Il 31 luglio del 1914 nasceva a Sanremo Mario Bava, oggi considerato all’unanimità uno dei più grandi registi del cinema thriller e fantastico. Vogliamo rendergli omaggio attraverso cinque scene memorabili tratte da alcuni suoi capolavori. Bava esordisce dietro la macchina da presa nel 1960, con quello che può essere considerato il primo vero grande film italiano del terrore: La maschera del demonio. Il dottor Chomas e il suo assistente Goberec viaggiano verso Mosca, ma a causa di un incidente giungono in una cappella fatiscente dove, dentro un sarcofago, trovano il cadavere di una strega giustiziata un secolo prima. Girato in uno splendido bianco e nero (la fotografia è del regista stesso) e liberamente ispirato al racconto di Gogol, La maschera del demonio si discosta dai prodotti d’oltreoceano per l’estrema crudeltà e per l’atmosfera morbosa e macabra che permea l’intera vicenda. https://www.youtube.com/watch?v=KxXYArbURKA Dopo aver dato un impulso fondamentale alla nascita del cinema horror nostrano, nel 1962 Bava gira anche uno dei primi film italiani incentrati sulla figura di un assassino. La ragazza che sapeva troppo avrebbe dovuto essere in origine una commedia a tinte gialle. A Bava però l’idea del giallo-rosa non piaceva granché, così cominciò a girarlo come un vero film di suspense. La storia è incentrata sulle gesta di un assassino che uccide alcune ragazze seguendo l’ordine alfabetico. È forse uno dei meno conosciuti tra i titoli del regista, anche se ha influenzato diversi film successivi. https://www.youtube.com/watch?v=VR9wC4zTRS8 Del 1964 è uno dei capolavori di Bava: I tre volti della paura, film diviso in tre episodi. Il primo, intitolato Il telefono, racconta di una donna perseguitata da un ex amante finito in prigione per colpa sua e che vuole vendicarsi. Pur non essendo l’episodio migliore, Il telefono dimostra l’abilità di Bava nel creare suspense anche con un soggetto privo di creature demoniache e non particolarmente spaventoso. Appartenenti al genere gotico sono gli altri due episodi. Quello centrale, che è anche il più lungo, vede come protagonista un attore leggendario, Boris Karloff (che veste anche i panni del narratore). Tratto dal racconto di Aleksei Tolstoi, I Wurdalak, concentra in sé tutte le qualità di Bava: estrema cura visiva, capacità di creare tensione e atmosfera, tagli di inquadratura e un uso del colore del tutto personale. La vicenda è semplice: un uomo arriva in una casa sperduta nella campagna russa (siamo nell’Ottocento) e viene a sapere che da quelle parti si crede a una leggenda secondo cui i morti tornano in vita per uccidere le persone che amano, e farle diventare a loro volta morti viventi. Ancora una volta Bava riesce a fare miracoli con pochi mezzi, e l’ambientazione nella steppa russa ricreata in studio ha un che di magico, irreale e terribile. Di grande impatto è anche il terzo episodio, La goccia d’acqua, dal racconto di Anthon Cechov. Una infermiera viene chiamata al capezzale di un’anziana signora, morta d’infarto mentre partecipava a una seduta spiritica. Perfetto nell’ambientazione, superbo nella cura dei dettagli, oscuro e cupo ma con luci quasi psichedeliche che s’accendono fuori dalle finestre, La goccia d’acqua è un saggio di regia e d’inventiva. Inventiva che Mario Bava dimostra di possedere in quantità industriale anche nel finale del film: il narratore saluta gli spettatori cavalcando di gran carriera, poi il regista carrellando indietro scopre il trucco. Il cavallo è finto e gli alberi sono mossi dai tecnici. Un finale non convenzionale per un film dell’orrore, eppure efficace. Sempre del 1964 è Sei donne per l’assassino. Ambientato in epoca moderna, comincia a mostrare quelle che saranno poi le caratteristiche peculiari del thriller/horror italiano: grande tensione, violenza efferata, omicidi creativi. In un atelier un assassino uccide una dopo l’altra alcune modelle. L’ispettore Silvestri indaga senza riuscire a fermare la catena di omicidi. Bava ha la felice intuizione di dotare l’assassino di un look particolare, come in certi fumetti che andavano per la maggiore in quegli anni: guanti neri, soprabito nero, volto coperto da una maschera bianca. La sceneggiatura è abbastanza in linea con i thriller di quel periodo (a uccidere è una coppia di amanti diabolici), ma l’idea del doppio assassino e le soluzioni visive adottate dal regista, attento soprattutto alla coreografia dei delitti, lo rendono senza dubbio una pietra miliare del cinema di genere. https://www.youtube.com/watch?v=5dX6g54pvbw Con Reazione a catena, del 1971, Bava inventa praticamente diversi sottogeneri: lo slasher (slash significa taglio, to slash colpire violentemente, tagliare, fendere) in cui gli omicidi vengono messi in atto per lo più con armi da taglio, il body count (conta dei corpi), dove gli omicidi cruenti si susseguono a ritmo continuo, e lo splatter (letteralmente: schizzare, spruzzare) per la violenza con cui vengono perpetrati gli omicidi, molto sanguinosi. Scritto da Dardano Sacchetti, Reazione a catena (conosciuto anche con i titoli Ecologia del delitto, L’antefatto e La baia insanguinata) inizia con l’omicidio di un’anziana contessa che vive da sola su un’isola che uno speculatore vorrebbe trasformare in un villaggio turistico. Bava riesce a miscelare con sapienza uno stile di ripresa non tradizionale, l’umorismo nero e i modi cruenti con cui vengono commessi gli omicidi (ripresi poi in vari film): decapitazioni, accettate in piena fronte, impalamenti. Navigazione articoli ANNAMARIA CLEMENTI NELLA COMMEDIA SEXY DUNKIRK: CHRISTOPHER NOLAN VA ALLA GUERRA
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