Sting ama fare sorprese al proprio pubblico e, dall’alto della sua pluridecennale carriera, può ampiamente permettersi il rischio di azzardare proposte inusuali. Se negli ultimi anni alcuni lavori come Songs from the labyrinth (raccolta di musiche barocche di John Dowland), si sono rivelati dei progetti di nicchia e quindi non esattamente dei successi di massa, altri lavori sembrano essere stati lanciati quasi per bilanciare i progetti dall’anima più sperimentale con qualcosa che i fan attendevano da tempo. La famosa reunion dei Police di quasi dieci anni fa è stato l’esempio più eclatante, ma anche l’ultimo album, 57th & 9th, sembra inserirsi perfettamente in questo filone. Annunciato come l’album del ritorno al rock, la raccolta presenta dieci brani molto diretti e dagli arrangiamenti dominati da chitarre e da una strumentazione da rock band classica. Un album dall’ascolto agile e rapido (37 minuti di durata complessiva) molto accessibile e piacevole. Apre le danze il primo singolo, I can’t stop thinking about you: un vero manifesto programmatico del progetto musicale, con i suoi forti echi dei Police di Truth hits everybody (di cui ripropone il giro armonico di base, rielaborato da interessanti cambi armonici), le chitarre elettriche in primo piano, il tempo di 4/4 dritto e spedito e il ritornello scandito e orecchiabile. Il secondo pezzo, 50,000, segue la stessa scia: basso e chitarre in primo piano nella strofa, ritornello corale da stadio con un’apertura che riporta ad altri episodi noti del repertorio classico di Sting; un potenziale secondo singolo che chiude con la curiosa (e fuori moda) scelta di una dissolvenza in uscita. Down, down, down è un mid tempo condito da chitarre dai morbidi suoni americani e da una sintetica melodia della strofa che si allarga in un inciso dolcemente malinconico. One fine day, con il suo giro di basso che rimanda a All this time, è un altro brano dal tempo moderato che, attraverso la lieve melodia, sa trasmettere un senso di speranzosa serenità. La serie di brani morbidi e leggeri prosegue con Pretty young soldier, anch’esso condito da chitarre molto “americane”. Il ritmo e i toni si alzano con Petrol Head: un blues rock in cui la voce di Sting torna a sfoderare i suoi timbri più brillanti e ruvidi su un tempo incalzante ben scandito dalla sezione ritmica. La calma torna con Heading south on the great north road, un gioiello impreziosito da una chitarra acustica che con i suoi arpeggi insegue un inquieto giro armonico, su cui si adagia una morbida melodia degna degli episodi migliori della carriera compositiva dell’artista inglese. Un dialogo tra arpeggi di piano e chitarra apre If you can’t love me, malinconica ballata in 7/8 dai toni jazz che racconta i tormenti di una difficile relazione amorosa, su una musica la cui dinamica cresce costantemente fino a raggiungere l’apice in corrispondenza del verso che recita il titolo. I sapori mediorientali che avevano caratterizzato il successo del 1999 Desert Rose si ripresentano con toni decisamente più soffusi, dimessi e nostalgici con Inshallah: soffice ballata sostenuta da incalzanti percussioni nordafricane. The empty chair chiude la raccolta con i suoi dolci accordi di chitarra acustica, lasciandoci con un buon sapore da ballata di altri tempi. Se da un lato 57th & 9th presenta la formula “Sting suona Sting” (tipica di ogni artista che non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno, se non di essere ancora in grado di realizzare ottimi lavori), dall’altro la qualità media delle composizioni è così buona da fare sparire ogni esigenza di novità da parte di chi ascolta. Questo album si regge solo sulla forza della scrittura di un autore che ha segnato la storia del pop rock, e sulla sua capacità di avere ancora cose da dire con la classe e la qualità che lo contraddistinguono da sempre. Se le cose stanno così, continua pure a stupirci, Gordon. Navigazione articoli CARMEN VILLANI, DALLA TELEVISIONE ALLA COMMEDIA SEXY LUIGI TENCO, UN BAGLIORE NELLA NOTTE