniana. Il colpo esplode in un tripudio di sangue al quale fa seguito una sarcastica “schitarrata” western.

La scena del “pranzo”, non è quindi da sottovalutare. Il banchetto quasi cannibalesco, al quale partecipa la “donna mafiosa” con il circolo dei sudditi, tutti riuniti nella propria bolla di ignoranza, è tra le parti più terribili e temibili del film. Non tanto per l’interpretazione drammatica della Luz, quanto per l’idea alla base della “festa del dolore”: motivazioni ancora scavate nella cultura popolare, nella realtà del mondo e delle cose.
La gente povera ha fame. È la fame che fa muovere attraverso l’imposizione tirannica del potere, le azioni più terribili ed estreme. Per questo la gente del luogo fa quello che fa; perché ha fame. E la sazietà è concessa solo restando suddito passivo. Al banchetto lo spettatore può partecipare dei sapori e degli odori. Riesce a sentire l’odore del sangue mescolato a quello del formaggio. La pellicola puzza di vero, è calda come la terra, come il sole che illumina di verità l’intera inquadratura.

Così come puzza di verità il finale aperto che seppure interessante nella sua duplicità decostruita, ha destato e desta qualche dubbio sulla sua effettiva efficacia: Elisa, inizialmente inquadrata come la “classica” brava ragazza ma succube della volontà della madre raggiunge, dopo la brutta esperienza, la consapevolezza di se stessa e compie il gesto estremo di lanciarsi in acqua senza nessuno che corra ad aiutarla. Anzi, il tutto appare ancora più terribile nella sua normalità, perché la gente del luogo la filma e la fotografa con i cellulari.
L’acqua, come altri elementi nel film assume quindi un fortissimo significato simbolico: è il ritorno. Il ritorno alla consapevolezza, il ritorno al liquido amniotico dal quale siamo venuti, è il luogo della condivisione che ci accomuna tutti e che segna un nuovo inizio oltre, e ben oltre, l’essere solo l’epilogo di una situazione narrativa.

Ancora più sconcertante è quello che definirei il “secondo finale” del film. Perché A Classic Horror Story è un film complesso, al quale bisogna rivolgersi con la cultura necessaria a comprenderne lo spessore di ogni sua parte, di ogni inquadratura, di ogni passaggio di dialogo. La sua è una vera e propria stratificazione linguistica (oltre che concettuale e culturale) che va colta e letta con calma per essere individuata e decodificata al di fuori del primo impatto, al di fuori del semplice gusto citazionistico per se stesso.

La parte conclusiva stimola un’ulteriore riflessione: un padre di famiglia dietro a un finto lavoro al pc nasconde il canale “proibito”, anonimo, viene ripreso mentre salta tutto il film per vederne direttamente il finale dandone un giudizio negativo. Resta da capire se il pubblico di questo perverso canale web sia cosciente o meno del fatto che quei fatti narrati sui quali esprimono opinioni più o meno consapevoli, siano veri o meno.

Questa azione non nasconde solo una critica al consumismo voyeuristico delle immagini della morte in rete, ma è più da intendersi, forse, come una manifestazione di rabbia e di contrarietà che ha a che fare con una generalità di aspetti e non solo con il cinema. “Non abbiamo voglia di essere educati”, dice Lucio Besana in un’intervista a Broken Stories canale You Tube di Flavio Troisi (della quale consigliamo la visione e l’ascolto al link che segue: https://www.youtube.com/watch?v=2cRWeMinU2g)  perché ciò che si vuole trasmettere è l’idea di un futuro del cinema che non è esistito in Italia, un futuro che ancora deve arrivare.
Probabilmente un film come questo non sarebbe stato possibile senza la partecipazione di Netflix, perché rompe, ma anche ricuce, i rapporti con la tradizione filmica passata. È un film del confronto, che sembra nuovo e per certi aspetti lo è, ma per altri no. Per questo occorre riflettere su che cosa ne sarà di questo cinema nel futuro.

E dal mio punto di vista, che scrivo in quanto appassionata e non come critica cinematografica, penso che tale riflessione sia stata aperta proprio da questo film, che per il successo e la diffusione che sta avendo, ha di fatto sottolineato la necessità di tornare a parlare di horror dando la parola alle nuove generazioni alle quali bisognerebbe forse dare un po’ più di fiducia. Hanno preso da altri film come hanno fatto tutti. Si. Hanno citato grandi pellicole e ripercorso uno schema classico. Si. Hanno guardato oltreoceano e hanno provato a creare una cerniera con il gusto attuale. Si. Ma hanno fatto molto di più: hanno fatto un bel film che, volenti o nolenti, ha il loro stile e questa è la sola cosa che conta.

Sta di fatto che l’horror è un genere che vive di maleducazione, che esiste per disturbare, e questa pellicola è spinosa perché mette a confronto realtà diverse, le rende tangibili e presenti, mescola ironia e terrore creando un tutto incredibilmente spaventoso e temibile, dove le responsabilità sono condivise perché tutti sono chiamati in causa. E’ questo che non lo rende stupido e più terrificante.

Questa pellicola dice tanto di noi, della società in cui viviamo, va dunque apprezzata per la quantità e la qualità di stimoli di riflessione che comunica, per le “frecciate” pungenti che lancia alla vita di tutti.

 

 

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